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Battiloro: Il Fabbro di Gioie
Battiloro: Il Fabbro di Gioie
Battiloro: Il Fabbro di Gioie
E-book334 pagine4 ore

Battiloro: Il Fabbro di Gioie

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Info su questo ebook

Elio è ancora un bambino quando subisce il fascino dei Fabbri di Gioie. Come loro, vorrebbe intraprendere il Cammino, il percorso attraverso il quale si diventa fabbricanti di prodigiose creazioni – i Lasciti. Purtroppo, è solo il figlio di un umile mastro ferraio della città di Càlibae. Passano gli anni spensierati della scuola, dei bagni alla Secchia con il suo amato cane Fajo, e il sogno di Elio sembra essere rimasto in un cassetto, lo stesso in cui conserva un cucchiaio speciale, dono di Erica, la figlia dell’ultimo Fabbro di Gioie della sua città. Ma eventi inaspettati costringeranno quel bambino, ormai quasi adulto, a compiere delle scelte che cambieranno per sempre la sua vita. Battiloro racconta il coraggio di inseguire i propri sogni e la forza di superare quella linea d’ombra, per dirla con Conrad, in cui si abbraccia la propria unicità e si diventa finalmente adulti.
LinguaItaliano
Data di uscita23 apr 2022
ISBN9788833469799
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    Anteprima del libro

    Battiloro - Luca Tomao

    battiloro-fronte.jpg

    Battiloro. Il Fabbro di Gioie

    di Luca Tomao

    Illustrazioni di Marcello Dimitrij Avellini

    Direttore di Redazione: Jason R. Forbus

    Progetto grafico e impaginazione di Sara Calmosi

    ISBN 978-88-3346-979-9

    Pubblicato da Ali Ribelli Edizioni, Gaeta 2022©

    Narrativa – Mondi Possibili

    www.aliribelli.com – redazione@aliribelli.com

    È severamente vietato riprodurre, in parte o nella sua interezza, il testo riportato in questo libro senza l’espressa autorizzazione dell’Editore.

    BATTILORO

    Il Fabbro di Gioie

    Luca Tomao

    AliRibelli

    Indice

    I

    Piccoli vecchi nemici e nuovi grandi amici

    II

    Il mattino ha l’oro in bocca

    III

    Il male di non potere scegliere, e quello di doverlo fare

    IV

    Una leggenda dal passato e un piano per il futuro

    V

    L’amore incondizionato sa bene come condizionare

    VI

    La spiaggia che cuce e spezza i cuori

    VII

    Ultimi e primi incontri

    VIII

    Carta da lettere e incartamenti

    IX

    Il mobile di legno, quello del primo bacio

    X

    Ce l’avevi

    XI

    Dirsi addio e dirselo di nuovo

    XII

    Il galoppo dell’asina

    XIII

    La storia non si sarebbe ripetuta

    XIV

    Elio dietro il riflesso. Ne sarà valsa la pena!

    XV

    Mi raccomando a te!

    XVI

    Epilogo

    A tutti i Fajo e, in primis, al mio.

    Ci ha messo tempo,

    ma l’amore che mi hai insegnato si è radicato.

    È buffo come la più potente e benigna tra le arti magiche sia l’unica a essere stata spazzata via da ogni memoria. I Fabbri di Gioie erano custodi, un tempo.

    Il mondo non aveva gli strumenti spirituali per capire di cosa.

    I più aridi, bramosi di possedere cose e persone, ti avrebbero detto «custodi di potere». Non l’avrebbero mai ammesso, ma di sicuro la maggior parte di essi aveva provato a diventare un Fabbro di Gioie, aveva tentato il Cammino e aveva fallito, intraprendendo poi la strada meno ardua per riuscire a garantirsi quanti più possibile dei loro Lasciti. I Lasciti venivano chiamati dai più grevi con il nome di «gioielli».

