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In affitto: La saga dei Forsyte vol. 3
In affitto: La saga dei Forsyte vol. 3
In affitto: La saga dei Forsyte vol. 3
E-book449 pagine6 ore

In affitto: La saga dei Forsyte vol. 3

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Info su questo ebook

Londra: la Prima Guerra Mondiale è terminata da poco e la borghesia inglese affronta i cambiamenti. Tra loro i Forsyte: i più anziani – come Soames – cercano di mantenere l’antico prestigio; i più giovani cercano invece una via diversa.Tra questi ultimi ci sono Jon, figlio di Jolyon e Irene, e Fleur, figlia di Soames. Tra i due giovani, quasi coetanei che per vent’anni hanno ignorato l’esistenza l’uno dell’altra, nasce inevitabilmente l’amore. Ma il loro amore fa sì che inevitabilmente vengano alla luce i segreti risalenti a molti anni prima, quando Irene era la moglie di Soames. 
Contiene l’interludio “Risveglio”.
LinguaItaliano
Data di uscita21 gen 2017
ISBN9788899403294
In affitto: La saga dei Forsyte vol. 3
Autore

John Galsworthy

John Galsworthy was a Nobel-Prize (1932) winning English dramatist, novelist, and poet born to an upper-middle class family in Surrey, England. He attended Harrow and trained as a barrister at New College, Oxford. Although called to the bar in 1890, rather than practise law, Galsworthy travelled extensively and began to write. It was as a playwright Galsworthy had his first success. His plays—like his most famous work, the series of novels comprising The Forsyte Saga—dealt primarily with class and the social issues of the day, and he was especially harsh on the class from which he himself came.

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    Anteprima del libro

    In affitto - John Galsworthy

    18

    Dello stesso autore nella collana Aurora:

    Il possidente. La saga dei Forsyte vol. I

    In tribunale. La saga dei Forsyte vol. II

    John Galsworthy, In affitto (La Saga dei Forsyte vol. III)

    1a edizione Landscape Books, gennaio 2017

    Collana Aurora n° 18

    © Landscape Books 2017

    Titolo originale: To Let

    Traduzione di Gian Dàuli dall’edizione Corbaccio 1929, riveduta e corretta

    www.landscape-books.com

    ISBN 978-88-99403-29-4

    In copertina: The Old Hall Under Moonlight di John Atkinson Grimshaw.Progetto grafico service editoriale il Quadrotto.

    Realizzazione editoriale a cura di WAY TO ePUB

    www.waytoepub.com

    John Galsworthy

    La saga dei Forsyte III

    In affitto

    Presentazione dell’opera

    La collana Aurora si propone di recuperare classici ormai dimenticati e introvabili della letteratura italiana e internazionale, con un breve apparato critico di approfondimento.

    John Galsworthy attese quasi quindici anni per dare un seguito a The Man of Property, primo libro della saga dei Forsyte, e meno di un anno per concludere la trilogia dando alle stampe To Let. Di contro, però, mentre In Chancery, il secondo volume, era ancora ambientato a cavallo tra il xix e il xx secolo – quindi vent’anni nel passato rispetto a quando Galsworthy lo scriveva – To Let scavalla il ventennio ed è praticamente contemporaneo all’epoca di scrittura.

    Questo fa sì che, per stile e temi, gli ultimi due romanzi della saga si assomiglino tra loro più di quanto assomiglino al primo, ma Galsworthy riesce a creare un’unità narrativa (che comprende anche i due interludi) coerente e forte.

    La scelta di arrivare al presente ne porta con sé un’altra molto coraggiosa: Galsworthy salta la Grande Guerra, che viene in questo volume solo rievocata per le conseguenze economiche, sociali e psicologiche che hanno sulla collettività e sui singoli. E d’altronde fa parte dello stile dell’autore inglese concentrarsi sui personaggi e sui loro tormenti interiori, lasciando che gli eventi ricoprano un ruolo di sfondo.

    Protagonista è ancora Soames, il possidente, sempre più rappresentante di un mondo che sta scomparendo, anche se proprio in questo romanzo dimostra una notevole capacità di capire e accettare i cambiamenti. Ma i veri protagonisti sono i ragazzi della terza generazione dei Forsyte, e in particolare la figlia di Soames e il figlio di Jolyon (e Irene). Inconsapevoli delle faide che hanno diviso i rami della loro famiglia, andranno incontro alla scoperta della verità con lo spirito di chi non vuole che vecchie convenzioni e sentimenti rovinino il sogno di un futuro felice.

