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40 in sella: Ciclografia di un outsider
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40 in sella: Ciclografia di un outsider
E-book209 pagine2 ore

40 in sella: Ciclografia di un outsider

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Info su questo ebook

40 IN SELLA celebra la bicicletta come alfiere di uno stile di vita concretamente più sostenibile, consacrandola a potente strumento di crescita personale e motivazionale. In tutte le sue digressioni spazio-temporali, 40 IN SELLA offre uno spaccato di vita reale. La narrazione si espande gradualmente e per cerchi concentrici, muovendo dai luoghi di comfort più convenzionali a quelli più inusitati: dall'Alto Adriatico a Singapore, dalla Laguna di Venezia alle Cicladi, dalla Macaronesia all'Estremo Oriente. Il mosaico di vissuti che ne scaturisce è un autentico crogiolo tra il nordest italiano e la dimensione internazionale in cui la bicicletta si apre curiosi sbocchi di viaggio. L'intreccio di vissuti ciclobiografici e inedite esplorazioni on the road rendono questo esperimento letterario difficilmente ascrivibile a un genere. Se ami il viaggio e le due ruote a pedali, se le usi come mezzo di evasione e come terapia disintossicante dalla quotidianità, be' ecco: 40 IN SELLA potrebbe essere un antidoto alla noia, oltre che fonte di ispirazione.

IMPORTANTI INFORMAZIONI SULL'EDIZIONE:

40 IN SELLA è un volume interamente autoprodotto e pubblicato senza supporti editoriali esterni. Puoi sostenere l'autore con il passaparola e attraverso questi semplici passi che lo aiuteranno a essere più visibile sulle piattaforme.

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Spoiler > 40 IN SELLA sarà presto fruibile anche in formato audiolibro per sostenere l'inclusione sociale delle persone con difficoltà di lettura. Acquistarne una copia in versione ebook significa fare una scelta responsabile e contribuire alla realizzazione di questa iniziativa.

BIO
The Grandiz è un esploratore insaziabile, un viaggiatore seriale. Tra le esperienze più trasformative del suo eclettico percorso annovera un anno trascorso nella Marina Militare e altri tre solcando i mari come steward internazionale sulle navi da crociera. In seguito, riscopre un'inattesa connessione con la lentezza percorrendo a piedi il Cammino di Santiago fino all’Atlantico, prima di partecipare come chitarrista a Rockin’1000, la più grande performance live outdoor del mondo. Dopo la laurea in Relazioni internazionali intraprende la sfida più ardua: definirsi professionalmente senza tradire l’innata vocazione per i viaggi d’autore. Dall'inizio del 2021 si concentra su un percorso inedito: il primo esperimento letterario indipendente [40 IN SELLA - Ciclografia di un outsider] innesca una serie di scelte professionali che lo avvicinano al mondo autoriale. Subito dopo arriva anche il primo manifesto freelance con il lancio di www.thegrandiz.com, un sito dedicato alla comunicazione integrata d'impresa e alle interazioni tra online e on-life.

Per ulteriori info sull'autore:
visita > www.thegrandiz.com
segui > @thegrandiz (pagina FB e IG)
Per collab. scrivi a > info@thegrandiz.com

Ps Buona lettura!
LinguaItaliano
Data di uscita29 lug 2022
ISBN9791221000283
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    Anteprima del libro

    40 in sella - The Grandiz

    The Grandiz

    40 IN SELLA

    ciclografia di un outsider

    TG PAPERBACKS > Independent Creators

    Copyright © 2021 Marco Piccoli

    Tutti i diritti riservati

    www.thegrandiz.com

    info@thegrandiz.com

    Insta: the_grandiz

    Prima revisione a cura dell’autore

    Seconda revisione a cura di Jennifer Deda

    Terza revisione/editing a cura di Alessandro Nicoletti

    Progettazione grafica e impaginazione a cura di theGraphicside!

    Prima edizione: aprile 2022

    ISBN: 979-12-210-0028-3

    In copertina:

    veduta prospettica della Spiaggia di Levante, Caorle (VE).