    I più semplici e meno diplomatici lasciavano trasparire la loro rabbia per essere all’oscuro dell’operato dei Fabbri di Gioie. Quando qualcuno di loro alzava un po’ il gomito, vantandosi di misteriosi affari particolarmente fruttuosi, diceva che non importava essere Fabbri di Gioie se si avevano molti soldi. Con quelli si compravano i gioielli, e quando ne compravi molti – quando possedevi quelli giusti – questi avrebbero acquisito potere negli anni, e così facendo potevi arrivare a governare un Fabbro di Gioie in persona; e allora lui e tutti i suoi simili avrebbero dovuto rivolgere la loro spocchia altrove.

    Agli altri, non certo al loro signore.

    «È già successo,» dicevano «qualcuno ce l’ha fatta…»

    I

    Piccoli vecchi nemici e nuovi grandi amici

    … Un po’ era vero, un po’ invece no.

    «Neanche il tempo di abituarci ad avere caldo abbastanza per coltivare i fichi d’India e siamo arrivati addirittura a vedere un albero fiorire in febbraio. Male, malissimo! Cosa succederà in estate? Chissà quanti vecchietti ci lasceranno anche solo per questa calura insopportabile… e quanti infanti! Con la siccità che promette questo inverno così mite, che cosa avranno da mangiare nei mesi più caldi?»

    «Eh sì, sì. Come no?» rispondeva l’anziano signore quasi completamente calvo, vicino a Ronco.

    Ronco amava fare pronostici ed essere pedante – non che se ne avvedesse – sfociando nel melodrammatico. Parlava di vecchi come se a settantaquattro anni suonati non appartenesse anch’egli alla categoria. Un po’ forse aveva ragione di farlo, dopotutto. Era straordinariamente atletico per la sua età. Con una finestra da riparare, lo avresti trovato in piedi su un davanzale, anche in piena estate, col sole cocente sulla testa appena incanutita, a scardinarla dalla sua cornice. Non importava nemmeno se si trattava delle abitazioni più alte dentro e fuori le mura della città di Càlibae.

    Conduceva una vita sana, in effetti, ma godeva anche di ottimi geni. Suo padre, nonno Alduino, era mancato a ben centodue anni ed era stato completamente indipendente fino al suo ultimo giorno di vita. A turno, sua figlia – sorella maggiore di Ronco – e le numerose nuore e nipoti visitavano la sua casetta per occuparsi delle faccende. Non perché non ce la facesse più da solo, ma per un certo scetticismo verso il suo concetto di pulizie domestiche. Per quanto riguardava l’igiene personale, invece, le donne preferivano fidarsi.

    Altrettanto longevo prometteva di essere suo figlio Ronco, ultimo di quattro. Il nostro prestante scardinatore di finestre era un gran chiacchierone, amichevole e gentile. Buffo nei modi e nei ragionamenti, si guadagnava la benevolenza di tutti ma, eccezion fatta per pochissimi, veniva apprezzato davvero solo a piccole dosi; se lasciato parlare a ruota libera, avrebbe fatto sanguinare anche orecchie spesse quanto quelle di un maiale.

    Se proprio volessimo trovare un suo piccolo nemico, dovremmo scavare nei ricordi, tornando indietro di almeno vent’anni.

    A quell’epoca, chi davvero non riusciva a stare un minuto nella stessa stanza dove Ronco si trovava era il suo terzogenito Elio.

    A dodici anni i ragazzini si dividevano in due tipologie: quelli che erano imbarazzati dai loro padri e quelli che ne diventavano delle copie in miniatura. Elio apparteneva senza dubbio alla prima di queste, ma c’era dell’altro. Il bambino era irritato da qualsiasi cosa Ronco dicesse e odiava il modo che aveva di parlare di lui in terza persona, come se Elio non fosse nemmeno presente. Lo faceva quando chiedeva perché si fosse alzato dal letto così tardi o per quale motivo non stesse mangiando la parte più dura della sua fetta di carne. Si trattava sempre di domande retoriche che mal celavano critiche o rimproveri. Era una cosa che Elio detestava, ma volendo con tutto se stesso evitare di dover parlare a suo padre, non muoveva mai un’accusa diretta verso questo suo atteggiamento.

