Barche controcorrente
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Anteprima del libro
Barche controcorrente - Claudia Vazzoler
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I
Non la chiamo dal giorno prima. Intanto che me lo dico – che non chiamo Anna, intendo – do rapide bracciate, contrasto l’acqua, io col mio corpo magro, io coi miei muscoli che sento doloranti ogni volta che esagero a inerpicarmi su per il Montello e i suoi saliscendi, e arrivo qui, in questo angolo del Piave che considero solo mio.
L’acqua del fiume mi è amica, ma io la sfido sempre, non posso farne a meno. Mi spoglio, mi tuffo, nuoto rabbioso, mi odio e mi ammiro, mi odio nel ricordare, mi ammiro nel dimenticare.
Anna. Non ricordo nemmeno quando è stata l’ultima volta che abbiamo fatto l’amore. Anna, una compagnia, un affetto, un’amica. Ma non è Emma.
Mentre nuoto immergo la testa, respiro, immergo, e i ricordi diventano tenui. No, trasparenti. Se ne va l’eco delle giornate con lei. Se ne va quella vita. Immergo tutto il corpo, tappo occhi, naso e bocca e recupero il passato finché comincia a farmi paura.
Immagino lo scricchiolio delle foglie calpestate poco fa dalle ruote delle bici mentre salivo verso questa conca, e penso alle stesse foglie accartocciarsi sulla nostra pelle quando eravamo distesi, con le cicale che frinivano e noi che manco ci provavamo a osservare le stelle come ci ripromettevamo ogni volta, perché eravamo troppo impazienti di esplorarci.
La vedo sullo scooter mentre mi faccio portare dalla sua guida maldestra su per le strade sterrate. La vedo mentre cerco di insegnarle a nuotare a stile libero. E i bagni in mare, e le notti estive, e la sua voce dal timbro giovane e leggero.
Qui sotto, le orecchie mi rimandano il fischio del treno, come quello che attraversava il ponte mentre noi eravamo in macchina, nascosti al mondo, i sedili reclinati, i vetri appannati. E i nostri sussulti accompagnati dallo sferragliare delle rotaie sui binari.
Un giorno piovve a dirotto e tememmo di rimanere impantanati. Ridemmo di cosa avrebbe potuto scrivere un giornale locale se ci avessero ritrovati lì.
Mi piaceva come leggeva, Emma. Le dicevo che era brava. Mi piacevano molte cose, allora. Per esempio, farle vedere il tramonto in laguna da Lio Piccolo, le stelle in agosto dal monte Pizzoc, portarla in bici su terreni sterrati e percorsi sconosciuti e a Trieste dove i personaggi di Svevo prendevano vita, dove Emilio Brentani aveva portato il suo amore. Mi piaceva farle sentire l’acqua gelida del torrente e del Piave, qui, dove mi trovo adesso.
Ecco, mi dico, inizia il dolore. Emma deve sparire per oggi, deve tornare l’uomo che sono.
Allora raggiungo la riva, e lì tutto riprende forma, piano. Io mi chiamo Ennio e non so più nulla di chi fossi una volta, io amo Anna e non più Emma.
Mi rimetto i boxer, la solita t-shirt e i pantaloncini scoloriti, perché quel giorno non ci avevo neppure pensato a indossare qualcosa di tecnico per la corsa. Volevo altri ritmi. Volevo rallentare, osservare il mondo. Mi rimetto in spalla anche lo zaino della Canon e riparto.
Amo il Montello, quella strana collina di terra rossa che si eleva oltre i trecento metri a sud del corso del Piave. L’ho esplorato quasi tutto, questo luogo poco abitato e boscoso con stradine chiamate prese che lo tagliano in senso longitudinale.
Mi sento agile, nonostante l’età. Utilizzo sapientemente i rapporti che mi consentono di non sforzare la gamba. Gamba che mi trascina anche alla scoperta di sentieri e strade bianche non asfaltate.
