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E-book245 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Riccardo Bencivenga e Giandomenico Modugno, sono amici fin dai tempi della scuola. L'uno del nord, l'altro del sud, rispettivamente poliziotto e criminologo, Ric e Giando sono spinti dal questore De Luca a rispolverare un vecchio caso ormai archiviato. Anni prima, il giovane Roberto – rampollo della ricca famiglia Concia – è stato infatti ucciso. O almeno questo è quanto crede l'anziana matrona, che reclama la riapertura del caso. Dividendosi fra sordidi sobborghi e locali chic, i due protagonisti ci svelano una Milano ambivalente, che nonostante tutto continua a sorprendere e ad intrattenere come ai tempi di Scerbanenco. -
LinguaItaliano
Data di uscita19 set 2022
ISBN9788728429419
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    Anteprima del libro

    Nessuno deve sapere - Michele Ieri

    Nessuno deve sapere

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 0, 2022 Michele Ieri and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728429419

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Zeus, nell’Olimpo, è arbitro di molti eventi, e molti si compiono per volere degli dèi contro ogni speranza.

    Ciò che è atteso non si avvera, per ciò che non è atteso, un dio trova la strada.

    Così questa vicenda è conclusa.

    Medea, Euripide - Coro finale

    1

    30 ottobre

    RIC

    G uardavo gli alberi scorrere e scomparire mentre la pioggia cadeva a piccole gocce, pigra. Tutti i colori erano stati ingoiati dall’aria ed erano rimaste tre tonalità di grigio che sfumavano verso il nero. Una nuvola a forma di Titanic era immobile davanti a noi e pensai che ci avrebbe affondato.

    Sulla A9 c’era uno strano, umido silenzio. La macchina sembrava elettrica, il suono del motore si disperdeva nello spazio vuoto.

    Agli ordini degli anonimi e ingombranti capannoni industriali, i pioppi d’improvviso mi parvero soldati in marcia. Potevo immaginare le sottili ragnatele di brina che avrebbero tenuto ben presto i loro rami in ostaggio. Gelida, incrostata, quasi fosforescente.

    Giando decise di uscire a Fino Mornasco, immaginai per cercare un bar aperto. Arrivammo a un piccolo incrocio prendendo la provinciale a sinistra.

    Dal mio finestrino passavano case basse con giardini ordinati ma in letargo per l’autunno e l’inverno. Alcuni ostentavano alberi imbustati, come abiti appena usciti da una tintoria.

    Incrociammo poche auto con i fari ancora accesi, anche se il chiarore livido del mattino stava cancellando a poco a poco le ombre.

    Giando ruppe gli indugi e accese la radio. Stavo pensando che aveva sempre comprato macchine di merda. Correvamo a ben sessanta chilometri all’ora, su una vecchia Tempra verde oliva con i sedili in similpelle beige diarrea che puzzavano di alieno andato a male.

    Laura Pausini si piazzò alle nostre spalle, cantando qualcosa sul lato destro del cuore.

    Arrivati a una rotonda rallentammo e io guardai d’istinto per vedere se qualcuno si fosse perso nel vortice e continuasse a girare, ma c’eravamo solo noi, non erano ancora le sette del mattino, aveva smesso di piovigginare e per fortuna non si era alzata la nebbia.

    Da diversi anni la nebbia è quasi sparita, e Milano, senza nebbia, è come Giando senza mutande. Inguardabile.

    «Ehi, Ric, come mai non dici neanche una parola?» disse il mio socio voltandosi per scrutarmi.

    «Sono concentrato sul fatto che ho freddo» risposi con un mugugno.

    «Basta dirlo» esclamò sorridendo.

    Accese il riscaldamento della Tempra che partì come un phon anteguerra, gracchiando e sollevando una sottile polvere giallastra. Una puzza di foglie marce e umido pervase l’aria. Dovetti aprire il finestrino per non vomitare.

    «Ma che cazzo, ci sono carogne di animali nel motore? Che puzza è?»

    Per tutta risposta il mio amico sfoderò il suo sorriso migliore. «Be’, però senti che bel calduccio.»

    Il TomTom era attaccato in basso nel centro del parabrezza con una specie di succhiotto nero e continuava a dare indicazioni. Giando abbassò il volume dello stereo per ascoltare con più attenzione la voce metallica, senza inflessioni, della zombie.

    «A trecento metri svoltare a destra, alla seconda rotonda imboccare la seconda strada sulla destra, via Cairoli, proseguire…»

    «La seconda, idiota. Questa è la prima.»

    «Dipende da dove conti, idiota.»

    La zombie riprese a cantilenare.

    «Appena possibile tornare indietro alla rotonda…»

    Lo guardai, ma Giando non si voltò. Eravamo quasi arrivati a destinazione quando, stiracchiandosi, si fermò e spense la macchina.