    Tale era il suo malessere, che riusciva a trovare motivo di fastidio addirittura solo pensando alle fattezze di Ronco: un uomo dall’altezza media con un busto largo, poco collo e pancia pronunciata ma gambe e braccia molto esili, decisamente diverso dal suo ultimogenito, che di esile aveva ben poco.

    Elio era anzi piuttosto abbondante. Reduce da una fanciullezza che lo vedeva estremamente grasso, il nostro giovane amico iniziava da qualche anno a perdere un po’ di peso.

    La causa dell’intolleranza di Elio nei confronti di suo padre però non dovrebbe essere attribuita solo al bizzarro Ronco che, essendo un uomo molto semplice, difficilmente avrebbe mai compreso il disagio e quindi gli atteggiamenti di suo figlio.

    Elio, per certi versi, aveva un carattere ostico. Era viziato e inopportuno. Sebbene ci fosse una scintilla di intelligenza nelle sue battute e nelle sue fantasie, questa si dissolveva nel nulla ogni volta che avrebbe potuto rivelarsi utile; per esempio nello studio a scuola, per leggere un libro o almeno per capire che non era il caso di imbarazzare persone più grandi di lui con battute per soli adulti, dette con l’unico intento di apparire più maturo e sembrare un uomo vissuto.

    A scuola riscuoteva in egual modo simpatie e sprezzo, costantemente sulla soglia dell’essere zimbello e bersaglio dei più violenti. Questi però finivano spesso con lo scegliere come vittima per i loro pessimi scherzi qualcuno che si era conquistato meno consensi di Elio.

    I ragazzi usano la politica in maniera istintiva. Essa diventerà molto più ragionata da adulti ma a volte si rivela, in tanti di loro, sottile anche in tenera età. Neanche il peggiore dei bulli vuole rischiare di rendersi troppo impopolare e, fortunatamente, Elio faceva ridere abbastanza da godere della protezione dei più apprezzati della scuola. Il peggio che poteva capitare era che gli si desse della femminuccia per i suoi modi poco mascolini e la disinibita complicità con le ragazzine. Si trovava spesso al centro di piccoli gruppi che ridevano per le sue battute sugli insegnanti ed era anche il fidato custode di segreti e confidenze. Nessuno avrebbe mai saputo ciò che rivelavi a Elio, ma bisognava specificare che si trattava di un segreto; la scintilla della sua intelligenza si spegneva facilmente, come già detto.

    Càlibae era una piccola città collinare, circondata da una vegetazione non troppo rigogliosa. La terra era piena di sassi e le montagne in lontananza risultavano grigie alla vista, la sua parte migliore era il mare. Ci si impiegava sì e no il tempo del pasto del mattino per raggiungerlo a cavallo, ed essendo poco più in basso delle mura della cittadina, con l’esposizione giusta lo si poteva ammirare da casa. Sarà stato per questo, pensava Elio, che il nuovo Fabbro di Gioie l’aveva scelta.

    Ben sei classi nella scuola di Càlibae, e l’unica figlia del Fabbro era stata inserita nella sua.

    Tutti erano curiosi di conoscerla. A Elio era stato spiegato già qualche anno prima che i Fabbri di Gioie potevano anche metter su famiglia, ma in quel momento si rese conto di non averci mai creduto davvero. A ogni modo, la nuova persona più famosa della scuola si chiamava Erica e non voleva saperne affatto di essere interrogata in merito alla propria vita. Né, tantomeno, in merito a quella di suo padre.

    Elio era tanto attratto da Erica quanto dispiaciuto per lei. La sua espressione era perennemente quella di qualcuno che si sente insultato, messo al muro o cose simili. Era difficile capire perché mantenesse questo atteggiamento ma sembrava soffrire della propria posizione sociale e dell’attenzione dei compagni.