    Con questo romanzo – tradotto in Italia anche con i titoli Affittasi e Appigionasi negli anni ‘30 – si concludono la saga ma non le vicende della famiglia Forsyte. Galsworthy infatti darà alle stampe altre due trilogie, Una commedia moderna e Fine della storia che riprendono le storie di personaggi collaterali e delle giovani generazioni della famiglia. Anche questi romanzi verranno prossimamente pubblicati nella collana Aurora.

    INTERLUDIO

    Risveglio

    Erano le cinque del pomeriggio; nella luce diffusa che illuminava l’atrio d’ingresso a Robin Hill, il sole di luglio cadeva proprio all’angolo dell’ampia scala; e in quella striscia luminosa era fermo il piccolo Jon Forsyte, vestito di tela azzurra. I suoi capelli e i suoi occhi luccicavano, ma la sua fronte era corrugata, perché stava meditando come scendere le scale, l’ultima d’innumerevoli volte, prima che l’automobile riconducesse a casa suo padre e sua madre. Quattro gradini alla volta e cinque in fondo? Vecchio gioco! Lungo la ringhiera? E in che modo? Sulla faccia, coi piedi in avanti? Vecchissimo! Sullo stomaco, di traverso? Stupido. Sulla schiena, con le braccia tese da tutt’e due le parti? Proibito! Sulla faccia, con la testa avanti, in modo del tutto nuovo e sconosciuto? Era questa la causa del cruccio che appariva sulla faccetta illuminata del piccolo Jon…

    In quell’estate del 1909, le anime semplici – che anche allora desideravano semplificare la lingua inglese – non conoscevano, naturalmente, neanche l’esistenza del piccolo Jon, altrimenti l’avrebbero reclamato come proprio discepolo. Ma in questa vita non era possibile essere troppo semplici: il suo vero nome era Jolyon, ed era chiamato Jon solamente perché il padre, tuttora vivente, e il fratellastro morto avevano da tempo usurpato gli altri diminutivi: Jo e Jolly. Sta di fatto che il piccolo Jon aveva fatto del suo meglio per conformarsi alle convenzioni, scrivendo il suo nome prima Jhon e poi John; e s’era deciso infine a scriverlo Jon soltanto quando suo padre gliene aveva spiegato l’assoluta necessità.

    A questo padre apparteneva tuttora quella parte del suo cuore che non era di Bob, il servitorello che sapeva suonare il concertino, e di Da, la governante che la domenica portava un vestito violetto e godeva del nome di Spraggins in quella vita privata in cui, talvolta, vivono anche le persone di servizio. Sua madre gli appariva soltanto come in sogno, dolcemente profumata, nell’atto di accarezzargli la fronte prima che si addormentasse e talvolta di lisciargli i suoi capelli di un bruno dorato. Se l’era trovata accanto quella volta che s’era tagliato la fronte contro il parafuoco nella sua camera; e quando si svegliava da un incubo, se la vedeva seduta sul letto pronta a coccolarlo tra le braccia. Era carissima ma lontana, perché Da era già così vicina, e nel cuore di un uomo non c’è mai posto per più di una donna alla volta. Con suo padre poi aveva un legame speciale: perché anche il piccolo Jon voleva diventare un pittore da grande, con questa piccola differenza però: che il padre dipingeva quadri mentre il piccolo Jon voleva dipingere muri e soffitti, stando in piedi su di un asse appoggiato a due scale a pioli, con un sudicio camicione bianco, tutto odoroso di calce. Inoltre, suo padre lo conduceva a cavalcare a Richmond Park, sul suo cavallino Mouse, così chiamato perché aveva il mantello color dei topi.

    Il piccolo Jon era nato, come suol dirsi, con la camicia. Non aveva mai udito suo padre o sua madre parlare con voce irosa né tra di loro, né con lui, né con gli altri; il servitorello Bob, il cuoco, Jane, Bella e gli altri domestici, persino Da, l’unica che talvolta lo rimproverasse, assumevano, parlando con lui, un tono di voce speciale. Perciò lui pensava che il mondo fosse un luogo di perfetta, perpetua libertà e gentilezza.

