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In estrema sintesi
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E-book329 pagine4 ore

In estrema sintesi

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Info su questo ebook

Paolo nella penombra del suo appartamento si specchia furtivo. Ha quell'età in cui interessa solo passare il tempo con gli amici e vivere il presente. Presto però si accorgerà che sotto i campanili di Triviate, una laboriosa cittadina di medie dimensioni, ognuno conserva un segreto. Tra vicende che la normalità rende surreali e situazioni involontariamente grottesche, Paolo ed i suoi amici verranno catapultati alle estremità del mondo in cerca della verità. In un susseguirsi di avvenimenti corali e di momenti intimi, riusciranno ad emanciparsi da un passato troppo invadente? La siccità a Triviate finirà mai? Cosa scopre Paolo specchiandosi?
LinguaItaliano
Data di uscita3 mar 2021
ISBN9791220325714
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    Anteprima del libro

    In estrema sintesi - Fulvio Origo

    Cain

    MEZZOGIORNO

    Introduzione

    L’appartamento

    È corretto sostenere che il valore della vita di una persona sia dato dal tempo che ci si impiega a descriverne le gesta? Intendo, i momenti salienti? Giacinto protese il labbro inferiore in avanti e prese tempo per riflettere, prima di rispondere alla giornalista.

    Triviate, tempo prima

    Le campane rintoccavano il mezzogiorno.

    La strada dove Paolo abitava tagliava in due il quartiere e disegnava una retta che univa le scuole ai negozi alimentari. Il suo condominio si affacciava sui campi coltivati e dai piani alti era possibile scorgere il campanile della chiesa; in una zona caratterizzata da cascine contadine, era una delle prime costruzioni moderne che si stagliavano prepotenti sulla linea dell’orizzonte.

    Sui balconi, le fabbriche che circondavano la città lasciavano ogni mattina un leggero strato di fuliggine e nelle giornate di nebbia, i fili dell’alta tensione sibilavano come cicale.

    I condomini erano perlopiù forestieri arrivati in città in cerca d’affermazione, chi dai paesi vicini, chi da regioni più remote, e appartenevano a diversi strati sociali, dall’operaio indaffarato all’imprenditore operoso.

    La vita scorreva ordinaria in un clima di sincera cordialità e condivisione tra bambini che andavano e venivano dagli istituti scolastici, gli adulti che si dividevano tra uffici e fabbriche e i pensionati che trascorrevano le giornate al bar, in cerca della sponda perfetta.

    Erano tempi in cui il futuro veniva affrontato a testa alta e gli ideali politici permeavano ogni conversazione.

    Nell’anticamera del loro appartamento al primo piano, i genitori di Paolo avevano appeso uno specchio recuperato nella soffitta dei nonni. La forma era vagamente liberty, arrotondata nelle estremità superiori, e si appoggiava a un comodino d’epoca che arredava il corridoio.

    Era un giorno di settembre, il 9, quando Paolo ci passò davanti per raggiungere la sua cameretta e recuperare gli scarpini da calcio. Aveva quell’età in cui interessa solo passare il tempo con gli amici e ottenere l’approvazione dei genitori.

    Tornando di corsa verso il salone, il piccolo notò con la coda dell’occhio la sua sagoma riflessa.

    Non si era mai soffermato a specchiarsi con attenzione. Non era interessato a controllare se fosse in ordine, se i colori dei vestiti fossero abbinati o se i capelli fossero sistemati. La pettinatura era solo una questione da affrontare nel più breve tempo possibile dal barbiere, da cui, chissà, un giorno si sarebbe fatto radere anche lui come suo padre.

    La luce entrava di taglio dalla finestra, illuminando solo una parte del corridoio. Si sorprese notando che il viso aveva abbandonato le rotondità della prima età e si era allungato, rincorrendo uno slancio di crescita. Gli occhi si erano scuriti diventando di un verde foresta più comune, la fronte aveva guadagnato spazio verso la capigliatura nero mediterraneo, le lentiggini invece erano salde al loro posto. Non era tanto alto, ma a quel punto era irrilevante.

    Uscì soddisfatto dal confronto estetico con sé stesso e si domandò quale aspetto avrebbe avuto da adulto. Un pensiero fugace, ma che gli rimase impresso in futuro tanto che il rituale dello scoprire allo specchio le differenze e cercare i segni dello sviluppo sul volto divennero ricorrenti. Come momento di affermazione prima, di riflessione poi e di fuga infine.