    Gli insegnanti erano gentili e riservati con lei e, quando potevano, lontani dalle sue orecchie, invitavano i ragazzi a esserlo a loro volta.

    Un giorno, durante la lezione di letteratura, il maestro aveva chiesto agli alunni di imparare una poesia e recitarla con musicalità, scatenando ansia da prestazione in tutti loro. Erica ebbe un’idea coraggiosa e originale, portò in classe un piccolo carillon per supportare la propria interpretazione. Era fatto di legno, con le pareti laterali che sembravano di latta o rame. Produceva una musica insolita, che sembrava provenire da un luogo lontano; ai compagni di Elio piacque molto. A lui non tanto, ma non per questo restò meno affascinato o incuriosito. Non aveva mai visto nulla di simile prima.

    «Dove è stato fatto il tuo carillon? Da dove viene questa musica?» Aevia, una ragazzina piuttosto riservata e silenziosa, aveva posto quelle domande con voce flebile ma con lo spirito che avrebbe riservato a qualsiasi altro compagno.

    «Dove vivevo prima. A nord, sull’altro mare.»

    Erica diede quell’unica risposta per tutt’e due le domande a voce bassa, ma non poté fare a meno di sorriderle. Elio sentì quanto la sua nuova compagna desiderasse essere trattata come chiunque altro. Aevia, con quella domanda sulla musica, la prima tra quelle rivolte a Erica che non riguardasse lei in prima persona o peggio, la sua famiglia, le aveva appena fatto la più apprezzabile delle cortesie. L’aveva fatta sentire come tutti gli altri.

    Sfortunatamente, la parte di Elio tanto sensibile da aver appreso quella lezione di vita non lo rese più sveglio in quei pochi secondi di illuminazione, lasciandolo a fissare ammirato la scena e mettendo Erica nuovamente a disagio.

    Ma Elio era amico di molti, Aevia inclusa. Si trattava di un’amicizia sincera, per nulla ostacolata dalla cotta che da sempre nutriva per lei. Questo significava che Erica, diventando amica di Aevia, capitava spesso nei paraggi durante le chiacchierate con il resto dei compagni di scuola, ed era scoppiata a ridere un paio di volte alle volgarità ostentate da Elio mentre scherzavano. Così, un primo seppur maldestro contatto con quella che agli occhi del ragazzino era una creatura soprannaturale c’era ormai stato.

    Erica non era poi così timida come appariva inizialmente. Elio pensava che se non fosse stata una femmina avrebbe sicuramente fatto parte di quei gruppetti di ragazzini in cerca di guai, che consumavano le suole delle scarpe – quando le indossavano – passando giorni interi per le strade della cittadella o rubando pere nei frutteti, solo per dimostrare di essere coraggiosi e corroborare le brutte dicerie sul loro conto.

    Una buona cattiva reputazione era tutto ciò che un uomo aveva, secondo alcuni ragazzi di età compresa tra i tredici e i sedici anni a Càlibae. Elio ne sapeva qualcosa perché saltuariamente faceva parte di questo genere di gruppetti. La scelta della parola saltuariamente non è casuale.

    Alla continua ricerca di attenzioni, che di questa ricerca fosse consapevole o meno, Elio voleva mostrare una personalità che non possedeva. In effetti, voleva mostrare tutte le personalità che riusciva a farsi venire in mente. Ne provava diverse come fossero vestiti, e delle volte, pareva cercasse quella che gli sarebbe stata meglio addosso ma secondo canoni improvvisati, disordinati.

    Oggi entrava di frodo in un frutteto con due amichetti per rubare dei cedri che apriva con maestria usando la fibbia della sua cintura – cintura che era stata nuova di zecca due fratelli addietro – mentre l’indomani avrebbe speso il pomeriggio a casa di una vecchietta della città, ascoltando i suoi racconti su una battaglia combattuta a Càlibae quasi settant’anni prima.