I raggi solari illuminano le foglie che cadono dagli alberi e danzano, sospinte dal vento.
Raggiungo il cimitero britannico. Ci arrivo percorrendo un breve viale circondato da uliveti. Sono lì per fotografare delle tombe. A dirla così suona strano, ma ho iniziato un progetto di narrazione in cui associo foto d’epoca delle vittime di guerra alle loro lapidi. Prendo come punto di partenza il ritratto per raccontare le loro vite. Un pretesto per innescare riflessioni sui conflitti armati e su chi la vita in quei conflitti l’ha persa. Cerco tratti di comunanza, facendo un confronto tra passato e presente. Mi soffermo sullo sguardo e, attraverso questo, parlo della condizione umana.
Le foto che scatterò le invierò successivamente a dei colleghi a Bogotà, la città che ora sento più mia di questa. Lì si è creato un nuovo distretto nella zona del Barrio San Felipe, area di piccole case popolari fino a qualche anno fa abbandonate e ora proposto come quartiere dell’arte con diverse gallerie commerciali. Chissà se questo mio progetto diventerà davvero una mostra personale all’interno della fiera d’arte contemporanea di Bogotà.
Al diavolo! penso, che mi importa della visibilità che avranno le mie foto. Io ora ho solo voglia di farmi trascinare dal rumore di questo vento, che scuote gli alberi e fa vivere questo posto di morte. Il sibilo sembra entrarmi nell’obiettivo, mentre fili di erba sporcano il bianco delle lapidi. Sembrano fili presi a sberle, ondeggiano di qua e di là, continuamente, destra e sinistra, davanti alla base delle tombe. Ogni posto ha un proprio caos, una propria muta tragedia, un proprio moto di ribellione invisibile. E io lo voglio fotografare.
Non mi accorgo del tempo che ci metto. Raccolgo un centinaio di scatti, e quasi riempio la scheda Compact Flash. Do una rapida occhiata intorno a me. Quando il mio occhio è fuori dall’obiettivo, tutto torna calmo, nessuna ribellione della natura, nessun tormento da svelare. Ripongo obiettivo e corpo macchina nello zaino, me ne vado, tolgo il disturbo, e non so perché, ogni volta che lo faccio, che me ne vado da quel posto, mi sento un vigliacco.
Salgo di nuovo in sella e attraverso la piccola borgata di Santi Angeli, sul versante meridionale del Montello, lungo la presa VIII. Mi affatica e mi attrae questo rilievo in continua formazione, con le quote altimetriche che continuano a crescere qualche centimetro ogni anno. La forma a scudo un po’ particolare, appoggiato nel piano a sbarrare la strada del fiume Piave.
Ci giro intorno. Lascio tracce del mio passaggio in lunghissime grotte. Corro con il fruscio dell’acqua del canale da una parte e la visione di dolci e verdi paesaggi dall’altra. Mi imbatto in qualche villa, in mulini e antiche case rurali. Scendo la collina in percorsi paralleli tra loro e uniti da una dorsale. Mi fermo quando arrivo a pochi passi dalla statale. Appoggio la bici e guardo il paesino di Giavera del Montello, lì, davanti a me.
Riprendo la macchina fotografica, monto il teleobiettivo spinto, appoggio l’occhio al mirino e guardo da lì dentro. So che andare in cerca di fotografie non è roba da fotografo professionista, come in realtà sono. Il fotografo reportagista dovrebbe fare solo finta che i suoi scatti siano scatti rubati. Dovrebbe analizzarli, previsualizzarli, studiarne le minuzie, accorgersi delle lente metamorfosi della luce e clic, scattare solo allora, solo quando il paesaggio intorno all’obiettivo diventa familiare e altrettanto inutilmente ampio, perché al fotografo reportagista interessa quella particolare porzione di mondo, quella che poi, in effetti, si costruisce e si ribalta e si imprime dentro l’obiettivo e il sensore.
Io invece scatto, scatto come se fossi un pivello, un dilettante, l’uomo di prima. Scatto e mi