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Amarsi amando
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E-book429 pagine2 ore

Amarsi amando

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Info su questo ebook

Luigi, ormai in pensione e accompagnato solo da vecchi ricordi, ogni settimana si reca al cimitero per trovare la sua bella Laura, con cui ancora conversa amabilmente e alla quale racconta le proprie giornate.
Non ha avuto una vita facile e il cuore ancora gli si riempie di tristezza al pensiero di tutto ciò che è stato: la povertà, la miseria materiale e umana, la morte del fratellino prima, la scomparsa della madre subito dopo; tutti eventi che nel Luigi bambino hanno impresso segni indelebili, lasciandogli addosso un velo di profonda malinconia. 
Al cimitero, però, un giorno conosce Curzio, un giovane ragazzo che ha perso i genitori nel terremoto di Amatrice; ha dovuto lasciare la scuola e trasferirsi dallo zio, che poco si cura di lui. 
L’incontro tra i due non sembra un caso e sarà destinato a cambiare la vita di entrambi.

Letizia Rocchi (Roma, 1927) scultrice e pittrice autodidatta, insegnante, sempre attiva nell’ambito del volontariato, vive in Svizzera circondata dai suoi affetti più cari e dai suoi cani.
Dopo la narrazione del tempo della sua giovinezza, incastonata nel periodo carico degli eventi della seconda guerra mondiale in Cento grammi di pane nero, l’autrice torna ora quasi cieca ma indomita nello spirito a considerare come da un incontro fortuito due vite si incrociano, maturato un rapporto, arriveranno a fondersi insieme.
LinguaItaliano
Data di uscita30 giu 2022
ISBN9788830662896
Amarsi amando

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    Anteprima del libro

    Amarsi amando - Letizia Rocchi

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di Lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    SCONTRO

    Percorrendo solitario il viale principale del Verano, Luigi si rivide bimbo avviarsi, con i lacrimoni agli occhi e i pantaloncini corti, che gli calavano sui fianchi, con la giovane mamma tra tombe monumentali. Trascinato dalla mano materna, che afferrava la sua piccolina, Gigetto, così veniva chiamato da piccolo, cercava di adeguare il suo passo a quello della mamma, che avanzava un poco curva piangendo sommessa. Si vergognava delle vecchie scarpe, che gli stringevano i piedi. I calzini, sbrindellati al risvolto, sfuggendo sotto i talloni, lasciavano scoperte le sue magre caviglie. Dalla figurina della mamma, che spariva dentro un povero abitino di flanella nera, spiccava nella mano sinistra un mazzolino di freschi crisantemi rossi appena acquistati.

    Gigetto avrebbe preferito inseguire un pallone, nello squallido cortile di casa, racchiuso tra basse e nude mura di piccole case bianche abusive, con altri bimbi che non frequentavano ancora la modesta scuola elementare di un rione cresciuto, nel disordine edilizio della guerra e del primo dopoguerra, all’estrema periferia del quartiere romano di San Lorenzo.

    Sono trascorsi più di sessant’anni da allora! pensava Luigi, mentre avanzava col passo regolare delle sue magre gambe, avvezze alle marce da quando, prima d’iniziare l’attività di maestro, aveva assolto il servizio militare allora ancora obbligatorio. Quante cose sono avvenute e quante son cambiate!, considerava nostalgico l’uomo alto, magro e brizzolato, dal volto squadrato, che mostrava i segni degli anni vissuti onestamente, malgrado vicissitudini spesso dolorose. Una vita comune, nella sua semplicità, ricca di esperienze, nutrita dai sentimenti con i quali era stata vissuta.

    Ed ora, ancora una volta, sono qua per visitare chi non ritornerà mai più da me! si disse tristemente. Poi, volendo respingere le memorie, che affioravano come immagini di un vecchio film in bianco e nero, si mise a canticchiare sottovoce: Se bruciasse la città, da te io tornerei… e impazzisco senza te, che la mente tornava spesso a suggerirgli.

    Tuttavia l’atmosfera di quel mattino lo riportava ad osservare le immagini di un passato, che fino ad allora era rimasto celato, volutamente, nella sua memoria. Imprevisti i ricordi con nitidezza gli balzarono davanti sgombri dall’offuscamento a cui erano stati condannati fin dai primi anni della sua vita.

    Il viale che percorreva, trascorsi diversi decenni, era rimasto più o meno come lo aveva conosciuto oltre sessant’anni prima.

    Da più di due anni, da quando stava per ultimare l’insegnamento nelle scuole elementari, per il pensionamento, era divenuta una consuetudine recarsi di buon mattino, quando all’inizio della settimana quel luogo era meno frequentato, a trovare la sua amata Laura per aggiornarla sui recenti avvenimenti, tenerle compagnia e, come era sua premura, mentre curava con amore la piccola aiuola davanti alla lapide, continuare a rivolgersi a lei come fosse stata presente piuttosto che nell’estrema dimora.

    Ora i suoi sentimenti erano ben diversi da quelli di quand’era un bimbo incapace di comprendere oltre le sue elementari necessità.