    «Ci vuole proprio un bel caffè, un vero napoletano non inizia mai una giornata senza il suo caffè.»

    Come volevasi dimostrare.

    «Ma se dici sempre che il caffè al nord sembra acqua sporca» obiettai spalancando la portiera.

    «Ho capito, ma cosa vuoi? Che vada un attimo a Piazza dei Martiri a berne uno? Noi ci adattiamo, noi.»

    «Non tocchiamo questo tasto perché sai poi come va a finire, finisce che m’incazzo. Milan de chi, Milan de là, e po’ vegnen chi tucc a rump i ball’.»

    «Cos’è, Ric, parli la tua lingua per non farmi capire? Biascichi e ti mangi le parole. Falle uscire ‘ste cazzo di parole.»

    «Ma perché sei sempre così teatrale?» gli dissi facendo una smorfia. «Milano ha accolto sempre tutti, e chi ha voluto ha sempre trovato il modo di darsi da fare, perciò non devi toccarmela, lo sai.»

    «Ma chi te la tocca! Comunque sarà l’acqua, ma voi il caffè non lo sapete fare.»

    Un giovanotto tutto piercing, tatuaggi e cresta ci accolse cordiale; nel bar c’erano diversi tavolini e una tele spenta su una parete. Restammo in piedi a bere il nostro caffè, che, manco a farlo apposta, non era affatto male.

    Giando capì l’antifona e non disse niente. Io uscii, immagino con un’aria soddisfatta.

    L’ufficio di Pasquale De Luca era al terzo piano della questura di Como, in un bell’edificio ristrutturato risalente all’inizio del Novecento. Ci fermammo, a spina di pesce, davanti a un enorme platano su cui molti avevano frenato tardi, visto che mancavano grossi pezzi di corteccia. Scendemmo dall’auto; accanto al tronco, qualcuno come sacrificio alla fertilità aveva lasciato un preservativo usato di fresco e un sacchetto vuoto di popcorn. Aleggiava un odore di piscio stratificato.

    «Cazzo, cazzo, cazzo!»

    Giando sembrava in preda alla più totale disperazione. Alle volte i drammi si consumano accanto a noi, che ne siamo spettatori inconsapevoli.

    «Cazzo. Ho pestato una merda. Ma quanto cagano ‘sti cani? Ma tu guarda, porca puttana!»

    Lungo un lato della sua sneaker blu cobalto si intravedeva un lungo sbaffo marrone, che debordava anche da sotto la suola. L’operazione, sprovvisti come eravamo di una fontana pubblica, richiese alcuni minuti e molti fazzoletti di carta al profumo di aloe.

    Ebbi la pessima idea di ridere e sussurrare: «E vabbè, in fondo porta fortuna».

    Lui, per tutta risposta, mi mise in malo modo i fazzoletti sporchi in mano.

    «Okay, un po’ di fortuna anche a te: valli a buttare.»

    Quando Giando s’incazza i suoi vent’anni di palestra si vedono tutti. Sono vent’anni impiegati come Dio comanda, quasi tutti i santi giorni e per più ore. Strinse gli occhi chiari, mostrando i denti come un leone nervoso, tanto da farmi temere una zampata. Oltretutto Giando ha capelli fulvi, brillanti di riflessi castani, ondulati, e lineamenti decisi, un sorriso che stende le donne e un fisico da nuotatore, pur avendo praticato altri sport.

    Un leone, appunto.

    Con il mio fagottino di merda mi avviai verso il cestino di fronte e tornai. Giando stava passando le suole ovunque, non solo quella incriminata. Erba, bordo del marciapiedi, foglie, zolle di terra. Poi cominciò a battere i piedi come un ballerino di flamenco.

    Alla fine ci avviamo all’ingresso della questura.

    A destra, in fondo all’edificio, separato da una stradina laterale, c’era un altro fabbricato basso, un grande negozio di biciclette da corsa e non, da cui venne fuori una bionda mozzafiato con hot pants color pervinca e canottiera nera generosissima, da cui s’intravedevano le due gemelle tonde, sode e… libere. Aveva delle infradito ai piedi nudi e sottili e una camicetta troppo leggera per quel giorno cupo di fine ottobre.

    Fissò Giando e gli sorrise facendo svolazzare il delizioso carré biondo. Lineamenti e sorriso avrebbero fatto risuscitare un morto.

    «Buongiorno» cantò il mio amico ancora un poco contrariato per la storia delle sue sneakers nuove.

    Lei lo squadrò sorridendo. «Ciao, ti piacciono le biciclette?» gli chiese sottovoce.

    «Da morire, soprattutto le tue. Appena scendo passo a dare un’occhiata.»

