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Harley, Davidson e io: Avventure di un Harleysta per caso nell’Italia di oggi
Harley, Davidson e io: Avventure di un Harleysta per caso nell’Italia di oggi
Harley, Davidson e io: Avventure di un Harleysta per caso nell’Italia di oggi
E-book132 pagine2 ore

Harley, Davidson e io: Avventure di un Harleysta per caso nell’Italia di oggi

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Info su questo ebook

Le Harley sono una filosofia di vita su due ruote. Gli harleysti preferiscono lo stile, la solidità e il carisma alla sportività e alla velocità pura, viaggiano all'americana, con l’aria nei capelli e le vibrazioni buone nelle mani, eleganza e comodità coniugate con disubbidienza e rottura degli schemi.
Una Harley saprà divenire in breve il leit motiv della vostra vita e a pervaderla così tanto da costringervi a diventare ciò che non avevate mai immaginato: un ribelle. Non importa a che cosa vi ribellerete, importa che quando sarete in gruppo con i gilet in pelle e i motori rombanti, ciò che vorrete fare non sarà certo prendere uno Spritz al bar... Così quella che era una moto da sogno diventerà presto padrona, vostra e dei vostri sogni.
LinguaItaliano
Data di uscita16 lug 2018
ISBN9788867933877
Harley, Davidson e io: Avventure di un Harleysta per caso nell’Italia di oggi

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    Anteprima del libro

    Harley, Davidson e io - Roberto Massa

    uomo.

    Prologo

    In effetti mi spiace per il signor Davidson, ma l’attuale establishment, che tende a dare vita a continui neologismi al fine di creare stereotipi da sintetizzare nei titoli di articoli da imbonitori, ha scelto Harley, aggiungendo un suffisso nominale, per rappresentare una tipologia di motociclista, appunto l’Harleysta. Pensare che a leggere la storia di questa motocicletta sembra che i due se la siano giocata invece davvero alla pari impegnandosi entrambi per la creazione del mito. La dicotomia del marchio alla fine sembra piuttosto abbia contribuito a creare due filoni, quindi a separare quello che il tempo ha invece unito indissolubilmente, come è successo per Rolls Royce, Beaume Mercier e Pozzi-Ginori. Secondo il dire comune i Davidsoniani sarebbero quelli fedeli ai modelli classici, mentre gli Harleisty cavalcano il futuro, anche se il futuro oggigiorno non sempre è sinonimo di evoluzione vera e propria. Sembra che il confine tra classico e moderno in questo ambiente sia sancito dall’avvento del motore Evolution, considerato una svolta rispetto al classico e spesso compianto Shovelhead.

    Ma in effetti il nome Davidson non si prestava granché a creare una specie di motociclisti e quindi la scelta credo sia alla fine dovuta a motivi di sonorità e non di simpatia verso l’uno o l’altro dei due soci.

    Chissà chi sarà stato il primo a sentire la necessità di creare questo genere, o specie, di motociclisti per determinare, oltre al possesso, una propensione a un certo stile di vita. Certamente qualcuno che poi se ne è pentito. Infatti oggi basta solo possedere una Harley Davidson per essere definito un Harleysta attribuendo a questo possesso significati che spesso sono distanti dalla realtà e dal mito dei bikers americani.

    Ma non è mia intenzione ripercorrere quei miti e nemmeno farne nulla di leggendario, anche perché così per me non è stato. Voglio solo cercare di raccontare cos’è un Harleysta oggi, in Italia, almeno per quello che ho conosciuto io di quel mondo. Non me ne voglia chi crede fermamente nell’appartenenza a un credo, a un ambito o chi ha fede e lealtà verso un marchio o l’altro. Io ho attraversato obliquamente questi confini per avere un punto di vista diverso e anche perché la mia vita è un po’ obliqua verso tutto e tutti.

    Antefatto

    Motociclisti si diventa, ma forse è meglio nascerci. Intendo dire che ci sono molte persone che fanno un grosso sforzo anche per guidare un’auto. Credo anche sia esperienza di tutti vedere quali livelli di caos e deregulation attraversi oggi la mobilità in Italia.