    Bimbo nel 1901, era giunto all’età della ragione quando il suo paese, subito dopo quell’attacco di febbre scarlattina – che era stata la guerra boera –, si preparava per la rinascita liberale del 1906. La coercizione non era più di moda e i genitori credevano fosse loro dovere far fare la bella vita ai propri figli. Inoltre, scegliendo come padre un amabile gentiluomo di cinquantadue anni, che aveva già perduto il suo unico figliolo, e come madre una donna di trentotto, di cui era il primo e l’unico figlio, il piccolo Jon aveva agito bene e saggiamente. Ciò che gli aveva impedito di diventare qualcosa tra un cagnolino da salotto e un maialetto era stata l’adorazione di suo padre per sua madre; perché anche il piccolo Jon poteva capire che lei non era soltanto sua madre e che nel cuore del padre lui non occupava che il secondo posto. Quale posto occupasse nel cuore di sua madre ancora non lo sapeva. Quanto alla zietta June (veramente era la sua sorellastra, ma era così vecchia che il nome di sorella non le si confaceva più), lei lo amava, certamente, ma era troppo brusca. Anche la sua Da, per quanto affezionata, aveva dei modi un po’ spartani. Gli faceva fare il bagno freddo, lo mandava con le ginocchia nude, e non lo incoraggiava mai a essere delicato e pettegolo. Quanto alla discussa questione dell’educazione, il piccolo Jon condivideva la teoria per cui i bambini non devono mai essere forzati a nulla. Gli piaceva abbastanza la mademoiselle che veniva per due ore ogni mattino a insegnargli la sua lingua, e un po’ di storia, di geografia e d’aritmetica; né gli dispiacevano le lezioni di pianoforte che gli dava sua madre, perché lei aveva un suo modo di attirarlo da un motivo all’altro, senza mai costringerlo a studiarne uno che non gli piacesse, così che rimaneva sempre in lui il desiderio di trasformare in otto dita i suoi dieci pollici. Suo padre gli insegnava a dipingere dei maialetti di fantasia e altri animali. Non era un ragazzino straordinariamente ben educato. Tuttavia, nel complesso, l’esser nato con la camicia non l’aveva viziato né guastato, sebbene Da dicesse, talvolta, che vivere con gli altri bambini gli avrebbe fatto un mondo di bene.

    Perciò fu una gran delusione per lui quando, all’età di circa sette anni, un giorno lei lo fece sdraiare sulla schiena, e così lo tenne fermo, per impedirgli di fare qualcosa che non approvava.

    Questa prima intrusione nel libero individualismo di un Forsyte lo fece diventare quasi frenetico. Nella completa impotenza cui lo riduceva quella posizione e nell’incertezza di quanto sarebbe durata c’era qualcosa di spaventoso. E se non l’avesse lasciato alzare mai più? Soffrì la tortura per cinquanta secondi, urlando con quanta più voce aveva in gola. Soprattutto gli diede pena l’accorgersi che Da ci aveva messo tutto quel tempo per comprendere l’agonia di terrore che lui soffriva. Così, dolorosamente, gli si rivelò la mancanza di immaginazione degli esseri umani. Quando si ritrovò in piedi, rimase convinto che Da avesse compiuto una cosa orribile. Benché non volesse accusarla, temendo tuttavia che la cosa si ripetesse era stato costretto a cercar sua madre per dirle:

    «Mammina, di’ a Da che non mi tenga disteso sulla schiena, mai più».

    Sua madre, sollevando sopra la testa le mani, che tenevano due bande di capelli couleur de feuille morte – come il piccolo Jon non aveva ancora imparato a definirli –, l’aveva guardato coi suoi grandi occhi, che parevano due pezzettini della sua tunica di velluto scuro, e gli aveva risposto:

    «Sì, caro, glielo dirò».

    Siccome la madre gli appariva come una divinità, il piccolo Jon si sentì rassicurato; specialmente quando, a colazione, da sotto la tavola dove s’era cacciato per cercare di ottenere un funghetto, l’aveva sentita dire a suo padre:

    «Allora, caro, lo dirai tu a Da, o lo faccio io? Gli è così affezionata!» e aveva udito la risposta di suo padre:

    «Sì, ma non è questo il modo di dimostrarglielo. Capisco perfettamente quel che si deve provare a esser tenuti giù sulla schiena. Nessun Forsyte può sopportare una cosa simile, neanche per un minuto».

    Sapendo che essi ignoravano la sua presenza, il piccolo Jon provò il senso, nuovo per lui, dell’imbarazzo, e rimase dove si trovava, benché divorato dal desiderio del fungo.