    Aveva perso fin troppo tempo. L’aria di pioggia portò il fischio di un treno in partenza. Non se ne curò. Prese un pallone e sbattendo la porta scomparve verso i prati.

    Capitolo 1.1

    Sara e Teo

    Sara aveva gli occhi di gemma, di quelli che, incrociandoli, ipnotizzano. Un sorriso vago e misterioso, destabilizzante. Il suo fisico era asciutto e slanciato, in grado di catalizzare l’immaginazione. Sara era un labirinto dal quale gli spasimanti non trovavano la via d’uscita. Quando passava, creava un riflusso che li attirava a lei. Quando si voltava e li guardava, li lasciava smarriti. Quando gli rivolgeva la parola, li abbandonava incerti sulle sue intenzioni, tanto che avrebbero voluto rincorrerla e afferrarla, ma non osavano. Faceva credere di essere ingenua, invece affrontava ogni situazione con la malizia sufficiente a rendersi inaccessibile. Le altre la invidiavano e infatti di amiche vere non ne aveva. Forse una, di nome Tiziana.

    Teo era un ragazzo diligente e corretto. Anche se sarcastico, era incapace di sdrammatizzare e nelle situazioni difficili si bloccava, cedendo al vittimismo. Di Sara ne faceva una malattia. Pensava però di non essere speciale ed era convinto di non essere migliore degli altri. Così rimaneva in scia senza mai superare, in attesa che arrivasse il suo momento.

    Teo non sapeva che suo padre in gioventù era stato fidanzato con la madre di Sara. Erano una coppia perfetta, destinata a un futuro prospero. In attesa del matrimonio solo una volta non si trattennero e si fecero travolgere dalla passione nel pagliaio di una cascina di periferia. Nessuno dei due ammise che la magia di quel momento non la rivissero mai più in vita e questo segreto rimase il loro legame silenzioso.

    Teo e Sara erano amici d’infanzia.

    Lo erano anche i loro padri, un’amicizia a tempo però, terminata quando il padre di Sara, nella peggiore tradizione che in guerra e in amore vale tutto, strappò prima un bacio e poi tutto il resto alla promessa sposa del padre di Teo. Quando quest’ultimo lo scoprì, la sua ira fu seconda solo alla sua delusione. Coinvolse famiglie, amici e prelati in cerca di giustizia. Si appellò al partito. Fu tutto inutile: Sara nacque qualche mese dopo.

    Sara, a differenza di Teo, venne a conoscenza della storia. Gliela raccontò la madre, edulcorando i fatti, di fronte a una foto di gruppo conservata con cura, nella quale era immortalata tra quelli che sarebbero stati gli unici due amori della sua vita. Sara la trovò per caso, mentre frugava nel comò alla ricerca di una Polaroid che i nonni le avevano inviato dal Perù, dove si erano trasferiti in cerca di fortuna. Osservando la foto, si incuriosì e si fece confidare tutto, promettendo di non rivelare ad altri una verità che aveva senso solo nei momenti in cui era stata vissuta.

    Nelle curve della memoria Teo avrebbe conservato un’immagine in particolare del padre. Ogni serata estiva era solito accomodarsi su una poltroncina in vimini posta in un angolo del balcone. Appoggiava i piedi, stanchi dalla giornata passata nell’edicola di famiglia, su una sedia di legno e rimaneva ore in silenzio a fissare il buio che separava i palazzi di fronte. Al rientro in casa, Teo sapeva che l’avrebbe trovato lì, lo raggiungeva per un saluto, il padre gli regalava un sorriso affettuoso, gli domandava se stesse bene e lo congedava, alzando la mano sinistra. Una routine che d’inverno si trasferiva sulla poltrona in velluto posta davanti alla finestra del salone. Teo non ebbe mai il coraggio di chiedere cosa pensasse durante quelle interminabili guardie. Preferiva rimanere nel dubbio, non scavare nella fossa dei rimorsi e non ascoltare apertamente gli effetti di una vita di compromessi. Preferiva nascondersi dietro a un falso disinteresse, in modo da conservare l’immagine idealizza del padre e l’illusione di un matrimonio felice con sua madre. Lei donna di casa, discreta e presente, si limitava a tenere il timone a dritta. Con un esempio quotidiano, di poche parole e molte azioni concrete, aveva mostrato a Teo il senso della dignità e i benefici dell’accontentarsi. Aveva tenuto un decoro costante per tutta la vita che le permise di superare i silenzi del marito, la consapevolezza di essere una seconda scelta e le nostalgie del mondo che fu, incondizionatamente migliore di quello di oggi. Solo anni dopo per Teo le routine a casa dei genitori divennero frammenti di un passato che avrebbe voluto riscrivere. Ricordi di un mondo imperfetto, ma più genuino. Schegge del tempo finito che avrebbe voluto rivivere.