    Si potrebbe dedurne che Elio fosse un ragazzino incostante, e non a torto, ma c’era di sicuro qualcosa verso cui manteneva un’attrazione immutata, che non scemava mai, non si affievoliva. Nessuno dei suoi amici lo aveva notato, non era certo una cosa che l’avrebbe reso più interessante agli occhi dei giovanissimi. Degli adulti, poi, neanche a parlarne, non lo avrebbero nemmeno preso sul serio. Elio non aveva mai osato dirlo ad alta voce, ma sognava da sempre di sentirsi attraversare dalla magia dei Lasciti.

    Non che lo pensasse in questi termini, a quell’età non avrebbe potuto nemmeno articolare il suo desiderio con queste esatte parole. La frase che era stato capace di formulare nella sua mente era vorrei essere un Fabbro di Gioie.

    Ingenuamente, all’età di sette anni, quando iniziava da poco a scrivere, aveva impresso questa sua brama con penna e calamaio su un pezzo di carta: Sono Elios Tassi e sono un Fabbro di Gioie. In realtà, aveva scritto fabro di goie ma non è questo il punto. Il fatto interessante era stato che dopo due giorni, Abele, suo fratello più grande, trovato quel pezzo di carta andò da lui.

    Abele era di undici anni più grande di Elio, il fratello mezzano Orazio più di Elio ne aveva solo otto, ed entrambi erano trattati dai loro genitori come dei vicepadri del ragazzino. Ogni loro opinione, ogni critica sul suo conto veniva avallata da mamma Ilma e papà Ronco senza contraddittorio.

    In principio, Abele lo aveva preso in giro per quello che aveva scritto, sembrava quasi che scherzasse, poi si era fatto serio e aveva aggiunto che suo fratello non poteva essere uno di quelli. Per quanto rispettati e invidiati, essendo i Fabbri di Gioie uomini dalla posizione sociale unica e misteriosa e quasi mai accompagnati da una donna, non erano il modello che le famiglie più semplici sognavano per i propri figli.

    Un improvviso moto di vergogna aveva travolto Elio, che aveva finto un risolino irriverente per il fratello per poi lasciare la grande cucina ormai immersa nel silenzio. Perfino bambini così piccoli sono capaci di nascondere, dietro a una risata e una linguaccia dispettosa, i più dolorosi colpi subiti. Mai più Elio avrebbe nominato un Fabbro di Gioie in presenza di Abele.

    Pochi anni dopo quell’episodio, Elio stava giocando con un pezzo di vetro. I bordi frastagliati riflettevano la luce del sole, ispirandogli l’immagine di un Lascito che lui maneggiava per farne scaturire chissà quale prodigio. La voce di Abele, apparso alle sue spalle, lo sorprese con un sarcastico: «Magia! Magia!».

    Era solo uno scherzo, oppure un avvertimento, in ogni caso Elio – sempre sensibile all’opinione del primogenito – da quel giorno in poi, fu molto più attento ad assicurarsi di essere solo quando giocava al Magico Potere Dei Lasciti.

    Chi avrebbe mai detto che proprio lui sarebbe diventato amico della figlia di un Fabbro di Gioie? Inutile dire che nonostante l’amicizia sincera, la complicità a scuola, le risate, le corse con la primavera alle porte, c’erano sempre mille domande intrappolate nella gola di Elio riguardanti il padre della sua amica.

    La famiglia di Elio Tassi aveva una casa molto grande, lontana dal centro della cittadina dove si trovava anche la scuola. Molti dei suoi compagni passavano del tempo insieme più spesso di quanto potessero fare con Elio che doveva accontentarsi di stare in compagnia del suo cane, Fajo, compagnia che tendeva a ignorare. Per questo, ogni tanto, due o tre dei suoi amici andavano a studiare di pomeriggio in casa sua. Anche Erica ci era andata in qualche occasione ed Elio pensava a quanto fosse strano che non si potesse nemmeno considerare l’idea di andare per una volta da lei.