    Foto di Marco Piccoli © 2020

    Al tuo sguardo, affinché sciami sempre in luce immensa

    Incipit > Verso i 40 in sella

    Non avrei mai immaginato di poter scandire il corso della mia vita – e poterne quindi raccontare le evoluzioni più disparate – utilizzando la bicicletta come unità di misura.

    Anzitutto perché non sono un ciclista professionista, né un cultore della disciplina ciclistica in sé. Al contrario, ho sempre tenuto una certa distanza dal mondo del ciclismo agonistico, al punto di trovare piuttosto noiose le dirette delle gare più blasonate che ogni anno tengono mio padre incollato allo schermo ultrapiatto da maggio a settembre! Non sono neanche un fanatico ciclo-amatore, di quelli che si vedono in circolazione con accessori e outfit turbo-professionali. Non faccio parte di nessuna società dilettantistica, non possiedo nessuna velo-scuderia e credo di poter dichiarare senza peli sulla lingua che non sono nemmeno un ciclista della domenica; ma allora…perché il chiodo fisso della bicicletta?

    In realtà, il mio rapporto medio con le due ruote gentili si è andato rafforzando dal Duemilasette in avanti, quando comprai l’esemplare che possiedo ancora oggi, e a cui sono indissolubilmente legate molte pagine della mia vita ciclistica non convenzionale. Da allora, ho iniziato a concepire la bicicletta come primo mezzo di trasporto, ideale per coprire distanze medie o brevi. Ne ho colto gli enormi vantaggi e benefici sul mio stile di vita quotidiano. Questo punto di svolta mi ha gradualmente fatto cambiare prospettiva, permettendomi di individuare addirittura la chiave interpretativa di un’evoluzione personale che è ancora in corso.

    Tuttavia, quello che mi sembra davvero bizzarro a poco più di novanta giorni dal traguardo degli otto lustri, è la possibilità di correlare ciascuna fase della mia esistenza a una bicicletta, e con ciò, poter associare a ciascuna di esse un’età, dei luoghi, degli aneddoti, degli eventi inaspettati di cui porto ancora un ricordo più o meno nitido. Sembrerà una cosa superflua, forse banale e priva di notizia, ma quando ho realizzato che potevo comporre la monografia di questi primi quarant’anni in sella a una bicicletta, si sono innescate delle connessioni siderali verso momenti che pensavo di aver relegato per sempre nell’oblio del tempo.

    Poco a poco, ne è scaturito un excursus longevo e profondo attraverso la rievocazione dei momenti epici in sella a tutte le mie compagne di viaggio e di avventura. Come nella ricomposizione di un puzzle perduto che – tassello dopo tassello – restituisce alla propria memoria un dono inestimabile: l’esistenza umana concepita secondo il battito dell’universo.

    PARTE I

    Primi cicli e oltre

    Baby - Graziella Carnielli > Ginocchia sbucciate

    È stato un attimo: un pensiero laterale e fulgente ha attraversato la mia mente come un proiettile impazzito, mentre divampava l’emergenza sanitaria globale che ha stravolto la vita di ogni essere umano su scala planetaria. Già, perché proprio nel momento in cui la nostra libertà di movimento veniva pesantemente ridimensionata, anche il più innocuo giro del quartiere in velocipede poteva divenire oggetto di discussione e divisione, non essendo compatibile con le ordinanze e le restrizioni imposte su scala nazionale. Così, una sera di marzo sono sceso in cantina per recuperare una sedia a sdraio per la terrazza. Mi stavo anch’io rassegnando all’idea di trascorrere – come tutti i comuni mortali – diverse settimane senza potermi allontanare da casa, senza recarmi al posto di lavoro della mia routine. Senza sfrecciare con la mia spider-veló tra i viali alberati e i passeggi ciclo-pedonali della periferia cittadina; magari azzardando sorpassi sul filo del rasoio ai danni di pensionati capricciosi e nonnine rigorose. Quante volte ho sentito le loro imprecazioni severe contro la mia spregiudicata condotta ciclistica dissolversi nella scia d’aria alle mie spalle.