    «Cos’hai, problemi con la giustizia, tesoro?»

    «Non lo so ancora» rispose lui dandosi un tono.

    Io, già a quel punto, ero un moccolo.

    Le scale sembravano non finire mai e quando siamo insieme, noi, per principio, non prendiamo mai l’ascensore, perché Giando dice che quelle scatole appese a un filo lo opprimono.

    Quando arrivammo, Pasquale De Luca era seduto dietro la scrivania e giocherellava con la sua nuova Montblanc, ma era più composto del solito. Pasquale, Packy per gli amici e un pacco per la moglie, non riusciva mai a non mettere i piedi su qualsiasi cosa avesse un piano minimamente accessibile.

    Scrivanie, tavolini, sedie.

    Nella nostra classe, la terza G del liceo classico Umberto I di Napoli, occupava l’ultimo banco vicino al finestrone affacciato sul cortile interno, e anche lì, non visti, i suoi piedi vagavano in cerca di appoggi. Ora Pasquale era questore di Como e aveva un bell’ufficio con un arredo stile non Ikea e pieno di impronte di scarpe.

    Era stato un ragazzo con idee precise in testa, infarcito di politica e capelli. La politica era sparita. E anche la zucca era ormai pelata, lucida da far invidia a una palla da biliardo.

    Era un bell’uomo snello, dai lineamenti gentili e dalla mente attenta e ordinata, sempre ben vestito, con due baffetti all’insù che ricordavano Dalì giovane.

    «Tre milanesi a Como!» esclamò venendoci incontro e con voce da sfottò.

    «Parlate per voi che io sono lombardo DOC» quasi urlai avvicinandomi, per poi abbassare il tono avendo visto due persone sedute di spalle nel suo ufficio.

    «La signora Elisabetta Concia e Roberto Arduini, l’avvocato che si occupa degli affari della famiglia» disse Packy; poi dopo una breve pausa continuò: «La signora Concia è una carissima amica del prefetto Aliberti di Milano, persona egregia e a cui devo molto. È lui che mi ha chiesto di fare tutto il possibile per lei».

    «Concia, la fabbrica di profilati in ferro?» chiesi.

    La donna fece un cenno con la testa e mi porse la mano senza alzarsi.

    «Questi sono Giandomenico Modugno e Riccardo Bencivenga, ottimi investigatori, esperti e fidati, a cui mi rivolgo per incarichi delicati quando, diciamo così, servono indagini ufficiose.»

    La signora ci scrutava in silenzio, l’avvocato sembrava non riuscire a stare fermo. Lei indossava un semplice vestito nero e un cappotto beige, senza gioielli né fede, aveva un’aria elegante e un po’ retrò. L’avvocato era un dandy senza ghette, probabilmente aveva una firma anche sulle mutande. La stanza era avvolta dal suo profumo o dal suo dopobarba, pensai che Giando gli avrebbe chiesto la marca.

    «Che profumo indossa, avvocato?»

    Infatti…

    «Perché, non le piace?» ribatté Arduini.

    «Al contrario, lo trovo buonissimo e non l’ho mai sentito.»

    «Nitro di Dumont, ma non credo si trovi in Italia, mi arriva direttamente da Londra.»

    Pasquale tagliò corto: «Caffè per tutti?»

    «Per noi no» rispose Giando. «L’abbiamo appena preso.»

    «Solo un po’ d’acqua» chiese a bassa voce la signora Concia.

    Pasquale, che si era avvicinato al boiler trasparente accanto alla scrivania, le porse un bicchiere di carta. Da come si comportava la donna, che doveva aver superato da poco i sessanta, pensai che avesse problemi d’amore o di eredità. Insomma, mi convinsi che si sarebbe trattato di un lavoretto facile e remunerativo.

    Packy stava tessendo le nostre lodi, quando decisi di tagliar corto ed esclamai: «Signora, non ci badi, è solo affetto».

    «Spero di no» disse seria la donna. «Spero invece sia tutto vero. Come potrete immaginare mi sono rivolta a voi perché questa vicenda mi sta molto a cuore. Vorrei fosse risolta e se ne venisse a capo. Il caso è stato chiuso, per questo il questore non può far nulla, ufficialmente.» Sospirò, sospirammo tutti. «Sento che la verità non è venuta fuori e io voglio conoscerla e agire di conseguenza.»

    Altro sospiro, questa volta profondo, ricerca del fazzoletto, lacrima. Mi tastai nella tasca anch’io, per solidarietà, ma tutti i fazzolettini me li ero giocati con la merda di cane.

    Cadde un certo silenzio, la signora sembrava assalita da dolori mai sopiti, poi d’improvviso si alzò, come insofferente a sé stessa.