    Dopo la morte del fratellino avrebbe voluto che tornasse a sé tutto l’amore della mamma, ma lei, chiusa nel suo inconsolabile dolore, quasi folle, sembrava non prestare alcuna attenzione a lui e alle sue esigenze infantili. Gigetto allora non comprendeva e diventando adulto non comprese! Anzi, a pensarci bene, non aveva ancora compreso! Tutto di allora, sentimenti più che pensieri, era stato relegato in un angolo buio della sua memoria, come problema che riteneva dovesse rimanere irrisolto.

    Quando pioveva o faceva freddo, Gigetto avrebbe voluto rimanere tra le logore lenzuola e le lise coperte piuttosto che fare quasi tutti i giorni quel percorso, mentre, fattasi l’aria da tiepida più calda, avrebbe preferito correre e giocare libero con i coetanei per i prati incolti, non lontani da casa, frequentati da grilli e cicale, che si alternavano a cantarvi il giorno e la notte, e, a volte, da greggi di pecore e capre che, quando l’erba era ancora tenera, ne radevano radicalmente la vegetazione spontanea. E poi, nel pieno dell’estate, avrebbe voluto andare a rinfrescarsi, schizzando gioiosamente l’acqua sui compagni, nella bassa pozza d’acqua nascosta da cespugli, riempita dalle piogge estive, che il sole non aveva ancora prosciugato.

    Invece, appena alzato, presto presto ingurgitato, da una tazza bianca sbeccata, del pane inzuppato nell’orzo caldo imbiancato dal latte, poi a piedi, fino al campo del cimitero dove, nella nuda terra, il fratellino dormiva un sonno senza risveglio. Aveva avuto poco tempo per conoscerlo. Quando nacque, lui aveva appena due anni. Poi il morbillo, piaga sociale di un tempo senza vaccini, lo aveva privato del diritto alla vita. Era stato lui a trasmetterglielo e la mamma, accecata dal dolore, resa totalmente irrazionale, non lo perdonava per averne indirettamente causato la morte.

    Fra lui e Filippo solo due anni di differenza. Il fratellino aveva da poco cominciato a camminare e Gigetto, che da quasi due anni correva per casa, non lo considerava un compagno di giochi.

    La mamma sempre presa dalle cure per il piccolo Filippo, per la misera casa e da qualche lavoretto in campagna per quattro soldi per campare, considerandolo già grande, poco si curava di lui costringendolo a crescere in fretta.

    La famiglia era decisamente povera. Il papà, non idoneo al servizio militare a causa di una gamba visibilmente più corta per un incidente subìto da bambino, era venuto dal centro-sud d’Italia a Roma, nei tempi cupi della guerra sul suolo italiano, per sfuggire alla povertà e alla devastazione che avanzava. Aveva condotto con sé una giovane appena sposata quasi bambina.

    Dopo anni di incerto lavoro e la nascita di due maschietti, quando Gigetto aveva quattro anni, nel periodo del boom economico del primo dopoguerra, faceva regolarmente il muratore e poco lo si vedeva in casa. Tornato alla sera, sporco, stanco ed affamato, dopo essersi ripulito un poco e aver accompagnato la magra zuppa, che la mamma riusciva sempre a preparare, con un consolatorio bicchiere di vino, andava a letto ignorandolo. Al mattino presto doveva prendere più mezzi di trasporto o recarsi a piedi zoppicando ad un cantiere nella città che si espandeva.

    Gigetto, invece, viveva la camminata mattutina verso il cimitero come una punizione inflittagli per aver causato la morte del fratellino. Se la mamma soffriva per l’amato bimbo strappatole, lui non doveva sottrarsi alle conseguenze del suo crimine. Così, benché piccolo e innocente, doveva pagare.

    Mentre la mamma sedeva sulla terra presso la piccola tomba sovrastata da una stretta tavola di legno con inciso il nome del piccolo e le date del breve soggiorno terreno, Gigetto annoiato ripuliva ora una ora l’altra delle scarpe sui calzini non più bianchi e stanchi che sbordavano flosci dietro le caviglie, strofinandoli con forza per farne cadere il terriccio accumulatovisi nel lungo percorso per i campi.

    Mamma, con qualsiasi tempo, faceva quel tragitto portandomi con lei. Così, prima di iniziare ad andare a scuola, aveva visto la madre, a Natale, allestire amorevolmente sulla piccola tomba un essenziale presepe per consolare il pianto incessante del figlioletto che non le rispondeva più, mentre Gigetto viveva il Natale tristemente, senza addobbi e doni.

    Da tempo, trascorso il bel periodo dell’amore adulto, era tornato triste anche e ancor più nel tempo natalizio, quando le care memorie divenivano struggenti.

    Con in mano un mazzo di crisantemi rossi andava a trovare la sua dolce Laura che lo aveva lasciato solo malgrado la promessa che sarebbero invecchiati insieme.

    Nel suo regolare percorso, distrazioni di solito non se

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