    Teo e Sara si incontravano spesso, abitavano nello stesso quartiere di Paolo a Triviate.

    Triviate era una cittadina di media grandezza come tante. Il fiume l’attraversava tagliandola in due e nella parte centrale uno sdoppiamento artificiale del corso dell’acqua una volta alimentava i mulini. Il Duomo impreziosiva il centro medioevale ricco di attività commerciali, mentre le periferie erano in continua espansione residenziale. Come specchio della Nazione le zone più ricche erano concentrate a nord, a ridosso del grande parco, invece a sud, più vicino ai distretti industriali, si trovavano le aree più eclettiche e popolari. Ogni quartiere aveva la sua chiesa di riferimento da cui prendeva il nome e i terreni incolti, che tappezzavano il territorio, nel dopo lavoro si trasformavano in campi che accoglievano interminabili sfide calcistiche.

    Gli abitanti operosi e dediti durante la settimana ad accumulare risparmi per togliersi dalle paludi delle incertezze finanziarie, la domenica mattina vestivano eleganti per la messa di rito e gli Dei che venivano adorati nei templi, poco dopo sarebbero stati chiamati in causa sul tavolo dello Briscola. Tra una partita di carte e un bianchino, i vecchi dei quartieri pareva avessero le ricette giuste per rifondare la democrazia del Paese. Peccato non averlo fatto quando il sangue scorreva forte nelle vene, gli rinfacciava qualcuno. Peccato non averlo fatto per lasciare in eredità un futuro migliore, protestavano i figli persi nell’ardore giovanile e inconsapevoli che si sarebbero trovati nella stessa posizione quando anche il loro tempo sarebbe stato agli sgoccioli.

    L’arrosto a centro tavola riportava le famiglie in casa per pranzi che mettevano tutti d’accordo nel rito festoso e chiassoso del miglior pasto della settimana. Le voci dei telegiornali inondavano le vie rimbalzando da un palazzo all’altro prima che le radio infiammassero gli animi dei tifosi dello sport nazionale e le strade del centro si saturassero di cittadini spensierati.

    Le cascine ricordavano a tutti le origini contadine e le ciminiere, perlopiù di cappellifici, quelle operaie. La stazione era un viatico tra chi dai paesi intorno veniva a concedersi attimi di mondanità e chi il giorno dopo sarebbe andato in cerca di fortune economiche nelle fabbriche e negli uffici; tute blu e colletti bianchi sullo stesso treno, anche se su posizioni spesso contrapposte, pedine di un gioco più grande di loro.

    I monti, sentinelle visibili nelle giornate più limpide, completavano l’orizzonte e parevano pronti col loro aspetto immutabile a lanciare il guanto di sfida al tempo che passava, rendendo le faccende quotidiane minuscole al loro cospetto. Tutte tranne quelle che nascono da dentro, come quelle di Sara.

    Sara da giovane avrebbe voluto essere trasparente. Desiderava semplicemente scoprire chi fosse e cosa desiderasse dal suo futuro. Invece non le sembrava di essere libera. Si sentiva osservata in ogni suo movimento, giudicata a ogni movenza e caricata di aspettative. Per questo viveva in perenne disagio: il corpo in fase di sviluppo, oggetto di mille desideri, la turbava, non lo sentiva appropriato, la infastidiva, avrebbe voluto coprirlo con vesti abbondanti e nascondersi dentro casa. Passò buona parte dell’adolescenza alla ricerca del suo vero Io, in fuga da sé stessa e dalle convenzioni nelle quali si sentiva intrappolata. Si trattava con disinteresse, rifiutandosi e facendo esperimenti, abbinando vestiti appositamente stravaganti e tingendosi i capelli di mille colori. Sosteneva di non considerare il matrimonio e la maternità come compimento obbligatorio della vita. Ma non era vero. Si ribellava al precostituito, ai percorsi obbligatori, retaggio di un modo di pensare che, a suo dire, puzzava di vecchio. Ma non lo pensava veramente. Era un continuo spostare più in là il limite della sopportazione di chi le stava intorno in modo da disorientare costantemente.

