Silvano - Principe del Monreale
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Info su questo ebook
L'AUTORE
Adriano Corona, nasce a Sardara il 3 novembre del 1977, un piccolo paese del Medio Campidano, dove tuttora vive. Lavora come geometra, ama viaggiare e fare sport all’aria aperta. “Silvano. Principe del Monreale” è il suo primo romanzo. foto di copertina: Adriano Corona foto autore: Giancarlo Spanu
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Anteprima del libro
Silvano - Principe del Monreale - Adriano Corona
ADRIANO CORONA
SILVANO - PRINCIPE DEL MONREALE
AmicoLibro
Adriano Corona
Silvano - Principe del Monreale
Proprietà letteraria riservata
l’opera è frutto dell’ingegno dell’autore
© 2019 AmicoLibro
Vico II S. Barbara, 4
09012 Capoterra (CA)
www.amicolibro.eu
info@amicolibro.eu
Prima Edizione
maggio 2019
Prefazione
1
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Percorso tranquillo e poco trafficato, in principio con una lieve discesa, tramutata al rientro in una timida salita di sfida.
Ai lati della strada, campi d’erba e fiori gialli, e qualche pianta d’ulivo a scompigliarne il tappeto.
Intorno, solo silenzio, silenzio e pensieri leggeri, tanto leggeri da volare lontano, a un oceano di distanza dai miei passi.
I fiori gialli sono pubblico in festa.
Le piante d’ulivo, lampioni tra i marciapiedi.
Il rumore del vento sull’erba, brusio di parole indecifrabili.
Per chi trova la forza, d’inseguire i propri sogni.
Prefazione
Tutti custodiscono dentro se stessi il ricordo dei sogni avuti nel corso della propria vita, ma solo raramente resta nella memoria l’istante esatto nel quale quei sogni sono nati
.
Ho scelto questo inciso del romanzo perché ritengo che racchiuda il significato del sogno del bambino, una fiammella tremolante e delicata, che quando alimentata dalla passione è capace di ardere come il fuoco di un vulcano.
La scrittura dell’autore, semplice ma curata, conduce i lettori per mano lungo i sentieri dell’anima del protagonista Silvano, prima bambino, poi adolescente, esaltando, attraverso lui, il valore della vera amicizia, tanto preziosa quanto rara.
L’appassionata descrizione dei luoghi si sposa con le vicende dei personaggi, in un viaggio emozionante dentro le aspirazioni del protagonista, che, pagina dopo pagina, diventano quelle del lettore.
È una storia capace di far vibrare le corde dell’anima, di risvegliare i sentimenti più autentici. Un inno palpitante che spinge a credere in se stessi e nei propri sogni, anche quando la strada per raggiungerli sembra davvero troppo impervia.
Ritrovarmi negli anni novanta, gli anni della mia giovinezza, mi ha riempito di una nostalgia dolcissima.
Sono certa che leggerete questa storia tutta d’un fiato, provando la voglia irrefrenabile di correre fianco a fianco con Silvano, e chissà che non vi sorprenda anche qualche lacrima... a me è successo.
In ognuno di noi c’è un pizzico di Silvano.
Buona lettura.
Francesca Spanu
A Marinella e Antonio
1
Chiunque conoscesse Silvano non poteva negare di averlo visto almeno una volta correre.
C’è chi corre per raggiungere qualcosa e chi per sfuggirvi il più lontano possibile.
La corsa rappresentava per lui, in una parola, la libertà.
Sua madre gli disse un giorno, scherzando, che da bambino aveva saltato la fase del gattonaggio, drizzandosi in piedi d’improvviso, per sgambettare lontano veloce.
Le elementari distavano da casa sua quasi un chilometro e Silvano, quella distanza, l’aveva percorsa sempre di corsa, come fosse ogni giorno una gara. Con il sole o con la pioggia poco importava, niente avrebbe potuto impedirglielo, nemmeno le minacce di una madre armata di battipanni.
Tutti custodiscono dentro se stessi il ricordo dei sogni avuti nel corso della propria vita, ma solo raramente resta nella memoria l’istante esatto nel quale quei sogni sono nati. Silvano, al contrario, ricordava con molta precisione il momento in cui il suo sogno ebbe origine.
Era il 28 ottobre del 1984 e, in una domenica di metà autunno, compiva il suo settimo compleanno. La mattina di quello stesso giorno si sarebbe svolta a New York la quindicesima edizione della maratona più famosa al mondo.
Silvano all’epoca non aveva la minima idea di cosa fosse una maratona, ma quando vide alla tv quella marea di persone attraversare il Ponte di Verrazzano, rimase letteralmente senza fiato, come davanti a un’apparizione.
Quel giorno, nella Grande Mela faceva molto caldo. L’umidità presente nell’aria era così elevata da levare il fiato, non proprio le condizioni ideali per correre una maratona.
I primi chilometri della gara furono equilibrati. Nessuno dei corridori sembrava intenzionato a esporsi troppo.
Superato il quindicesimo chilometro però, la situazione mutò di colpo. A cambiarla fu la fuga solitaria del corridore numero 100.
