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Ayrton Senna: Un dio immortale alla ricerca della felicità
Ayrton Senna: Un dio immortale alla ricerca della felicità
Ayrton Senna: Un dio immortale alla ricerca della felicità
E-book209 pagine3 ore

Ayrton Senna: Un dio immortale alla ricerca della felicità

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Info su questo ebook

Questo non è un libro come gli altri: è il racconto di una vita dove uomo e sport si intrecciano fino a diventare una cosa sola. Per Ayrton Senna, protagonista indiscusso della Formula Uno tra anni Ottanta e Novanta, infatti, non c’è felicità senza vittoria. «Vincere è come una droga, una sensazione intensa. Non ne puoi più fare a meno», dichiarerà. Una dipendenza fisica e della mente. Che lo spinse costantemente a migliorare e a superare i propri limiti, costruendo il proprio mito con disciplina e sacrificio. L’unico modo che conosceva di stare nel mondo, del resto, era quello di essere sempre più veloce, il più veloce, fino trasformarsi in suono, nelle variazioni del ronzio assordante e penetrante del motore sulla pista. La sua è una storia che si intreccia con le grandi domande della vita e dell’uomo. Con l’imprescindibile corsa senza resa ‒ profondamente umana, istintivamente carnale e, insieme, spirituale ‒ alla ricerca della felicità.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita27 feb 2020
ISBN9788836160303
Ayrton Senna: Un dio immortale alla ricerca della felicità

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    Anteprima del libro

    Ayrton Senna - Valeria Biotti

    UNO

    Se anche la gioia lasciasse cicatrici… Ognuna il ricordo di un momento bello.

    Questa cicatrice me la sono fatta a vent’anni, davanti a un tramonto.

    Fabrizio Caramagna

    Come primo maggio 1994

    Personaggi

    : una donna, un casco vuoto e traditore, un medico. Il più grande pilota di sempre. Un ricordo. Un assurdo. Un maledetto braccetto di metallo.

    Voce

    : Domenico Salcito.

    Ho in mano il casco di Ayrton da mezz’ora buona. Tra poco dovrò consegnarlo alla polizia; ma voglio essere io, io e nessun altro, a raccoglierne la confessione. Deve dirmi perché abbia lasciato entrare anzitempo la morte. Perché si sia piegato in maniera così insensata al destino crudo e beffardo.

    Lo osservo. È intonso. Sferico, levigato, perfetto. Tace.

    Porto l’orecchio a contatto con la calotta. Puoi sussurrare, gli dico. Resterà tutto tra te e me.

    Oggi è un giorno bastardo. Un giorno che sembrava non voler giungere mai. Avesse voluto il Cielo! Il tempo si era fermato venerdì, quando la Signora aveva iniziato a tracciare i suoi ampi cerchi, in volo su Imola. Lo schianto di Rubens, poi Roland Ratzenberger: cercava, la Dama Maledetta. Cercava.

    Non mi parla, questo dannato oggetto. Fa l’offeso. Per quando gli ho segato il cinghino, sicuramente, quando l’ho separato da Ayrton. Ma è tardi per i sensi di colpa. Tardi per non voler rinunciare ad abbracciarlo.

    Giuda, sembravi non voler staccare da lui le labbra vigliacche e traditrici.

    Avresti dovuto proteggerlo a costo della tua stessa integrità. E invece ne sei uscito pulito, mentre lo vendevi alla Donna che, con le sue sottili braccia di metallo, lo ha trafitto. Per cosa, poi? Quindici minuti di celebrità: una inquadratura stretta, una telecamera dedicata.

    Mentre il sangue colava da sotto, il verde-oro sembrava impallidire. E il rosso pece inglobava la cerniera da cui non si riusciva a slacciare il sottogola.

    Giuseppe, Giuseppe Pezzi – il rianimatore di stanza al Tamburello – era in ginocchio, alla destra della Williams. Stava impazzendo, provando a far scattare il congegno.