    Era stato questo il suo primo tuffo negli abissi dell’esistenza. Dopodiché, nulla d’importante gli si era rivelato, sino al giorno in cui, essendo andato alla vaccheria per bere, come di solito, il suo latte fresco, appena Garrat avesse finito di mungere, aveva visto un vitellino morto. Inconsolabile, seguito da Garrat tutto sconvolto, era andato a cercare Da; ma comprendendo improvvisamente che non era quella la persona che ci voleva, si era precipitato da suo padre, correndo poi tra le braccia della madre.

    «Il vitellino è morto! Oh! Oh! Come sembrava tranquillo!»

    L’abbraccio di sua madre, e le sue parole:

    «Sì, caro, qui, qui!» avevano calmato i suoi singhiozzi. Ma se il vitello era potuto morire, potevano morire anche tutte le altre creature – non soltanto le api, le mosche, gli scarabei e le galline – e avere poi quell’aspetto tranquillo! Era un pensiero spaventoso – ma fu presto dimenticato.

    Gli era servito poi sedersi sopra un calabrone; ed era stata questa un’esperienza piuttosto pungente, che sua madre aveva compreso molto meglio di Da; e null’altro era accaduto di veramente notevole fino alla fine dell’anno quando, dopo una giornata di straordinarie sofferenze, aveva goduto di una malattia fatta di macchiette rosse, e quindi del letto, del miele preso a cucchiai e di molte arance di Tangeri. In quell’occasione il mondo era improvvisamente fiorito per lui. E questa fioritura fu dovuta alla zietta June, la quale, non appena Jon si trovò a essere un piccolo infelice, si precipitò da Londra, portando con sé i libri che avevano deliziato la sua adolescenza, verso il 1869. Erano vecchi, di molti colori, ricchi di formidabili avvenimenti. Li lesse al piccolo Jon, finché lui non fu in grado di leggerli da sé; dopodiché se ne tornò a Londra di corsa, lasciandogliene un bel mucchio. Questi libri alimentarono la sua fantasia, cosicché egli sognava e fantasticava continuamente di guardiamarina e canoe, pirati, zattere, mercanti di legno di sandalo, cavalli d’acciaio, imbroglioni, battaglie, Tartari, Pellerossa, palloni, Polo Nord e altre cose stravaganti e deliziose. Appena gli permisero di alzarsi, equipaggiò il suo letto di tutto punto e se ne partì in una stretta tinozza, attraversò il mare rappresentato dal tappeto verde sino a una roccia, dove s’arrampicò per mezzo dei pomi del suo cassettone di mogano per scrutare l’orizzonte col bicchiere appoggiato all’occhio come un cannocchiale, alla ricerca di navi che venissero a salvarlo. Ogni giorno si faceva una zattera col porta-tovaglie, col vassoio del tè e con i cuscini. Metteva da parte il sugo delle prugne cotte e lo raccoglieva in una bottiglietta vuota, considerandolo come rum per approvvigionare la sua zattera; si faceva anche la sua provvista di carne secca con dei pezzettini di pollo seccati al fuoco; e dell’unguento contro lo scorbuto col sugo delle pelli d’arancia e un po’ di sciroppo avanzato. Un mattino costruì un Polo Nord con tutte le lenzuola e vi giunse in una canoa fatta di scorza di betulla (che nella vita reale non era altro che il parafuoco), dopo un terribile incontro con un orso polare fabbricato con la coperta e quattro birilli vestiti con la camicia da notte di Da. Dopodiché suo padre, allo scopo di dare un certo ordine alla sua immaginazione, gli portò Ivanhoe, Bevis, un libro su Re Artù e Tom Brown’s Schooldays. Jon lesse il primo e per tre giorni non fece altro che costruire, difendere e assalire – alternativamente – il castello di Front de Boeuf, interpretando tutte le parti all’infuori di quelle di Rebecca e di Rowena; con grida laceranti di: "En ayant, de Brucy!" ed espressioni del genere. Dopo aver letto il libro su Re Artù, s’identificò quasi completamente con Sir Lamorac de Galis, perché, sebbene ci fosse poco di lui, preferiva il suo nome a quello di tutti gli altri cavalieri; e cavalcò il suo vecchio cavallo a dondolo senza dargli mai riposo, armato di una lunga canna di bambù. Bevis, invece, lo trovò noioso; e poi, ci volevano i boschi e degli animali; mentre lui nella sua stanza da gioco non aveva che i due gatti, Fitz e Puck Forsyte, i quali non permettevano molta libertà. Per Tom Brown era ancora troppo giovane. Fu un sollievo per tutta la casa quando, dopo quattro settimane, ebbe il permesso di scendere e andare fuori.