    Guidare una moto vuol dire quindi esporsi a grossi rischi, soprattutto nel traffico convulso e nella ressa delle strade cittadine. Il rischio di incidente, per chi si muove con velocità diverse dal flusso preordinato del traffico, è elevatissimo. Cambiare ritmi e tempi del proprio incedere rispetto al flusso ordinario vuol dire creare una eccezione lineare che provoca il rischio di continui impatti come tra neutrini impazziti.

    In moto però, è inutile dirlo, difficilmente ci si assoggetta al ritmo del traffico, infatti il sorpasso, insieme alla velocità, sono l’essenza stessa dell’andare in moto, inutile negarlo.

    Io ho cominciato ad andare in moto a 13 anni, con un Müller 50 da cross con cui ho imperversato, nelle estati della mia giovinezza, affrontando pistine da cross, sterrati e le strade della mia città imparando quindi molto in fretta che di solito gli altri, i non motociclisti intendo, ti odiano, a morte.

    Inoltre ho capito subito che i Vigili Urbani (oggi Polizia Municipale), che ci odiavano ancora più degli altri, davano la caccia a noi imberbi motociclisti, come lo sceriffo di una contea americana inseguiva hippies e capelloni per sbatterli in cella. Io in cella non ci sono andato ma di multe ne ho collezionate parecchie imparando, col tempo, anche la sublime e difficile arte della fuga dai VoPos.

    Quando i cinquantini non avevano la targa, la questione era solo la velocità di fuga e per questo motivo era indispensabile truccare il motore per avere più chances di cavarsela. Da parte loro gli agenti municipali mostravano anche di possedere dei sentimenti, lo scoprii quando li vidi mettersi in mezzo alla strada con le braccia aperte cercando di afferrarmi in un abbraccio affettuoso. Ma io sono sempre stato refrattario alle smancerie e pertanto svicolavo di lato lasciando deluso il povero agente, per fortuna, di solito sovrappeso e quindi con mobilità limitata.

    Ma erano ormai arrivati i mitici anni ’70, che coincidevano con il compimento dei miei sedici anni che consentivano l’accesso a moto ben più performanti e serie: i 125 cc. Dopo una parentesi di qualche mese con una Vespa Primavera, su cui avevo montato la marmitta a espansione, ero tornato al mondo delle moto da cross.

    Con la Vespa, infatti, ero anche caduto in una lunga frenata fatta di proposito su di una strada ancora ricoperta di sabbia da asfaltatura per dimostrare alla passeggera la mia bravura con le sbandate, capendo, mentre mi involavo verso l’asfalto, che le ruote piccole e il controllo sono inversamente proporzionali. Così, col supporto di mia madre che temeva per la mia vita, convinsi mio padre a comprarmi un KTM GS125 usato.

    In quel periodo, in sella al mio KTM, mi sentivo padrone del mondo: i capelli lunghi al vento, una moto potente per scorrazzare, le ragazze attirate a frotte dall’odore dell’olio da aggiungere alla benzina (il Bardahl) come nemmeno un profumo francese avrebbe fatto e l’odio degli abitanti del quartiere a rendere il tutto più divertente ancora.

    Certo oggi capisco i poveri residenti, a cui ora darei una mano per catturarmi con una rete a strascico. Anche il ricordo che ho dell’anziano che agitava in aria il bastone mentre impennavo lungo la via col motore fuori giri mi fa sentire ora un po’ colpevole, ma erano gli anni ’70, non era colpa mia.

    Con un leggero ritardo rispetto agli States, e con l’utilizzo delle moto invece delle auto Hot road, anche da noi si era diffusa la moda delle riprese. Erano una sorta di gare di accelerazione per qualche centinaio di metri lungo strade periferiche e dritte della città. La notizia dei combattimenti si diffondeva di bar in bar in un batter d’occhio e si formavano subito gruppi di decine di ragazzi in motorino che volevano assistere all’evento. Io mi ero fatto ovviamente subito coinvolgere da queste giro di garette.