    Ayrton aveva la testa reclinata da un lato, come un pupazzo svuotato dell’imbottitura.

    Ho preso le forbici, le ho impuntate. Dal lato sinistro della macchina, per terra anch’io, sono riuscito ad asportare la protezione. Teoricamente solida, inespugnabile. Di fatto fragile come i caschi dei bambini sulle macchine a pedali: scarabocchiati col pennarello, fatti di cartone.

    Ciò che ho visto è affar mio.

    Ma ciò che ho pensato è che io e quel casco ce la saremmo vista dopo, da uomo a uomo.

    Perché ognuno deve fare la sua parte, in questo lavoro. Perché qui si va forte per correre anche più veloce della morte. E ognuno ha il suo ruolo, in questa storia – sconsiderata, irrinunciabile – che si ripete a ogni giro. Nessuno può tirarsene fuori. Pena, il ruolo dell’assassino.

    Gridavano più del solito i motori, quest’oggi. A coprire il dolore per la morte di Roland. O forse per fingere che andasse tutto bene e che tutto sarebbe andato a meraviglia. Che un’impresa sportiva, festeggiata magari in tono minore, avrebbe restituito dignità a una F1 che non si era fermata nemmeno per la tragedia di uno dei suoi figli.

    È uno show. Un maledetto show. Si infila la testa nella bocca del leone e ci si racconta che è addomesticato. Ma la strada, è lei che comanda. È lei che porta in palmo le monoposto. Le sostiene e le scaraventa via. Il pilota può solo essere convincente. Farle sentire che la rispetta. Che non la sfida ma, anzi, ne esalta caratteristiche e potenzialità. Un maledetto show. Con la gente che sta a guardare, mentre dentro le auto, per la prima volta, una generazione si trova ad affrontare la morte di un pilota, col volante in mano.

    "Cosa diamine stiamo facendo?", pensavamo tutti. E io ero lì, in griglia, dietro a un muro di gomme e asfalto. Guidava Casoni. E nella Medical Car, un’Alfa 164, regnava un silenzio irreale. Con noi anche Federico Baccarini, un rianimatore, e Sid, Sid Watkins, medico della FIA, grande amico di Ayrton.

    Sid era il più scuro di tutti. Il giorno prima aveva detto a Senna, in pole: «Sei l’uomo più veloce del mondo. Perché non ti ritiri e andiamo insieme a pescare?». Ecco. Sid avrebbe voluto essere seduto a guardare l’acqua, attendendo che quel maledetto weekend passasse; a chilometri dai semafori rossi che, appena accesi, facevano vibrare l’asfalto.

    Il GP era appena partito e già era accaduto qualcosa. La radio non voleva saperne di tacere. Ci siamo infilati sull’erba, a sinistra della pista, nella piccola via di fuga davanti alla tribuna centrale, cercando di evitare la Benetton B194-Ford di Lehto che, in pezzi e detriti, ci veniva addosso a duecento all’ora, dopo il tamponamento con la Lotus di Pedro Lamy.

    La Safety Car girava, intanto, mentre noi attendevamo di poter tornare a parcheggiarci alla Variante Bassa. Non ricordo quanto a lungo abbia guidato il serpente delle auto, ma, immediatamente dopo la ripartenza, la radio aveva ricominciato a protestare: «Incidente al Tamburello. Bandiera Rossa!».

    Eravamo a circa un chilometro di distanza. Lo abbiamo percorso in un istante.

    Ancora meno, appena vista l’auto, ci ho messo per comprendere la gravità del fatto. Ci siamo catapultati giù dalla nostra. Ho chiesto a Baccarini di salire sulla parte posteriore della Williams, mentre io e Pezzi armeggiavamo con il casco. Il volante era schizzato via chissà dove, nell’impatto; slacciammo le cinture e prendemmo Senna in braccio. Lo sdraiammo per terra, incosciente e zuppo di sangue.