    Era il mese di marzo e le piante erano straordinariamente simili ad alberi di bastimento; e fu quella per il piccolo Jon una meravigliosa primavera, che mise però a dura prova le sue ginocchia, i suoi calzoncini e la pazienza di Da, la quale doveva lavare e riaggiustare i suoi abiti. Ogni mattina, appena terminata la colazione, suo padre e sua madre, le cui finestre davano da quella parte, potevano vederlo uscire dallo studio, attraversare la terrazza e arrampicarsi sulla vecchia quercia, col volto risoluto e i capelli lucenti. Cominciava così la sua giornata, perché non aveva tempo di andare lontano nei campi prima delle lezioni. La vecchia pianta non lo stancava mai: aveva albero maestro, albero di trinchetto e parrocchetto, ed egli poteva sempre discenderne lungo le drizze o corde delle vele. Dopo le lezioni, che finivano alle undici, andava in cucina a procurarsi un pezzetto di formaggio, un biscotto e due prugne secche – provvista sufficiente almeno per un canotto –, e le mangiava in qualche forma fantasiosa; poi, armato fino ai denti con fucile, pistola e spada, cominciava il lavoro serio della giornata, incontrando per la via innumerevoli mercanti di schiavi, pirati, indiani, leopardi e orsi. Era difficile che lo s’incontrasse a quell’ora senza un coltellaccio tra i denti (come Dick Needham) in mezzo alle rapide esplosioni delle capsule di rame. Ed erano molti i giardinieri ch’egli colpiva con piselli secchi, le munizioni con cui caricava il suo piccolo fucile. Viveva una vita tutta fatta di azione violenta.

    «Jon è terribile», disse un giorno suo padre a sua madre, sotto la quercia. «Ho paura che voglia fare il marinaio, o qualche altro mestiere disperato. Vedi in lui qualche segno che dimostri una certa capacità ad apprezzare la bellezza?»

    «No, per nulla».

    «E fortuna che ancora non ha la passione per le ruote e per le macchine. Son cose che non posso sopportare. Vorrei che avesse maggiore interesse per la natura».

    «È pieno d’immaginazione, Jolyon».

    «Sì, di un’immaginazione sanguinaria. Ti pare che ora voglia bene a qualcuno?»

    «No, a nessuno in particolare, ma a tutti. Non ho mai visto una creatura vivente più amabile e più amante di Jon».

    «È tuo figlio, Irene».

    In quel momento il piccolo Jon, sdraiato su un ramo, in alto, sopra le loro teste, li colpì con due piselli; ma quel frammento di discorso rimase nel suo cervello, pur senza essere perfettamente compreso.

    Ormai le foglie erano folte, e si avvicinava il giorno del suo compleanno, il dodici di marzo.

    Ma tra il suo ottavo compleanno e quel pomeriggio in cui l’abbiamo trovato all’angolo della scala, nella luminosità del sole di luglio, erano accadute diverse cose rilevanti.

    Da, stufa di lavargli le ginocchia, o mossa da quell’istinto misterioso che costringe persino le balie ad abbandonare i loro lattanti, se ne andò il giorno stesso del suo compleanno con fiumi di lacrime, per sposarsi – pensate un po’! – con un uomo. Il piccolo Jon, al quale s’era tenuta la cosa nascosta, fu inconsolabile per un intero pomeriggio. Non avrebbero dovuto nascondergli una cosa simile! Due grandi scatole di soldati, alcuni cannoni e il libro The young Buglers, che si trovavano tra i regali per il suo compleanno, operarono nel suo dolore una specie di diversivo e, invece di cercare avventure di persona, mettendo in pericolo la propria vita, cominciò a fare giochi immaginari, in cui metteva in pericolo la vita di innumerevoli soldatini di stagno, pezzetti di marmo, pietre e fagioli. Fece collezione di queste diverse forme di chair à canon, e, usandole a turno, combatté la guerra di Spagna, quella dei sette anni, dei trent’anni, e altre ancora di cui ultimamente aveva letto in una grossa Storia d’Europa che era appartenuta a suo nonno. Le modificava a seconda dei suoi gusti e le combatteva sul pavimento della stanza da gioco, in modo tale che nessuno poteva più entrarvi per timore di disturbare Gustavo Adolfo, re di Svezia, o di camminare sull’esercito austriaco. Amava appassionatamente gli austriaci, perché gli piaceva il suono del loro nome e, trovando poche battaglie in cui fossero vittoriosi, ne inventava altre di sua iniziativa. I suoi generali preferiti erano il principe Eugenio, l’arciduca Carlo e Wallenstein. Per Tilly e per Mack (macchiette di caffè-concerto, li aveva sentiti un giorno definire da suo padre) non riusciva a provare delle grandi simpatie, benché fossero austriaci. Era innamorato di Turenne, anche qui per ragioni d’eufonia.