Benché il suo completino sfoggiasse i colori della bandiera francese, lui era italianissimo, si chiamava Orlando Pizzolato. Tenuto conto che la sua partecipazione alla corsa era rimasta in dubbio fino all’ultimo, quando i suoi avversari lo videro scattare, rimasero ancora più sorpresi.
Pizzolato partì velocissimo, con delle ampie falcate, guadagnando in poco tempo dagli inseguitori un discreto vantaggio.
Lanciarsi così presto in una fuga, fu però per lui un grande azzardo, che iniziò a pagare già al trentesimo chilometro, con l’arrivo della prima crisi.
Il ragazzo si fermò di colpo, piegandosi in avanti con l’affanno.
Sembrava che la sua gara stesse per concludersi e, invece, stava appena cominciando. Si raddrizzò sulla schiena, fece qualche passo in avanti e ripartì veloce.
Lo stomaco accartocciato dagli spasmi e i crampi alle gambe lo sottoposero a una prova durissima.
Nei chilometri che seguirono, si fermò per ben sette volte, trasformando quella corsa in una personalissima via crucis.
Quando sopraggiunse la sua ultima crisi, mancavano ancora due chilometri alla fine, e il suo avversario più vicino era a soli dieci secondi da lui.
"Ciao, Orlendo!" disse il telecronista americano con tono beffardo. Per lui, era ormai bello che spacciato.
Fu proprio in quel momento che avvenne la magia.
Il ragazzo, come posseduto da una forza nuova, riprese per l’ennesima volta la sua corsa.
Disperato, sofferente, più morto che vivo, raggiunse il traguardo senza più fermarsi, superandolo per primo e distanziando il suo inseguitore di oltre trenta secondi: un’immensità.
Abbandonato dalle gambe e dal resto del corpo, s’inginocchiò a terra per baciare l’asfalto.
È stata una corsa dove vinceva l’ultimo che sarebbe morto
, disse in seguito il ragazzo in un’intervista. In quelle poche parole c’era tutta l’essenza della maratona.
Da quel giorno, Silvano non avrebbe più sognato, come i suoi compagni di classe, di diventare da grande un pompiere, un pilota d’aeroplani o un calciatore.
Il suo sogno sarebbe stato, invece, quello di diventare un giorno il più forte corridore al mondo, tanto forte da poter vincere anche lui la maratona di New York.
Lui che, così piccolo, la parola maratona non la sapeva nemmeno pronunciare bene. Che i 42 chilometri e 195 metri della gara, sarebbe riuscito a malapena a scriverli con dei numeri tutti storti nel quadernetto a righe della scuola.
Ma i sogni, si sa, non seguono regole, nascono così, senza preavviso, come scintille da un pugno di neve.
2
Silvano era nato nel 1977, come i suoi migliori amici: Carlo, Ignazio ed Eligio, compagni di classe dall’asilo alle medie. Un’amicizia, la loro, siglata col sangue di ginocchia sbucciate, rafforzata nel tempo dalle mille scorribande compiute da complici.
Presi singolarmente, quei quattro davano l’impressione di non avere poi molto in comune l’uno con l’altro. Quando si univano, invece, riuscivano a creare qualcosa di davvero speciale, come i pezzi di un puzzle la cui bellezza si rivela solo nell’insieme.
Carlo era quello che del gruppo aveva fatto per primo ogni cosa. Primo a radersi, primo a guidare un motorino, primo a baciare una ragazza e primo ad andarci anche concretamente oltre.
Ignazio dimostrava più anni di tutti. Quando ne aveva tredici, sembrava ne avesse diciotto, e a diciotto almeno trenta. Il suo aspetto, apparentemente maturo, lo aveva portato ad attribuirsi una saggezza, che era ben lontano dal possedere.
Quando gli facevi una domanda, una qualsiasi domanda, con in viso l’espressione di chi ha in tasca il sapere assoluto, ti dava sempre una risposta, che nella maggior parte dei casi era sbagliata. I suoi racconti erano un sapiente compromesso tra realtà e fantasia, con una più naturale propensione verso la seconda.
Eligio era il più casinista. Pigro come una lumaca, amava fare essenzialmente due cose: giocare con i videogiochi e tifare Inter, passione quest’ultima trasmessagli dal padre, allenatore della squadra di calcio del paese. Aveva il talento naturale di combinare pasticci. Inciampava di continuo e, se stringeva qualcosa tra le mani, era certo che prima o poi gli sarebbe cascata. Gli amici, per definire i suoi casini, avevano coniato la parola Eligiata.
Quella parola venne pronunciata per la prima volta nell’estate del 1990, in un caldo pomeriggio di fine luglio. Quel giorno, Eligio invitò i suoi amici per giocare a calcetto nel cortile di casa sua. Per rendere la sfida più avvincente, gli venne in mente di mettere in palio uno dei tanti trofei che il padre custodiva gelosamente dentro una teca nel suo ufficio. Ovviamente, scelse il trofeo più bello, raffigurante un calciatore di bronzo nell’atto della rovesciata, fissato sopra un grosso basamento di marmo nero e lucido. Era alto almeno quaranta centimetri, e pesava così tanto che per reggerlo bisognava impiegare entrambe le braccia. Si trattava comunque di un premio simbolico, che sarebbe dovuto tornare al suo posto subito dopo il torneo.
Ognuno di loro indossava la maglia di una nazionale di