    Decidemmo, per la prima volta in un Gran Premio, di aggirare il protocollo FIA. Senza passare per il Centro Medico dell’Autodromo, chiedemmo di far atterrare direttamente l’elicottero in pista, per portare Ayrton all’Ospedale Maggiore di Bologna senza perdere altro tempo.

    Sono qui da mezzora. Con il casco di Ayrton in mano. Rifiuta di parlare. Forse pensa sia tardi per costituirsi. Ormai sappiamo tutti che è stato lui ad aprire il pertugio per il braccetto della sospensione che lo ha trafitto. Disfacimento della base cranica e del cervello. Sarebbero bastati 15 cm più su o più in basso e Senna sarebbe sceso dall’auto con le sue gambe.

    Sid dice di aver visto la sua anima sfilare via in un soffio. Ayrton è morto quattro ore dopo l’ospedalizzazione; e non in pista. L’anima lascia il corpo prima che questi smetta di far girare i propri ingranaggi? Non saprei. Quel che so è che l’anima di Senna è in Brasile, adesso. Dove il suo cuore non ha mai smesso di battere.

    Non mi parli, vigliacco inutile. E allora ti racconto io. Le lacrime, nella cappa d’acqua che era diventata la 164. L’angoscia. La consapevolezza fredda e dura di come sarebbe finita.

    È un lavoro maledetto, il nostro. Non dà scampo alla speranza. L’ultima riga per noi è già scritta; non esiste suspense o giallo che riservi sorprese. La diagnosi, l’epilogo, sono a pagina 1.

    E l’incipit – e finale insieme – di questa storia atroce è in una stanza d’ospedale. Due barelle, una accanto all’altra. Il pallore mortale di un futuro strappato via. Ayrton e Roland: così diversi e improvvisamente così uguali, in un non tempo che racconta solo un domani non avverato.

    Poco importa se uno sia il Campione e l’altro il giovane che sognava di prendergli la scia e passarlo. Importa nulla anche tutto il resto.

    Consegno alla Polizia questo casco vuoto e reticente.

    Che abbia un processo equo ed esemplare. Come il mondo della F1, di cui fa parte e da cui avrebbe dovuto proteggere l’uomo più veloce e più sfortunato del mondo.

    Liberamente tratto dai pensieri di Domenico Salcito, responsabile, insieme a Giuseppe Piana, del Servizio Medico al 14mo GP di San Marino, il primo maggio 1994.

    L’uno-due beffardo e crudele del destino

    Personaggi

    : un padre, un figlio e una finestra.

    C’è la sagoma di un bambino che si staglia contro una finestra.

    Non guarda fuori, ma sorride al padre, che lo osserva spalle alla luce. È in piedi su una sedia, il piccolo, e ha un’aria molto seria. Concentrato, fa vuoto e silenzio dentro di sé. Con l’occhio della mente è già per strada.

    Le sue spalle, infatti, attendono di vibrare al suono di un motore. Volkswagen, Porsche, Mercedes: Roland non sbaglia mai. Le indovina a occhi chiusi, è proprio il caso di dirlo.

    Le auto che percorrono la strada non passano mai senza presentarsi. Gli accarezzano l’udito e i capelli; glieli scompigliano, mentre declamano con voce stentorea il proprio nome.

    Su quella collina di Salisburgo, Rudolf Ratzenberger asseconda con orgoglio gli slanci di suo figlio. Alle sue spalle, oltre la finestra e la strada, c’è l’officina della scuola di piloti di Walter Lechner. E c’è quello a cui il giovane è destinato. Perché i suoi occhi sono i padiglioni auricolari e le sue ambizioni il racconto di un sogno.

    Er lebte für seinen Traum c’è scritto sulla pietra, al cimitero di Maxglan, a Salisburgo. Ha vissuto per il suo sogno, Roland Ratzenberger. Purtroppo, è morto per la stessa ragione: essere un pilota di Formula Uno.

    Lo sarà per ben – o soli – 58 giorni.