    E Teo come poteva pensare di comprendere tutto questo travaglio e di scalfire e penetrare la superfice? Si fermava all’apparenza e neppure ci pensava che si potesse andare oltre. Si bloccava ammaliato dalle forme di Sara, che crescevano perfette. Al suo stile unico. All’indecifrabilità delle sue capigliature, ma certamente appropriate. A quel suo sorriso candido e splendido. Alle incomprensibili ragioni per cui non lo considerasse, che la rendevano ancora più attraente, irraggiungibile.

    Per poi ricevere un’occhiata fugace o un saluto spento che lo lasciavano sospeso e speranzoso.

    Capitolo 1.2

    Charlie

    Paolo era solito trascorrere i pomeriggi nei prati incolti del quartiere, che dalle prime ore del pomeriggio al tramonto si affollavano di ragazzi affamati di gloria calcistica.

    Era un sabato di settembre, il 9, quando Charlie spingeva energicamente i pedali della BMX lungo le strade che definivano il perimetro dei campi improvvisati affollati di ragazzi.

    Uno contro uno, undici contro undici, alla tedesca, torello, un pallone e quattro sassi come porte e le sfide iniziavano. Tutti erano ammessi a partite eterne, durate una generazione, con mai nessun vinto o vincitore definitivo. Il giorno dopo si ricominciava con corse per la squadra e per orgoglio personale: terra ed erba che entravano sottopelle, abbracci all’aria, complicità, invincibilità e libertà assoluta.

    I preparativi per la festa del Santo del quartiere fremevano e Charlie pedalava, attento a evitare le buche nell’asfalto, quando un pallone gli attraversò la strada. Frenò prontamente impennando sulla ruota anteriore. Scese dalla bici e, incurante di chi fosse il proprietario, iniziò a palleggiare, calciando la palla sulla testa per poi riprenderla con ginocchia e piedi. Non avrebbe mai smesso. Una voce però lo raggiunse alle spalle:

    Vuoi unirti a noi? Ci manca un uomo e siamo in difficoltà, era Paolo sopraggiunto di corsa per recuperare il pallone.

    Dovrei andare dai miei in trattoria in realtà… però quasi quasi quattro tiri li faccio. Ma rimango solo dieci minuti!

    Senza dubbio il calcio era l’Esperanto dei giovani di Triviate, la lingua comune con cui fare amicizia.

    Io sono Paolo, come ti chiami?

    Charlie.

    Charlie? Sei straniero?

    No, appena trasferito da Sondrio!

    Una risata fragorosa sancì l’inizio della loro amicizia.

    Carlo, per tutti Charlie, corporatura possente e personalità estroversa, era figlio di donna Anita, di origini valtellinesi, e Don Michele, uomo di mare che, più per eredità che per vocazione, si era imbarcato ad Anzio da giovane e si era fatto cullare dall’oceano per cinque giri del mondo consecutivi. In quei cinque anni era diventato uomo. In che modo, solo i presenti lo sapevano. I racconti erano censurati dalla cura di non offendere Anita a cui era stato promesso sposo prima di imbarcarsi. Ma nelle serate di briscola e vino con l’amico Giacinto era solito ricordare le scorribande nei porti di tutto il mondo, la dissolutezza dei locali dove la felicità era a portata di portafoglio e soprattutto la storia d’amore incompiuta con Hiromi, una giovane scultrice giapponese con la pelle delicata come la seta.

    Probabilmente se ne era invaghito per istinto di difesa, per fuggire da un futuro già scritto, o più semplicemente per poter avere la parvenza di essere artefice del proprio destino. Non per nulla Hiromi era l’esatto contrario della granitica Anita, la quale ferma nel rispettare il comandamento lo attendeva a casa senza esitazione o debolezze.