    Non avevo altro da fare che prendere la sedia a sdraio in cantina e tornare al primo piano, rimuovere il cellophane d’imballaggio e verificare l’assetto della mia quarantena in terrazzo. Per fortuna non è andata così. Sono rimasto circa mezz’ora in cantina, quasi in contemplazione, sguardo inchiodato a quel piccolissimo cimelio di metallo, incastonato sotto bancali di cianfrusaglie accatastati l’uno sopra l’altro. Lei giaceva lì, con aria dimessa e crepuscolare. Emanava quello strano magnetismo di chi ti attrae perché ti conosce molto bene, e custodisce una parte lontanissima della tua storia. Trasmetteva quella complicità eterna di chi ti ha visto crescere e poi lasciato andare, di chi ti ha insegnato qualcosa di molto importante, di chi ha condiviso con te istantanee memorabili senza chiederti nulla in cambio, prima di essere dimenticata per oltre trent’anni.

    Mi arrestai su quel fermo immagine in riverente silenzio, sorpreso di venire catapultato nei primissimi anni della mia storia, quando veramente tutto ebbe inizio, nella decade degli anni Ottanta. Nonostante quell’oggetto cult riposasse nella mia cantina già da parecchio tempo, rimasi confuso e un po’ inebetito per l’effetto che mi faceva quell’insolita visione. Infinite altre volte in passato il mio sguardo aveva incrociato il suo, ma stavolta rimasi letteralmente folgorato da una scintilla che non potei ignorare.

    Riapparve così davanti ai miei occhi increduli, la mia primissima bicicletta, sulla quale ricordavo di aver giubilato dopo aver percorso in precario equilibrio i primi quindici metri senza rotelle, senza la mano sulla spalla di papà. Senza mettere a terra la punta dei piedi a carciofo che avevo allora. Quando avevo da poco compiuto tre anni e mezzo, fu lei ad aprirmi al fascino dell’isolato residenziale in cui abitavo, a condurmi in esplorazione, a permettermi di sentirmi veramente libero di muovermi e di iniziare a scrivere la mia leggenda in sella. Chi è nato nei Novanta e oltre, forse non sa che in quegli anni non esistevano le soluzioni su due ruote per i bambini di oggi. Non c’erano mini mountain-bike o city-bike, e quasi tutti iniziavano ad affondare le prime incerte pedalate su un modello cult dell’epoca: la blasonatissima Graziella.

    La mia eroina apparteneva alla generazione in cui sono cresciuto: si trattava di un’autentica baby - Graziella Carnielli. Telaio originale in alluminio, colore azzurro nazionale con sigillo Made in Italy, gomme Pirelli tonalità grigio tortora (ancora oggi sono montate quelle originali), mono-freno anteriore. Era un modello davvero speciale e unico per alcune caratteristiche oggi pressoché scomparse.

    Ad esempio, il giro pedale serviva anche come freno muscolare, giacché la catena agganciava sia in senso orario sia antiorario. Molti anni dopo, mamma mi raccontò che l’acquisto di quel gioiellino era stato un vero lusso per i tempi di allora: per comprare una bici da bambino si andava solo dai rivenditori ufficiali, a meno che tu non avessi un fratello o un cugino più grande. Io ero arrivato per primo lungo la filiera prolifica di famiglia. Non a caso inaugurai le danze su quel leggendario celerifero che sarebbe stato ereditato dai miei fratelli minori e cugini.

    Per imparare a condurre con disimpegno il simbolo indiscusso della mia infanzia abrasi gomiti, mi grattugiai le ginocchia e rimediai persino due punti di sutura. Dopo quasi quarant’anni ne porto ancora il segno tra l’estremità del labbro superiore e la punta del naso. Con questa due ruote le gatte da pelare erano all’ordine del giorno. Qualche anno dopo, accogliendo ingenuamente l’ennesima sfida-tranello che gli lanciavo, mio fratello se la vide parecchio brutta in sella alla baby - Graziella. Andò a schiantarsi a tutta velocità su un muro di cemento armato dopo aver disceso la rampa di accesso ai garage sotterranei di casa. Ricordo ancora l’istante in cui lo vidi planare come una freccia sul cemento grezzo della parete angolare!