    Di nuovo, si sentiva triste per la sua amica e capiva di essere fortunato ad avere una famiglia ospitale, una madre che offriva loro pane appena sfornato con burro o miele e latte d’asina da bere. Chissà cosa si provava a essere figli di un Fabbro di Gioie, mai completamente parte di un gruppo, sempre speciali, sempre un po’ soli.

    E se era così dura essere figlio di un Fabbro di Gioie chissà quanto poteva essere difficile l’esistenza del padre di Erica. Qualunque domanda riguardante la sua famiglia era un campo minato sul quale nessuno voleva più camminare, tanto che Elio si era reso conto di non sapere neanche i nomi dei genitori della sua amica.

    «Senti, come si chiamano i tuoi genitori?»

    Di nuovo quello sguardo basso, lo stesso che aveva durante i primi giorni a scuola. «Mia madre si chiama Linda e mio padre Edgardo.»

    «Mmh.» Fu l’unica reazione di Elio, fare come se niente fosse, perché è così che avrebbe dovuto essere. Dopotutto, le aveva chiesto solo il nome dei suoi genitori, non di mostrargli il misterioso laboratorio nel retro della boutique di suo padre. Era un’informazione che avrebbe chiesto a qualunque nuovo amico, e se voleva essere trattata con naturalezza doveva limitare le censure.

    Elio era orgoglioso di sé per aver tirato fuori il coraggio di porle quella domanda, così ora poteva fantasticare di chiamarsi Edgardo e di avere la dote di forgiare anelli che avrebbero protetto due sposi e realizzato i loro sogni, se li avessero perseguiti insieme, dal giorno in cui se li fossero scambiati. Oppure bracciali per le nascite, che avrebbero dato conforto e sarebbero cresciuti con i bimbi che li ricevevano in dono. Almeno finché chi glieli aveva regalati avesse continuato ad augurar loro ogni bene e ad amarli.

    II

    Il mattino ha l’oro in bocca

    I più umili ti avrebbero dato risposte diverse. C’era chi, pigro o forse semplicemente un cuor contento, si sarebbe accontentato di parlare dei Fabbri di Gioie come sacerdoti con un canale segreto e misterioso con la Terra, il tempo e la vita stessa. C’era magia in questa idea, e come sempre quando c’era la magia di mezzo, per nessuna domanda ci si affannava a trovare una vera risposta. Altri ti avrebbero detto che non sapevano nemmeno se i Fabbri di Gioie fossero persone a tutti gli effetti come me e te, o se ci fosse qualcosa di realmente magico in loro. Vero era, però, che nascevano da famiglie normali.

    Il Cammino, quel percorso che li portava a diventare fabbricanti delle loro prodigiose creazioni, sembrava qualcosa di costoso da intraprendere. Eppure, pareva che alla fine i pochi perseveranti, tra tutti coloro che vi si accostavano, riuscissero in qualche maniera a poterselo permettere. Tra coloro che non trovavano la strada per diventare Fabbri di Gioie, in effetti, c’era chi lamentava di non essere riuscito a sbarcare il lunario e di non aver potuto andare avanti. Stranamente però, persone a volte più povere di altre ce la facevano…

    … In alcuni casi.

    Era il mese di giugno. Càlibae era tutta sole, la scuola volgeva al termine; i cinque maestri che si dividevano le sei classi dell’unico istituto in città erano giunti in prossimità delle ultime nozioni che intendevano dare ai loro allievi, prima della pausa estiva. Quando avessero ritenuto le lezioni terminate e apprese, solo allora e mai in una data specifica, avrebbero salutato gli scolari.

    Tendevano a liberarli nello stesso periodo, per evitare che ci fossero classi costrette a tollerarne altre già libere, sentendosi così intrappolate a scuola ingiustamente e vivendo la cosa come una punizione. Purtroppo però, uno o due giorni di scarto si creavano sempre.