    Michele, avesse potuto scegliere, non sarebbe mai ripartito dal Giappone. Raccontava che la storia d’amore con la giovane giapponese fosse fermamente osteggiata dal padre di lei che arrivò a minacciare più volte l’harakiri se si fosse impegnata con quello scugnizzo di un paese lontano forse alleato, forse no, nella guerra di qualche anno prima. Tentò più di una volta di vincere la diffidenza del potenziale suocero. Con la complicità di Hiromi costruì un castello di mezze verità e di false promesse, l’unica via per entrargli nelle grazie. Ma nei momenti decisivi un ingovernabile tic all’occhio destro, che gli scattava ogni volta che si emozionava o si trovava sotto pressione, faceva saltare il bluff e rafforzava le convinzioni dell’orgoglioso samurai. Così Michele e Hiromi si amarono di nascosto, ogni volta che la nave cargo Santa Teresa attraccava nei porti giapponesi. Finché Michele al termine della sua esperienza da marinaio, la baciò per l’ultima volta con la promessa che non si sarebbero mai lasciati realmente. Domate le onde dell’oceano, sbarcò definitivamente tra i fasci di luce delle lanterne liguri, dove scattò la commedia dell’arte in tre atti: fidanzamento, serenata e matrimonio.

    Addio Hiromi, addio terra del sole sempre crescente, addio limbo dei sogni. Giusto il tempo richiesto da Madre Natura e Carlo liberò il primo urletto. Per lui in eredità ci fu una vita da passare nella trattoria di famiglia e una pipa indiana recuperata chissà dove dal padre. Nulla di più, nulla di meno.

    Pochi anni dopo si trasferirono a Triviate e si dedicarono a quello che la famiglia di Anita da sempre sapeva fare. Aprirono il bar trattoria Al Golfo da Michele e Anita con un menù antesignano del fusion: calamarata allo scoglio, pizzoccheri e tempura. Troppo estremo per la comunità di Triviate, non certo celebre per l’apertura immediata alle novità, che li trattò con diffidenza. Non demorsero. Trascinati dalle capacità di affabulatore di Michele e dalla solidità di Anita, superarono lo scetticismo iniziale e la trattoria divenne un ritrovo abituale nel quartiere, soprattutto per anziani e giovanissimi. Prezzi popolari, tavolo da biliardo, tornei a carte senza orario e piatti con porzioni da escursionisti divennero i tratti distintivi.

    Charlie amava sostare tra i fornelli, incuriosito dall’abilità della madre e si divertiva a gironzolare tra i tavoli, affascinato dalle storie narrate a cavallo del bancone del bar. Raccontava senza mai entrare nei dettagli che il padre Michele si occupava di confidenze, una sorta di Prete ateo, attirandosi le facili ironie dei coetanei. Sicuro di indole, di ciò che pensava la gente poco gli importava; a meno che non si sparlasse della sua trattoria, di quella era geloso e non concedeva spazio.

    Nel tempo, il confronto col padre sarebbe diventato però il suo peggior cruccio. Per Charlie, Don Michele era l’unico e indiscusso maestro del bancone e le gesta che gli venivano raccontante, ai suoi occhi assumevano una forma mitologica. Vedeva il padre come l’eroe dei due mondi, impulsivo e comprensivo, ancorato e trattenuto solo da Anita. Allo stesso tempo in lui prendeva forma il peso della responsabilità, come se i peccati di Don Michele dovessero ricadere su di lui, unico figlio. Come se la presenza dei genitori fosse invasiva anziché terapeutica. Come se dovesse gareggiare sia contro le sue capacità sia contro il suo passato.

    Si immaginò che l’unica via fosse fare diversamente, trovare la sua identità, lasciarsi alle spalle il suo retaggio e percorrere la sua strada senza badare ai commenti e ai giudizi. Così, in attesa del suo turno apprese da papà Michele le tecniche del barista confessore e gli schemi da seguire, quando fermare il corso dei drink e come rispondere a ogni circostanza. Da mamma Anita ereditò la comprensione e la determinazione, oltre ai trucchi in cucina. E con Giacinto sempre seduto al suo posto, accanto all’ingresso, come esponente della controcultura popolare, gradualmente prese sicurezza e il controllo della sua vita.

    Neppure a dirsi, quel giorno di settembre Charlie rimase al campo di calcio fino al tramonto e si unì definitivamente alla squadra di Paolo.

    Capitolo 1.3

    La rosa tatuata

    La relazione tra i genitori di Paolo dava segnali di cedimento ormai da tempo.