    Questa passione, che preoccupava i suoi genitori, perché lo tratteneva in casa quando avrebbe dovuto starsene fuori, durò per tutto maggio e la metà di giugno, finché suo padre non vi pose fine portandogli a casa Tom Sawyer e Huckleberry Finn. Quando ebbe letto questi libri, maturò in lui un nuovo cambiamento, e uscì subito fuori di casa, alla ricerca ansiosa di un fiume. Ma a Robin Hill non c’erano fiumi, ed egli dovette perciò accontentarsi dello stagno, in cui fortunatamente si trovavano ninfee, libellule, zanzare, giunchi e tre piccoli salici. In questo stagno, dopo che suo padre e Garrat ne ebbero esaminato il fondo, assicurandosi che non era in nessun punto più alto di due piedi, poté varare una canoa sconquassata, in cui passava ore e ore, remando e sdraiandosi in fondo per non essere visto da Indiana Joe e da altri nemici. Sulla riva dello stagno, poi, si fabbricò una capanna indiana di circa quattro piedi quadrati, con vecchie scatole di biscotti, applicandovi un tetto di ramicelli. E in questa capanna accendeva dei fuochi, per cuocere gli uccelli che non aveva colpito col suo fucile, cacciando nel bosco ceduo e nei campi, o i pesci che non aveva pescato nello stagno semplicemente perché non ce n’erano. In queste occupazioni trascorse il resto di giugno e tutto il mese di luglio, mentre suo padre e sua madre erano in Irlanda. Condusse una vita solitaria fatta di finzioni in quelle cinque settimane d’estate, col fucile, la capanna indiana, l’acqua e la canoa; e, per quanto il suo cervellino cercasse in tutti i modi di non lasciar penetrare il senso della bellezza, essa s’insinuava in lui a tratti, sulle ali di una libellula, con lo splendore delle ninfee, con l’azzurro che gli sfiorava gli occhi, mentre giaceva supino, in agguato.

    La zietta June, che avrebbe dovuto accudirlo, aveva in casa una persona adulta con la tosse e un gran pezzo di cemento da cui cercava di modellare una faccia: e non andava quasi mai a cercarlo presso lo stagno. C’era andata una volta però, portando con sé altre due persone adulte. Il piccolo Jon, che proprio allora aveva finito di dipingere il suo corpo nudo a strisce lucenti azzurre e gialle, coi colori della scatola di suo padre, adornandosi il capo con delle penne di anatra, li vide venire e si mise in imboscata, dietro i salici. Come ben aveva previsto, essi si diressero subito alla capanna e s’inginocchiarono per guardare dentro; allora lui gettò un terribile grido che fece accapponar la pelle e drizzare i capelli alla zietta June e all’altra donna adulta, prima che lo vedessero e lo baciassero. Le due persone adulte si chiamavano zietta Holly e zio Val; quest’ultimo aveva il volto bruno, zoppicava leggermente, e lo prese in giro in modo terribile. Jon provò subito una gran simpatia per la zietta Holly, la quale doveva essere anche lei una specie di sorella; ma essi se ne andarono quello stesso pomeriggio e lui non li vide più. Tre giorni prima che tornassero suo padre e sua madre, anche la zietta June era partita in fretta, conducendo con sé l’uomo che tossiva e il suo blocco di cemento; e mademoiselle aveva detto: «Poveretto, era molto ammalato. Vi proibisco di andare nella sua camera, Jon». Il piccolo Jon, che assai di rado faceva le cose soltanto perché gli proibivano di farle, non ci andò, benché si sentisse seccato e solitario. Ormai anche la passione per lo stagno era passata e la sua anima traboccava per l’inquieto desiderio di qualche cosa –non albero, né fucile – qualche cosa di più dolce. Quei due ultimi giorni gli erano sembrati due mesi, nonostante avesse letto Cast Up by the Sea – le prodezze di Mother Lee e il suo terribile rogo naufragante. Aveva fatto le scale su e giù almeno un centinaio di volte in quei due giorni e si era insinuato spesso dalla sua camera in quella della mamma e nello spogliatoio: aveva guardato tutto, senza toccare; poi aveva aperto furtivamente l’armadio della mamma, aspirando a lungo un profumo che gli pareva lo portasse più vicino a… non sapeva precisamente a che cosa.