    In sella al mio primissimo biciclo mi sentivo come si sente un fiero cavaliere in perlustrazione di lande incontaminate: imparai velocemente a interagire con il micromondo pre-digitale che mi circondava. Le prime incursioni tra i palazzi della borgata in cui abitavo si rivelarono immancabilmente la ghiotta scoperta di scorciatoie segrete, anfratti avventurosi, inseguimenti acrobatici o fughe drammatiche, a volte luoghi oscuri in cui nascondersi oppure tendere agguati alla malcapitata vittima. Di solito, la vittima era sempre uno dei compagni del fittissimo nugolo di velocipedi che sciamava furibondo sotto la canicola sovrana di quelle prime estati trascorse in sella. Sempre che avessi dimostrato di meritartelo. Già, perché se non avevi ancora rimosso le rotelle di stabilizzazione il clan dei celeriferi ti negava l’accesso premium, e tua madre anche.

    C’era un rituale tutto anni Ottanta che non posso tralasciare. Dopo la pausa pranzo, tutti rispettavano un silenzio marziale che permetteva ai più anziani di riposare, alle madri di rigovernare la casa, agli operai di consumare una piccola siesta prima di rimettere in funzione i cantieri.

    Nel frattempo, la mia generazione rimaneva incollata al piccolo schermo (all’epoca funzionavano ancora televisori in bianco e nero e senza comando remoto!) seguendo pedissequamente il palinsesto dei cartoni animati cult, con un giovanissimo Paolo Bonolis affiancato da Manuela Blanchard nella conduzione del celebre Bim Bum Bam! Come dimenticarsi di loro? Furono anni stupendi, in cui si mescolavano una grande curiosità per il mondo esteriore e la sobrietà con cui snocciolavamo le nostre ore di svago.

    A partire dalle tre e mezzo, a volte quattro nei mesi più caldi, tutti i bambini del vicinato scendevano in strada in sella alla propria bicicletta. Se qualcuno era già operativo, ci si assembrava discutendo su come trascorrere le ore di gioco che avevamo davanti: nascondino, guardie e ladri, mosca cieca, palla avvelenata, telefono senza fili, improvvisati tornei di mini-calcio, il fazzoletto, mercatini ambulanti montati sopra le cassette da ortofrutta, tiro ai dadi, e potrei andare avanti per molto ancora. Non era mai un problema trovare un piglio creativo per passare il tempo. L’importante era escogitare un piano, una strategia.  Solitamente, ciò era appannaggio dei più cresciuti e avvezzi al pericolo. Non sapevamo cosa fosse la noia: zero cellulari, smartphone, o social. Noi eravamo semplicemente sociali e socievoli, con chiunque non fosse appiedato!

    Era un periodo molto florido per l’industria delle costruzioni. In assenza delle scrupolosissime norme di sicurezza odierne si poteva facilmente violare il limite di accesso di un cantiere edile e provare un’adrenalina galvanizzante nel trasgredire le raccomandazioni delle nostre madri: Non andare a cercartele! tuonavano mentre schizzavamo via come saette dal palazzo E vedi di comportarti bene, non allontanarti troppo, non sporcare le scarpe nuove!. Per noi quelle erano benedizioni: bastava annuire con il capo in un’espressione semi seria e si spalancava la porta della libertà e della trasgressione. Dietro l’angolo della piazzetta c’era sempre una due ruote pronta a tirarti fuori dai problemi che potevano presentarsi.

    Ho un ricordo tutto particolare legato alla mia prima mini-veló, forse in assoluto una delle mie primissime reminiscenze dell’infanzia. Era una giornata funestata dal maltempo del novembre del 1986: stava piovendo a nubifragio e il cielo frustava ferocemente con saette abbacinanti e tuoni assordanti la zona in cui si trovava la mia scuola. Suonò la campanella finale, quella che tutti noi aspettavamo con trepidazione per andare a casa, pranzare e giocare: parte fondamentale della nostra routine. Ricordo che ero nella classe prima, di lì a poco avrei cambiato scuola e quello fu l’unico quadrimestre che trascorsi con i miei coetanei di quartiere. Lo scuolabus mi lasciò come sempre al crocicchio dell’isolato in cui abitavo, da cui poi iniziai a percorrere a piedi –come facevo ogni giorno – qualche centinaio di metri che mi separavano dal citofono di casa. Quel giorno trovai la mia tata ad attendermi con un ombrello enorme color prugna. La signora Anna tagliò corto e mi cinse sotto il parapioggia, indirizzando freneticamente i miei passi verso casa.