    Interlagos, Aida e poi l’Enzo e Dino Ferrari. Brasile, Giappone e poi qui.

    Il 30 aprile 1994, durante le prove, la sua Simtek affronta la curva Villeneuve a 319 km/h. Corre a gettone, Roland, per una scuderia che non ha scritto il proprio nome nella Storia se non quel giorno, costola sportiva di un’azienda più nota per le macchine da cucire che per quelle da strada.

    L’alettone cede all’uscita del Tamburello e la monoposto viene lanciata in un infinito esplodere di testacoda. Se ne conteranno sei di fila, eterni e devastanti. Come ghermita da un ciclone, l’auto vortica su se stessa fino a schiantarsi.

    Compressione del torace, colonna vertebrale spezzata. Frattura alla base del cranio e lacerazione dell’aorta. Il corpo perde fiumi di sangue, mentre viene portato in elicottero all’Ospedale Maggiore di Bologna.

    L’autopsia dimostrerà la morte del pilota sul colpo. Ma si tenta (o si finge, dirà qualcuno) il ricovero d’urgenza in ogni caso. Per evitare il sequestro del circuito e la sospensione del Gran Premio, quantomeno.

    Roland viene a mancare due giorni prima di Ayrton, in quello sventurato GP di Imola. Un uno-due crudele, che ha cancellato due vite e due anime diversissime della Formula Uno e le ha unite nel momento più solitario dell’esistenza.

    Lì, su quelle barelle diafane, uno a fianco all’altro e, insieme, uno all’ombra dell’altro.

    Il 7 maggio 1994, al funerale di Ronald, Niki Lauda legge l’orazione funebre. Accanto a Rudolf, il padre, ci sono Margit, Gabi ed Elisabeth, la madre e le due sorelle.

    Presenti circa duecento persone in tutto: c’è Max Mosley, presidente della Fia, che dichiarerà: «Roland è stato dimenticato». E infatti mancano i piloti, reduci dalla celebrazione di Senna, due giorni prima. Un altro funerale in così pochi giorni, a quanto pare, è sembrato troppo.

    Ogni volta che sale in macchina, ogni pilota mette la vita nelle mani del proprio talento, della meccanica e del destino. Ogni volta che ne ridiscende sulle proprie gambe, sa di essere un sopravvissuto. I GP sono vere e proprie battaglie. Che si vinca o si stia a guardare dalle retrovie, se ne esce sempre con l’anima logorata o ferita.

    Tutti si corre per avverare l’idea che si ha di sé. Che sia una proiezione ottimistica o nuda consapevolezza dei propri mezzi, poco importa. La strada è la stessa per tutti, le piaghe sulle mani idem, il dolore di rincorrere una felicità mai del tutto alla portata, anche.

    Alle 13.22 del 30 aprile 1994 Roland sta affrontando la terza delle cinque gare che ha ottenuto per contratto. Il suo obiettivo è quello di battere il compagno di scuderia, David Brabham – figlio di Sir Jack Brabham – e dimostrare a se stesso e al mondo di meritare il giro dei grandi. Corre per l’orgoglio di smentire i medici che dieci anni prima gli avevano consigliato di smettere, dopo una complessa operazione allo scafoide; corre per dimostrare al padre, che sperava per lui in un posto sicuro, magari da meccanico, di essere tagliato per la pista; corre per la mamma, a cui ha mostrato con orgoglio solo una settimana prima la casa a Maxglan che ha comprato per lei e il resto della famiglia.

    È proprio in quella casa che Margit e Rudolf apprendono in diretta della morte del figlio. Il padre è sul letto senza fiato, davanti alla tv. Il cronista di Eurosport manda la pubblicità, per evitare le immagini in diretta del corpo straziato del pilota che viene estratto dall’abitacolo. La mamma è in cucina. Anche lei è incredula: guarda la radio. Entrambi soli, in quel momento atroce, cercano di capire l’inconcepibile e restano immobili, attendendo che degli oggetti spieghino loro come sia possibile.