    Aveva appunto finito di far questo, quando lo trovammo in piedi nella striscia di sole, a discutere tra sé e sé sul modo migliore di scendere le scale lungo la ringhiera. Ma tutti gli esercizi che gli erano soliti gli apparvero sciocchi in quel momento e, preso da un improvviso languore, discese le scale adagio, un gradino alla volta. Mentre scendeva, ricordava chiarissimamente la figura di suo padre: la barbetta grigia, i profondi occhi scintillanti – separati da un solco –, il sorriso arguto, la silhouette sottile, che pareva sempre così alta al piccolo Jon; ma non riusciva a ricordare sua madre. Pensando a lei aveva soltanto l’impressione di qualcosa di ondulante, con due occhi neri che si voltavano a guardarlo; e gli pareva di sentire il profumo che emanavano i suoi vestiti.

    Nell’atrio c’era Bella, occupata ad aprire le grosse tende e la porta d’ingresso. Il piccolo Jon le disse, carezzevole:

    «Bella!».

    «Signorino Jon».

    «Fate preparare il tè sotto la quercia quando arriveranno; io so che saranno più contenti».

    «Volete dire che voi sarete più contento».

    Il piccolo non meditò neanche un momento.

    «No, lo saranno anche loro, per far contento me».

    Bella sorrise.

    «Bene, preparerò fuori, se starete qui tranquillo e non farete guai prima che arrivino».

    Il piccolo Jon sedette sull’ultimo gradino, e accennò di sì col capo. Bella gli andò vicino e lo esaminò da breve distanza.

    «Alzatevi!», disse.

    Il piccolo Jon si alzò. Lei l’osservò anche di dietro; il fondo dei calzoncini non era verde e le ginocchia parevano pulite.

    «Benissimo!», disse. «Caro! Come siete abbronzato! Datemi un bacio!»

    E gli diede una sfregata ai capelli.

    «A che cosa sono le marmellate?», chiese. «Sono così stufo di aspettare!»

    «Ribes e fragola».

    Per Diana! Erano proprio le sue preferite!

