La bellezza di essere ascoltati
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Anteprima del libro
La bellezza di essere ascoltati - Bruno Pernice
Ascoltarsi
Questo non è un libro sul come fare
, è un libro sul fare
. Non vi spiegherò come ascoltare o come essere ascoltati. Non è un manuale di tecnica dell’ascolto. È un libro sulla necessità, sul desiderio e sulla bellezza dell’essere ascoltati. Non è un libro sul perché ascoltare. È un libro sul dentro l’ascoltare
.
La risposta alla domanda: perché ascoltare?
è solo una: per vivere.
Con le orecchie si può solo udire.
Con la testa e il cuore si può ascoltare.
Con tutto il corpo si può sentire.
L’ascoltare di cui vi parlerò in questo libro è un’attività molto vicina al sentire, indispensabile per comunicare efficacemente.
I corsi sulla comunicazione efficace proliferano. Parteciparvi è inutile se non sei davvero interessato a entrare nella vita, nel mondo dell’altro, e se non riconosci che l’altro potrebbe essere importante nella tua vita, e cambiarla, anche.
Partecipare ai corsi ha un senso se essi, per prima cosa, insegnano ad ascoltarsi.
Nei miei corsi di comunicazione efficace, faccio restare in silenzio le persone per quindici minuti, a occhi chiusi. Alcuni capiscono, altri vogliono i soldi indietro.
Ascoltarsi non è facile ma è indispensabile per ascoltare bene gli altri, per decodificare un ambiente ambiguo, per prendere decisioni, per collocarsi in una rete di relazioni in cui non essere solo spettatori.
Ascoltarsi è la base per sentire l’altro, non solo con le orecchie, ma anche con il cuore.
Una persona non abituata ad ascoltarsi tenterà di giustificare, spiegare razionalmente i suoi atteggiamenti e le sue scelte di vita. L’ascoltarsi è sì un’operazione intellettiva: sono io che interpreto me stesso, i miei pensieri e li riordino, ma anche un’attività profondamente emozionale perché sono io che spiego me stesso dando un nome alle mie emozioni, distinguendole.
Ci sono persone educate
all’ascolto di sé, e altre no. C’è anche chi arriva solo a un certo punto, evitando di valicare la porta che dà accesso alle emozioni.
Ascoltarsi: non è facile. Perché siamo frastornati da un rumore di fondo incessante: le aspettative degli altri nei nostri confronti (vere o presunte) lo sgomitare nei social, la necessità di essere sempre presenti anche quando vorremmo essere assenti, la paura di non essere all’altezza, di non poter far emergere le nostre fragilità.
Per ascoltarsi ci vuole silenzio. Spezzare la routine. Curare, come si fa con una pianta delicata, la propria solitudine. Leggersi dentro, sentirsi senza pregiudizi in un ascolto che diventa, appunto, sensazione. Tempo per comprendere dove si è, perché si è arrivati lì, dove si sta andando e a cosa ci si sta riagganciando.
Ascoltarsi vuol dire ritrovare un ricordo, un’esperienza bella o brutta del passato e riguardarla, confrontarla con ciò che si sta vivendo adesso, per coglierne le differenze, e chiedendosi il perché.
Ascoltarsi: non è facile.
Perché c’è anche la possibilità di non percepire nulla, di sentire il vuoto. Trovarsi in una strada buia, silenziosa, da soli. È quello il momento, più difficile, ma importantissimo, la salvezza: scovare risorse dimenticate, voci flebili, ricordi piccoli e teneri.
Quello è il momento per raccontarsi a qualcuno: per raccontare quel vuoto, quell’assenza, o quella presenza troppo lontana. Dall’ascoltarsi si passa all’essere ascoltati, che è un atto di coraggio, è l’esposizione della propria nudità.
Grido
Dietro a un silenzio può nascondersi un grido di aiuto strozzato, una richiesta non espressa, muta.
Quando un bambino è troppo silenzioso, non è un introspettivo o un timido: ha difficoltà a esprimere ciò che ha dentro. I bambini parlano, piangono, chiedono. Senza schermarsi.
Quando un bambino vive in un contesto sofferente e non parla, il bambino non ha mai responsabilità del suo silenzio. Quella responsabilità ce l’ha il contesto.
Un contesto, un ambiente, un’organizzazione possono essere più o meno predisposti all’ascolto. La famiglia è un’organizzazione affettiva. I gridi soffocati dipendono da una predisposizione all’ascolto carente: parlo di ascolto profondo.
Se ripenso al periodo della scuola elementare, mi rivedo come un bambino triste e silenzioso. Eppure, a quelli che mi conoscevano apparivo allegro e socievole. Il grido può celarsi dietro un’esuberanza di facciata, dietro un sorriso o una battuta, un’allegria indossata come una maschera di Carnevale.
Mi sentivo solo, avevo paura di rimanere da solo. Venivo preso in giro: ero grasso, evitavo di giocare a calcio con gli altri, mi rifugiavo nella lettura o nella contemplazione della natura. Nel giardino della scuola c’era un tunnel di ferro battuto con dei glicini, una collinetta con alberi e fiori, una grande fontana con un laghetto coi pesci rossi, una voliera coi pappagallini.