    Ricordo che la prima fu con un altro possessore di un KTM che perdeva regolarmente il confronto con la mia moto quando questa era ancora del vecchio proprietario. L’avversario, con la speranza che la mia inesperienza avrebbe colmato il divario motoristico, si era subito presentato al bar del quartiere, raduno di noi giovani bikers, lanciandomi la sfida. Nel giro di pochi minuti una frotta di ragazzi con i mezzi più disparati si era mossa per fare le poche centinaia di metri verso una strada lunghissima, via Giuditta Sidoli, che oltre a essere, appunto, molto lunga, non aveva ancora molte case e inoltre terminava incompiuta e quindi risultava quasi del tutto deserta dal traffico.

    Non so come venisse scelto colui che si prestava a fare da starter con un fazzoletto che simulava la bandiera a scacchi (mi piacerebbe sapere cosa hanno fatto nella vita questi personaggi, forse i politici visto che erano in prima fila ma facevano correre gli altri) ma in men che non si dica eravamo schierati e pronti al via nel tardo pomeriggio estivo.

    Io indossavo i jeans, una camicia e dei Ray-Ban con le stanghette normali. Al via cominciò subito la frenetica salita di marce con il motore 2 tempi su di giri per farlo entrare in coppia, come si usa dire in gergo, per ottenere la massima spinta. Già dai primi metri distanziai l’altro motociclista e alla fine vinsi la sfida. Non senza però qualche conseguenza, infatti, girandomi per controllare la situazione, mi volarono via gli occhiali e alla fine la camicia si era sbottonata fino alla vita trattenuta solo dai jeans. Recuperati gli occhiali miracolosamente indenni e riabbottonata la camicia, ritornai nel gruppo a prendermi i complimenti e gli sguardi delle ragazzine assiepate. Ovviamente occorreva abbandonare al più presto la zona per evitare il garantito arrivo della pattuglia di vigili urbani con le loro Moto Guzzi bianche e blu.

    Mi capitò spesso di fare altre riprese, ma il mitico KTM 125 GS non fu mai battuto da nessun Ancellotti, Aspes o SWM che venne a cercarmi al mitico Bar Gianni di via Duca Alessandro a Parma. La coppia alta della moto favoriva la possibilità di impennare nel passaggio dalla prima alla seconda marcia, cosa che immancabilmente io facevo creando scompiglio tra le massaie che ai quei tempi non usavano il SUV per fare la spesa ma delle borse di pelle nere a rombi. Dopo le impennate e la messa a ferro e fuoco del quartiere, di solito, rimettevo la moto in garage e tornavo al bar in Ciao dove seduto e mansueto attendevo l’arrivo immancabile dei vigili.

    Restò famosa quella volta in cui, dopo una mia scorribanda si presentò al bar il mio primo sfidante proprietario del KTM perdente che venne subito accusato e multato dai vigili per il caos creato. Si diceva che per qualche giorno mi avesse cercato per farmela pagare ma evidentemente, e per fortuna, non mi trovò mai.

    Con il KTM provai anche a fare qualche gara di regolarità, allora si chiamava così l’enduro. Nella prima che feci sembravo essere ben piazzato, ma alla fine si accorsero che mancavano tutti i timbri di uno dei due controlli di percorso. Mi spiegarono poi che i due signori seduti a un tavolino, che mi salutavano agitando il braccio a ogni giro e che io educatamente ricambiavo, in realtà erano commissari di percorso che mi segnalavano di fermarmi per timbrare la scheda. Dopo un annetto di impennate e scorribande, il KTM GS 125 lasciò il posto all’unico esemplare di Maico 125 GS (evidentemente ero affascinato dall’acronimo GS) con serbatoio di alluminio fatto a mano che mai calcò le afose strade della mia città.

    Col Maico intrapresi molte disavventure crossistiche e un viaggio che allora, a 17 anni, mi sembrò una grande avventura: il percorso Bore-Genova e ritorno in giornata.

    Per poter intraprendere l’avventura inventai, con mia madre, la scusa di un giro sui monti. Mi ero recato nell’albergo di

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