    Fu a quel punto che nel mezzo dell’acquazzone che stavamo attraversando, mi accorsi di un rumore stridente. Era come un lamento acuto e persistente. Proveniva da una sterpaglia di rovi di una palazzina abbandonata molto prossima al condominio in cui vivevo con la mia famiglia. La pioggia fitta schermava un po’ la vista. Ciononostante, quello che riuscii a mettere a fuoco sopra lo scroscio incessante del temporale mi fece realizzare una cosa terribile: un gattone grigiastro tutto spelacchiato era rimasto intrappolato con la coda tra le spire di un nido di rovi, e tentando di liberarsene aveva ulteriormente accresciuto la stretta di quella spirale pungente che lo faceva guaire in modo spaventoso, quasi agghiacciante alle mie orecchie. Cercai di convincere la mia tata con qualche strattone che dovevamo assolutamente fermarci e trarlo in salvo. Rimediai un diniego secco e inopponibile, anche per la veemenza con cui lei mi trascinava in direzione opposta. Provai a liberarmi di quel placcaggio ma non ottenni nulla: fui tradotto a casa con il broncio livido e il cuore in fiamme. Tutto sembrava volgere al peggio: seduto a tavola, provai a piazzare un pianto isterico a mia madre. Tra i miei singulti profondi spiegai che quel gattone non si poteva lasciare lì in quegli stati, agonizzante e seviziato da quella maledetta corona di spine. Non ottenni nulla. Così, sentendomi ostaggio della sorte, attesi che mia madre si ritirasse in cucina per riporre le stoviglie.

    Con un guizzo felpato infilai la giacca ancora fradicia e afferrai le mie scarpette da scolaro. Stringendo nervosamente nella mano destra le chiavi del garage sgattaiolai verso l’uscio della porta d’ingresso. In un Gesù Maria ero in sella alla mia due ruote. Pedalai in apnea verso il pelosone a quattro zampe che dovevo salvare. Immaginatevi la scena: tutta in analogico, nessuna possibilità di tracciare la mia posizione per mia madre, salvo inseguirmi dal balcone di casa con lo sguardo affilato di una spia sovietica, indovinando la traiettoria del mio esilio irriverente sotto il cielo furibondo. Sapevo che sarei stato scoperto, raggiunto e punito, quindi pedalai all’ossesso sulla baby - Graziella per sfruttare quei pochi istanti di vantaggio che la mia evasione mi assicurava. Fui sul posto in un minuto, e trovai il gattone spelacchiato in preda a un delirante pianto di panico e di dolore. Provai ad avvicinarmi e a rimuovere le spire dei rovi con la forza delle gambe, ma mi ritrovai a terra in una pozzanghera di fango e zuppo d’acqua, a pochi centimetri da quel groviglio di spine in cui il gatto continuava a dimenarsi rabbiosamente. Appena oltre il muro d’acqua iracondo che teneva il sipario, udii il mio nome scandito bene raggiungermi come un segnale d’allarme ovattato: Torna immediatamente a casa! Poi facciamo i conti!. Non mi rassegnai, anzi mi convinsi a tentare un ultimo disperato colpo di mano per rimettere in libertà quel povero felino terrorizzato. Tentai di svincolarlo usando un ramo spezzato dalla tempesta ma niente da fare. Mi arresi. Fui lì per inforcare nuovamente il mio piccolo velocipede quando nel mezzo della pioggia incessante si stagliò una figura autorevole nei suoi contorni resi incerti dalla scarsa visibilità: si avvicinò repentinamente verso il punto in cui mi trovavo, pedalando a ritmo forsennato. Quella sagoma oscura

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