Non ricordo che qualcuno mi abbia mai chiesto, mentre mi sporgevo a guardare i pesci rossi del laghetto, Bruno, c’è qualcosa che non va?
. Conducevo la mia vita, gli altri la loro. Sembravo forte, un ometto.
Poi, credo sia stato in quarta, si affacciò nella mia vita Alessandro. Era un mio compagno dalla prima elementare ma non c’era mai stata una frequentazione assidua tra di noi. Mi chiesi perché si avvicinasse a me, cosa volesse, ero così diffidente, eppure, era interessato a me, mi invitava a casa sua e non si annoiava. Io non ero noioso.
Cercai di capire perché mi invitasse. Era costretto? Mi avrebbe chiesto in cambio qualcosa? Capii, alla fine, che mi aveva scelto. Cominciai a parlare con lui, a essere autentico, a cercare il suo aiuto. Diventammo amici: io, timoroso di tutto, lui spavaldo. Mi regalò un suo libro I Ragazzi della via Pal
, io ricambia donandogli Senza Famiglia
, a cui tenevo molto.
La sua amicizia mi aiutò a guardarmi meglio, con più benevolenza. Non ero bravo a calcio, sicuramente ero goffo e avevo un carattere complesso ma ero degno di essere amico di uno dei ragazzini più popolari della scuola, uno che faceva sei gol a partita.
Sono passati quasi quarant’anni da allora, eppure, se dovessi rispondere alla domanda da chi ti sei sentito ascoltato di più
risponderei: da Alessandro.
Cuore di cane
Quando torno a casa dei miei genitori, scartabello i dischi del mio passato e li riascolto. È un modo per collegarmi a ciò che ero e per sentire chi sono adesso. La musica, per quanto mi riguarda, ha accompagnato molte mie scelte, bei momenti e, talvolta, qualche delusione. Quando appare difficile accedere a un ricordo, o a una situazione da riconsiderare, può essere utile mettere su un po’ di musica del proprio passato, per calarsi meglio lì e allora.
Quel pomeriggio non avevo voglia di studiare.
Non era una novità; preferivo girare la manopola dello stereo argentato: canzoni e parole, parole e canzoni.
Mi appoggiai alla finestra. L’immenso aranceto che raggiungeva la linea del mare di lì a poco sarebbe stato sbranato dal cemento.
Il cielo di dicembre era grigio e cupo. Cominciò a piovere. Mi piaceva guardare l’acqua scrosciare sul vetro, i suoi ghirigori.
Cambiai frequenza. Un tizio dall’accento marcato stava leggendo un indovinello scemo. In palio: un disco.
L’emittente non la conoscevo bene. Era una di quelle locali, di periferia, ma aveva un’ottima emissione stereofonica, chiara e limpida.
Presi nota del numero telefonico della radio e chiamai. Mi passarono in diretta e con la voce un po’ tremante risposi al quiz. Vinsi.
Lo speaker, al termine del programma, mi richiamò.
- Che disco vuoi?
In quel momento, avevo due possibilità: o recitare la parte dell’adolescente che non ero, o quello di esprimere un desiderio aderente alla mia interiorità, a quelli che erano i miei gusti.
- Veramente, mi piace l’ultimo della Mannoia.
- Ma non mi avevi detto che hai sedici anni?
- Sì, ho sedici anni. Diciassette a febbraio.
- La Mannoia… sicuro?
E cominciò a ridere.
- Senti, io ti faccio trovare il disco della Mannoia, qui in radio, vieni fra qualche giorno, intesi? Venerdì prossimo. Sì, venerdì potrebbe andar bene.
- Posso venire solo di pomeriggio: la mattina sono a scuola.
- Va benissimo.
Sospettai di essere stato preso in giro, il tono dello speaker era beffardo. Mio padre mi disse: nessuno ti regala niente per niente
.
Decisi di non andare: era tutta una messinscena, quella del disco in regalo, una strategia per indurre all’ascolto gli scemi come me.
Venerdì pomeriggio, però, dissi ai miei che dovevo andare in libreria ma mi recai alla radio. Ero curioso di vedere come fosse una stazione radiofonica. Quella si trovava in uno stabile vicino al ponte sui liquami del fiume Oreto.
Ci andai a piedi. Nonostante la bruttezza della strada, le luci colorate del Natale che incorniciavano le insegne delle botteghe rendevano quell’angolo di città quasi romantico, di una romantica desolazione. Guardai oltre la balaustra del ponte.
Il fiume scorreva marrone e veloce verso il mare, il flusso frenato dalle lavatrici e dai frigoriferi arrugginiti.
Giunto a destinazione, salii fino al dodicesimo piano; mi aprì un quarantenne con l’aspetto di un illusionista da circo: i capelli neri impomatati, lo sguardo torvo, il viso pallido. Indossava una camicia bianca aperta sul petto, una collana d’oro spessa e lucida.