    «Bene» fece. «Lei, caro questore, sa come stanno le cose, credo di averle detto e dato tutto quanto è in mio possesso, per cui la lascio con i suoi uomini. Saprà lei illustrare loro al meglio il caso.»

    Si fermò con lo sguardo su di noi come a scrutarci a fondo, per scoprire in che mani fosse capitata. Da vicino mi pareva una donna poco vistosa ma molto bella, dai tratti delicati. Nei suoi occhi, che per un attimo puntarono i miei, colsi un senso di stanchezza e solitudine, come se la vita avesse perso per lei qualsiasi interesse. Ebbi la sensazione che dovesse andare via di fretta perché le sue ferite avevano ripreso a sanguinare. Era venuta da noi solo per guardarci negli occhi, non per raccontare di nuovo la sua storia.

    «Scenda pure, signora Concia» la incalzò l’avvocato. «Io sbrigo le formalità e parlo ancora un momento con i signori.»

    Appena la donna fu uscita dalla stanza, Arduini si lisciò i pantaloni e, dopo aver estratto un assegno dal portafoglio, lo poggiò sulle ginocchia. Noi restammo a guardare il rettangolino di carta in bilico come avvoltoi che volteggiano sulla preda nel deserto.

    L’avvocato, fissandoci dritto negli occhi e con aria di sfida, sibilò: «Quello che ha chiesto la signora Concia è un lavoro impossibile, lo scoprirete. È passato molto tempo e il caso non solo è freddo, è gelato. Voglio dirvi però che ci tiene molto, è un’amica di mia madre e sono il suo avvocato. Credo anch’io che ci sia qualcosa ancora da risolvere in quel tragico episodio accaduto alla sua famiglia».

    «Quindi lei vuole dirci che questi soldi non saranno un regalo da incassare dopo aver cazzeggiato un po’» sospirò Giando.

    «Più o meno» gli rispose lui guardandoci a turno.

    Un altro sospiro, più lungo e profondo.

    «Non mi piace sentirmi dire certe cose e non capisco per chi ci abbia preso, avvocato. Mi prudono le mani e le assicuro che non è un buon segno» chiarì il mio amico, le narici già dilatate.

    Leone, dicevo.

    «Magari questa volta sarà lei a prenderle» esclamò Arduini, bellicoso.

    «Ascolti il mio consiglio, avvocato» intervenni. «Lei avrà anche fatto pugilato o arti marziali, ma eviti di scontrarsi con un TIR e non manchi di rispetto al questore.»

    Pasquale, muto fino a quel momento, lo sguardo sulla sua penna nuova, buttò lì: «Arduini, se non si fida, cerchi altre strade. Io ho ritenuto doveroso nei confronti del dottor Aliberti dare la mia disponibilità alla signora Elisabetta, se permette mettendoci anche la faccia, ma se non è convinto, glielo ripeto, come non detto e amici come prima».

    Un sorriso inaspettato spuntò sul volto dell’avvocato.

    «Elisabetta Concia, oltre che un’amica di famiglia, è stata come una madre per me. Le voglio bene, mi ha chiesto aiuto, mi preoccupo per lei. Non voglio commettere errori. Ha sofferto e soffre ancora molto. Cerco solo di proteggerla da altri inutili dispiaceri. Mi scuso se vi ho offeso, volevo solo accertarmi che ve ne sareste occupati seriamente.» Il sorriso si accentuò. «Adesso non ho più alcun dubbio che sarà così.»

    Posò l’assegno sulla scrivania dopo averlo lisciato con le mani e lo bloccò sotto un fermacarte.

    «Il questore ha il mio numero. Nel caso, non esitate a contattarmi» disse con gentilezza tutta nuova.

    «Lo terremo presente» replicai porgendogli la mano, che lui strinse con vigore.

    «È appena uscito e già mi manca» sussurrò Giando appena fummo soli.

    Packy non gli badò, afferrò invece la giacca appesa allo schienale.

    «Devo andare. Vi telefono nel pomeriggio così ci vediamo a cena e vi spiego tutto. Il prefetto mi aspetta per inaugurare una nuova strada. Fate i bravi.»

    Fuori dalla questura, Giando si fiondò nel negozio di biciclette, io mi diressi in stazione.

    Il treno a quell’ora era quasi vuoto. Il tepore dello scompartimento, in contrasto con il freddo pungente all’esterno, fece il resto.

    Sognai il mio amico immaginario che avevo chiamato ET, perché da piccolo avevo amato molto il film e la scena Telefono-Casa. Non credevo agli UFO, ma da allora guardavo spesso in su sperando di sbagliarmi.

    ET era l’unica persona che conoscesse tutti i fatti miei; anzi erano due, lui e Giando, anche se alcune cose al mio amico in carne e ossa non avevo mai avuto il coraggio di

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