    Quando Bella se ne fu andata, rimase tranquillo per un minuto buono. Tutto era pacifico nell’ampio atrio aperto a oriente; ed egli poteva vedere uno dei suoi alberi prediletti, un brigantino, che veleggiava lentamente attraverso il prato davanti. Nell’atrio esterno tenui ombre scendevano oblique lungo le colonnine. Il piccolo Jon si alzò e girò attorno al gruppo di piante di ireos che riempivano la conca di marmo bianco-grigio nel centro. I fiori erano belli, ma odoravano troppo poco. Si fermò sulla soglia e guardò fuori. E se non fossero venuti? Aveva aspettato tanto, e sentiva che non avrebbe potuto sopportare un altro ritardo; ma la sua attenzione fu attratta improvvisamente dal polverio che appariva nell’azzurrino raggio di sole che penetrava fin là. Tese la mano, cercando di afferrarlo. Bella avrebbe dovuto badare che non ci fosse più polvere! Ma forse quella non era polvere, bensì la sostanza stessa della luce solare; ed egli guardò fuori, per vedere se fosse lo stesso. No, era diverso. Aveva detto che se ne sarebbe stato tranquillo nell’atrio, ma non ne poteva proprio più; attraversò il vialetto coperto di ghiaia e si sdraiò sull’erba del prato. Strappò sei margherite, le battezzò precisamente: Sir Lamorac, Sir Tristan, Sir Lancelot, Sir Palimedes, Sir Bors, Sir Gawain, e le fece combattere a coppie finché soltanto a Sir Lamorac, che aveva scelto con uno stelo specialmente solido, rimase ritta la testa e, dopo altri tre scontri, apparve anche lui curvo e sciupato. Uno scarabeo moveva lentamente, nell’erba già alta. Ogni filo d’erba era per lui come un piccolo albero, intorno al cui tronco era costretto a girare. Il piccolo Jon allungò Sir Lamorac coi piedi in avanti, e toccò l’animaletto, che fuggì via in fretta, penosamente. Il piccolo Jon rise, perse ogni interesse e sospirò. Sentiva un vuoto al cuore. Si volse e si sdraiò sulla schiena. I tigli in fiore odoravano di miele, e il cielo era di un azzurro intenso, con delle nuvolette bianche che avevano l’aspetto, e forse anche il sapore, di gelati al limone. Sentì Bob suonare un’aria malinconica col suo concertino, e provò un sentimento triste e dolce. Si voltò ancora e appoggiò l’orecchio al suolo – gli indiani potevano sentire chi arrivava da lontano, ma lui non sentiva nulla: nulla, soltanto il concertino! E quasi in quello stesso momento udì un rumore di ruote e il debole suono di un corno. Sì! Era l’automobile – veniva – veniva! Balzò in piedi. Doveva aspettarli sotto il portico o precipitarsi di sopra e, quando fossero entrati, gridare Guardate! e scivolar lungo la ringhiera, a testa avanti? Come fare? L’automobile entrò nel viale. Era troppo tardi. Ed egli rimase ad attendere, saltando su e giù, pieno di eccitazione. L’automobile arrivò rapidamente, girò rombando, si fermò. Ne discese suo padre, identico a quello ch’egli ricordava. Si chinò per baciarlo, e il piccolo Jon cercò di alzarsi, e picchiarono la testa insieme. Suo padre disse:

    «Oh, poveri noi! Ma come ti sei abbronzato, vecchio mio!», col tono di voce solito; e un senso di aspettativa, di qualche cosa che gli mancava, si gonfiò, insoddisfatto, nel piccolo Jon. Poi, con un lungo sguardo timido, vide sua madre, vestita d’azzurro, con un velo pure azzurro sul berretto da viaggio e sui capelli. Fece il salto più alto che gli fu possibile, intrecciò le gambe dietro la sua schiena e l’abbracciò. La sentì ansimare e rispondere forte al suo abbraccio. Gli occhi di Jon, di un azzurro profondo, si fissarono in quelli di lei, nerissimi, finché le labbra della madre si appoggiarono sulla sua fronte, e, mentre la stringeva con tutte le sue forze, la sentì dire ridendo:

    «Ma come sei forte, Jon!».

    Allora scivolò giù dalle sue braccia e si precipitò nell’atrio, trascinandola per la mano.

    Mentre mangiava la sua marmellata sotto la quercia, notò in sua madre delle cose che gli pareva di non aver mai osservato; ad esempio, le sue guance erano di color crema, c’erano dei fili d’argento nei suoi capelli d’oro scuro, nella sua gola non c’era sporgenza alcuna, come in quella di Bella, e tutti i suoi movimenti avevano una particolare dolcezza. Notò anche alcune piccole linee all’angolo degli occhi e, sotto, delle ombre. Era bella quanto mai, più bella di Da o mademoiselle, o della zietta June, persino più bella della zietta Holly, per la quale provava una forte simpatia; era anche più attraente di Bella, che aveva le guance rosse e saltava fuori ogni tanto con dei modi troppo bruschi. Questa nuova bellezza di sua madre aveva una specie di particolare importanza, e così mangiò meno di quel che s’era proposto.

    Dopo il tè, suo padre volle andare con lui attorno per il giardino. Parlò con suo padre di molte cose in generale, evitando l’argomento della propria vita privata: Sir Lamorac, gli austriaci, e il vuoto che aveva provato in quegli ultimi due giorni, e che ora sentiva così miracolosamente colmato. Il vecchio Jolyon gli parlò di un paese chiamato Glensofantrim, dov’era stato con sua madre; e di certe piccole creature che uscivano dalla terra quando tutto intorno era silenzio. Il piccolo Jon si fermò, divaricando i tacchi.

    «Ma tu ci credi davvero, babbo?»

    «No, Jon, ma pensavo che tu ci credessi».

    «Perché?»

    «Perché sei più giovane di me; e quelle sono le fate».

    Il piccolo Jon squadrò sdegnosamente

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