Mi fece visitare l’emittente. Era un appartamento appena intonacato con quattro mobili in croce e una saletta di regia dietro una vetrata ricavata con una parete in cartongesso. Una pianta finta.
- Mi dispiace ma non ho avuto tempo di prendere il tuo disco, abbiamo avuto da fare qui, stiamo rinnovando la radio, abbiamo preso dei contatti con un network nazionale e ci vogliamo presentare bene. Cos’era? Paola Turci?
- No, l’ultimo di Fiorella Mannoia.
- Senti, facciamo così: ti faccio una cassetta con venti canzoni belle e attuali, da discoteca. Che ne dici? E te la vieni a prendere, che ne so, dopodomani.
- Ma io mi aspettavo quel disco.
L’uomo prese il portafogli dalla tasca dei pantaloni.
- Tieni, sono ventimila lire, comprati il disco che vuoi, ma dopo torna che voglio vederlo. Lasciami il tuo nome, cognome e numero di casa.
Presi i soldi, mi sentii umiliato ma anche coraggioso, perché non avevo accettato la proposta stereotipata del mio interlocutore.
Uscii, percorsi un chilometro a piedi. Cominciò a piovere. Mi riparai sotto la pensilina dell’1 che passò due minuti dopo, lo presi al volo. L’autobus era quasi vuoto. Lungo il tragitto, infilai la mano nella tasca dei jeans accarezzando le banconote.
Arrivai in Piazza Stazione, scesi dall’autobus. Non pioveva più. Due uomini dell’est suonavano le cornamuse.
Mi avvicinai alle bancarelle all’angolo di Via Maqueda che vendevano dischi e musicassette, molta roba era fasulla.
Trovai il disco, bello lucido nel suo cellophane.
Tornai di corsa alla radio con duemila lire di resto, eccitato e contento.
L’uomo pallido prese il disco, lo rigirò tra le mani con l'espressione divertita.
- Ma ti piace veramente, allora!
- Sono belle canzoni – gli risposi, porgendogli il resto.
- Tieni pure. Prendi l’autobus che piove.
Quella sera ascoltai il disco cinque volte.
Cuore di cane e Lunaspina mi stordirono.
Cuore di cane mi sembrò una poesia accarezzata dalle note e sognai di essere io il ragazzo della canzone, in fuga, disperso nel mondo, confortato solo dalla luna.
Lunaspina mi metteva tristezza. Mi parve una canzone di disperazione e speranza ma non capivo quale dei due sentimenti prevalesse sull’altro.
Ascoltai quel disco molte volte.
Credetti di essere l’unico sedicenne che si emozionasse così, per quelle canzoni. Mi rincuorai quando Rosangela, una mia compagna di classe, mi chiese di farle una cassetta. Non mi sentii più così strano.
Se chiudo gli occhi, adesso, dopo venticinque anni, mi rivedo sdraiato sul tappeto del salotto, il disco che gira, che gira, nelle orecchie il rumore dolce della puntina nei solchi.
Posso risentire, ma è un rumore troppo lontano, il battito di un cuore che corre e che non si vuole fermare.
Troppo tardi
Il tennis non va bene.
Il mio coach, che quando lo conobbi aveva ventiquattro anni e adesso mi pare ne abbia settantadue da quanto è provato psicologicamente nell’allenarmi, mi dice che faccio progressi.
Ieri, al cinquantanovesimo minuto di allenamento, ho lanciato la racchetta sul campo, distruggendola, e urlando parole immonde.
Lui, dalla parte opposta del campo:
- Proprio ora, alla fine, che stavi facendo tutto bene!
Secondo me stava piangendo.
Ho riflettuto. Siamo così severi con noi stessi che un piccolo insuccesso rovina, sconvolge quanto abbiamo costruito con tanto sacrificio. Succede spesso. E deludiamo chi fa il tifo per noi.
Accade anche nelle relazioni. Decidiamo di tagliare fuori dalla nostra vita una persona cara che ci ha deluso. Resettiamo anni di investimento affettivo.
Ogni caso è a sé, ma quante volte abbiamo chiuso una storia per una stupidaggine e anni dopo sentiamo di aver perso una parte importante di noi stessi? Ricontattare, rimarginare a distanza di tempo non è facile. Rincontriamo quella persona che, dopo averci ascoltato, chiude la porta, dicendo: Troppo tardi. È passata una vita e tu non hai voluto farne parte. È dipeso anche da te
.
Se siamo impulsivi, difficilmente conteremo fino a dieci prima di spaccare una racchetta o di chiudere una storia. Se ci riusciamo, contiamo fino a quindici.
Chi mi salverà
Il pavimento blu cobalto sembra mare. Liscissimo perché le ballerine potrebbero inciampare al minimo difetto del linoleum. La palestra è l’ultima del corridoio. Dà sulla cucina: oggi fanno pasta e fagioli. Quest’odore è vomitevole. Non mi piace la pasta e fagioli. Mi fa schifo, è roba da vecchi. A casa non la mangio mai. Qui me la fanno mangiare per forza.
Sono solo, c’è ricreazione. Tra