    A distanza di due giorni, su quella barella, scavato e spento, Ronald è ancora il loro ragazzo. Agli occhi degli altri, invece – accanto a Senna – appare il figlio povero della Formula Uno. Pagò di tasca propria per essere nel novero dei grandi. Ma il prezzo fu davvero troppo alto.

    C’è un uomo che perde la strada: Rubens, Rubinho, Barrichello

    Personaggi

    : un naso rotto, una bara senza piedi. Delle foto mai scattate. Cose che si confondono nella mente o che non sono mai avvenute.

    Voce

    : Rubens Barrichello.

    Perché negli ospedali, negli ambulatori, nei centri medici deve trionfare questo odore di disinfettante? È pieno di roba, un ospedale. Ci sono tavoli, letti, persone. C’è la minestra delle sei del pomeriggio, i fiori sul comodino, giornali e riviste per fare compagnia. Una flebo che gocciola, infermieri che ciabattano e strascicano i piedi. Lenzuola e una tv accesa. Eppure l’unico odore che persiste è quello di disinfettante, come a dover rassicurare tutti sul fatto che, sì, si è lavato; come se non dovesse venire in mente a nessuno di prender fiato dal naso e chiedere anche a mezza bocca: «Ma è pulito, questo posto?».

    È pulito, il Centro Medico. D’altra parte, quando a Imola succede qualcosa è qui che si finisce. E non si può certo far brutta figura. Sembra che io mi sia schiantato a soli 30 metri più in là. Così dicono.

    C’è un televisore con il volume troppo basso, ma le immagini parlano da sole. Le scorgo un po’ fuori fuoco, mentre cerco di capire se quello sia proprio io. Mi gira la testa. E se questa impalcatura attorno al setto nasale non mi salva dall’odore penetrante di Lysoform, mi inibisce invece un po’ la vista.

    È la mia Jordan, quella. E quella testa che sbatacchia dappertutto devo essere io. Osservo la scena da fuori, senza alcuna memoria dell’accaduto. L’auto parte in testacoda, certo a causa della rottura della sospensione posteriore sinistra. Prende di traverso il cordolo esterno della Variante Bassa che, come un trampolino, mi scaraventa oltre le barriere di gomme. Uno schianto assurdo: la macchina rimbalza di continuo, si rovescia più volte, il casco oscilla snodato a destra e a manca, come se il collo non lo reggesse più.

    Finalmente tutto finisce. E in una frazione di secondo eterna e surreale arrivano i soccorsi.

    È davvero straniante vedere la propria morte. O qualcosa che vi si avvicina così tanto. È così che avviene, dunque. Qualcosa si rompe da qualche parte, tutto impazzisce e forse finisce lì. Semplicemente così.

    Chissà se da morti si sente questo stesso odore acre. Chissà se lì ci tengono a far sapere che non c’è più nulla di sporco.

    Questo pensiero ha qualcosa di comico ma mi duole il fianco, se rido. La cosa è seria, mi ricorda qualche pezzo di me rotto qua e là.

    «È la costola, Rubinho», mi interrompe la voce più che familiare di Ayrton. «Incrinata, dicono i medici. Sei un miracolato, amico mio, non sei morto: Dio ti ha protetto.»

    «Un buon motivo per scendere dal letto – gli rispondo – e respirare un po’ di aria buona. Che ci sto a fare a 7 punti da Schumacher in un letto di ospedale?»

    Senna sa bene che anche lui ragionerebbe nella stessa maniera. Alza gli occhi al cielo e sorride. Ma è un sorriso amaro. Per quanto sollevato di vedermi in me, lo avverto tormentato. «Poteva finire male, Rubens, lo sai anche tu. Che tu abbia commesso qualche errore o meno, questo è un anno davvero difficile. Togliere l’elettronica è una follia: le macchine sono più veloci, ma anche molto difficili da guidare. Sarà una stagione con molti incidenti: solo se avremo fortuna non si andrà oltre questo!»

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