    Elio e i suoi amici furono molto fortunati quell’anno. Erano tra i primi ad aver terminato tutte le lezioni e decisero di trascorrere un paio di giorni incontrandosi fuori dalla scuola al mattino e girovagando per il centro della piccola città. C’era già caldo abbastanza per azzardare un bagno nella Secchia.

    La Secchia era un posto molto più bello e divertente del nome che portava. Nel centro di Càlibae in direzione del mare e non lontana dal Mercato Piccolo, questa minuscola piazzetta stava incastonata tra le case più antiche del borgo. Tantissimi anni addietro era sprofondata a causa di un terremoto e si era allagata con l’acqua di un fiumiciattolo sotterraneo che zampillava di continuo e ne manteneva costante il livello.

    Come in tutta la parte centrale della cittadina, case e strade erano fatte di pietre grigie che sprofondando si erano dissestate solo di poco, creando un piccolissimo laghetto cristallino, di cui si riusciva a vedere perfettamente il fondale.

    Gli uomini più alti di Càlibae avrebbero potuto passeggiare da una riva all’altra, attraversando a piedi l’antica piazzetta sommersa. Avrebbero camminato tra le due panchine, così come si faceva quotidianamente fino a cento anni prima, sorpassato la fontana e ammirato l’obsoleto lampione ormai privo di candela al suo interno. Tutto perfettamente intatto, sotto due metri d’acqua o poco più.

    Elio amava nuotare nella Secchia.

    Ogni estate durante la bella stagione la sua resistenza aumentava in maniera considerevole; la sensazione di non avere più aria nei polmoni, quando arrivava, era orribile, ma prima di quel momento si godeva l’illusione di attraversare la piazzetta senza tempo, quasi volando.

    Per intrattenere i suoi amici svuotava la pancia soffiando bolle d’aria verso la superficie. Così facendo, riusciva a calarsi fino a sedere su una delle panchine sommerse, come fosse stato il passante di un secolo prima, e mimava di sfogliare un libro immaginario, oppure si stendeva sul fondale fingendo di prendere il sole.

    Sosteneva di farlo in maniche di camicia e pantaloni corti perché lo spettacolo fosse realistico, la verità era che si vergognava del proprio corpo. Il brutto sarebbe arrivato dopo, quando avrebbe dovuto passare ore con indosso i vestiti fradici, ma non gli importava. In estate non era così male portare abiti bagnati che non ci mettevano poi tanto ad asciugarsi.

    Faceva il bagno lì più spesso che al mare, da quando aveva memoria.

    Una volta, quando era bambino, dopo aver imparato a stare a galla, aveva ottenuto il permesso di fare il bagno nella Secchia da solo e aveva portato il suo cane Fajo con sé. Qualcuno però aveva iniziato a lanciare occhiate di sdegno perché pareva che il cagnolino, un po’ sporco di terra, avesse liberato un velo di fango nelle acque del laghetto. Elio non se n’era accorto ma sfortunatamente sua madre sì, e si era arrabbiata e imbarazzata talmente tanto che non gli permise più di condurre la bestiola oltre il terreno intorno a casa Tassi. Da quel giorno, le esperienze che il bambino poteva condividere con il suo cane si erano limitate di molto.

    C’erano anche delle piccole salamandre nella Secchia. Passavano la maggior parte del tempo con le teste fuori dall’acqua e i lunghi corpicini sommersi che confluivano nella curva armonica della coda. Le zampette erano sospese, solo occasionalmente disturbate dallo zampillo proveniente dal fondo e dalla corrente dei nuotatori in visita. Formavano una piccola «s» perfettamente visibile anche fuori dal lago. Dalla punta dei musetti vagamente sorridenti all’estremità delle code, oziavano sul pelo dell’acqua sfoggiando il loro bel verde acido; era un colore inusuale per questi animali, ma alcuni a Càlibae dicevano dipendesse dall’eccessiva quantità di calcio nella Secchia, per via di tutte le pietre di cui era fatta.

    In effetti, Elio non poteva sperare di andare a farsi

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