    La madre aveva tentato in tutti modi di far comprendere il suo turbamento al marito e di sdoganare i limiti sempre più evidenti del loro rapporto. Il padre di Paolo però li rigettava con disinvolta superficialità, come se fossero frutto di assurde complessità femminili, equivoci che si sarebbero risolti per inerzia. Riteneva di conoscere le sfaccettature della compagna di una vita e dava per assunta la sua presenza, senza accorgersi dei cambiamenti che avvenivano inesorabili sotto i suoi occhi. Perseverava ad attuare gli stessi schemi comportamentali di quando si erano conosciuti, come se avesse di fronte la ragazza dei primi appuntamenti congelata in una bolla temporale. Sottovalutava i segnali che la moglie gli mostrava. Il disagio che viveva. Il malessere che la attanagliava, che si accumulava e si sedimentava dentro di lei in un castello di insicurezza, diffidenza e disorientamento. Il disturbo invisibile che la soggiogava e le accentuava i lati più estremi del carattere. Quelli che lei aveva prima ignorato, poi sperato d’aver risolto in giovinezza e che invece ora riaffioravano prendendo il sopravvento. Prosciugandole lentamente e spietatamente la voglia di vivere. Facendola diventare aliena a sé stessa, fino a lasciarla claustrofobica senza la forza e la volontà di lottare per ristabilire l’equilibrio.

    Di tutto questo tormento, all’esterno trasparivano solo atteggiamenti di indecifrabile ritrosia, che agli occhi del marito assumevano la forma di semplice svogliatezza riconducibile a un quotidiano asfissiante. Di risposta agli allarmi lanciati dalla moglie, incosciente dell’evidente precipizio a cui si avvicinavano, vaneggiava panacee inverosimili più mirate all’intrattenimento che alla cura. Del resto, di turbamenti dell’anima non ne sapeva nulla. Per trovare conforto da quel genere di problema, le ombre del confessionale erano il posto giusto. Se invece l’esigenza era sfogarsi da latenti frustrazioni di vite prese di striscio, le porte del Partito erano sempre aperte per discussioni a episodi. Così, libero dal pensiero della questione, si concentrava sugli aspetti concreti della gestione familiare, al suo sostentamento e a gettare la basi perché il figlio avesse un futuro migliore del suo, ritenendo che questo fosse il suo dovere e che solo quello gli fosse richiesto per essere un buon marito e un padre responsabile.

    Era una domenica silenziosa di settembre, il 9, e nei corridoi della casa di Paolo si poteva afferrare l’aria greve delle trasparenti e irreversibili lontananze dei genitori. Intorno al tavolo della cucina prima del pranzo, la madre totalizzata dal pensiero della più drastica delle decisioni, chiamò a sé il marito. Aveva deciso di tentare un ultimo dialogo, di provarci una volta ancora e, se non ci fosse riuscita, di comunicare in modo più diretto il punto a cui era praticamente giunta.

    Si sedette intorno al tavolo di arte povera al centro della cucina, appoggiandosi con una spalla alla cerata che tappezzava il muro, ed esordì con un filo di voce: Ti vorrei parlare un secondo.

    Certo, cosa succede, ci sono problemi con Paolo?, gli rispose, restando in piedi con degli strumenti di bricolage in mano.

    Veramente sarebbe di me, di noi. Ultimamente non parliamo molto e ci sono delle cose che non funzionano…

    Cosa intendi?, borbottò il marito, spaziando con lo sguardo.

    È possibile che non ti accorgi di come andiamo avanti? Te l’ho già detto mille volte, ma tu fai finta di niente. Ho bisogno di qualcosa di diverso, di sentirmi più realizzata, di una svolta. Insomma, non mi vedi? Di essere più felice. Il tono si fece più affilato e tagliò la penombra della cucina. Ma tu non mi ascolti. Pensi sempre alle tue cose, ti vorrei più presente a te stesso e alla tua famiglia. Inoltre, c’è un’altra cosa che non ti ho detto, sono tornata dal dottor Visconti e…

    Lascialo perdere quello, ha già sbagliato diagnosi una volta, non voglio più sentirlo nominare, intesi?

    C’è di più questa volta.

    Senti, ho un’idea. Ci vestiamo e io, te e Paolo, oggi andiamo allo stadio, Paolo non c’è mai stato, vedrai che ci divertiamo e ti passa!

    Incredula, non seppe come replicare. Svanì però in lei l’ultimo sussulto di speranza che il marito la potesse comprendere, che si ergesse a diga e deviasse il naturale dipanarsi degli eventi. Si alzò lentamente e si recò in camera. Si sdraiò sul letto matrimoniale e rimase immobile, con un lenzuolo a proteggerla dal futuro e il cuscino a confortarla dallo scrigno segreto di ciò che le stava capitando dentro. Accarezzò la rosa che si era tatuata sulla caviglia agli albori della relazione col

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