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Un gioco da ragazzi
Un gioco da ragazzi
Un gioco da ragazzi
E-book309 pagine4 ore

Un gioco da ragazzi

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Info su questo ebook

Sergio Tarini, assieme ad altri due balordi, Aldo Furlàn e Nicola Coletti, mette a segno il colpo della sua vita: una rapina alla banca della città di Normanni. Ma l’esito risulta essere ben al di sotto delle aspettative, così i tre decidono di trattenere i soldi per investirli in una partita illegale di gioielli, e rimangono confinati in un casolare sperduto su di un colle a custodire gelosamente il bottino. Nel contempo, suo figlio Luca, un sedicenne con la testa perennemente fra le nuvole, si fa trascinare dal compagno di banco Carlo Thomas De Figis in un'assurda messa in scena. Per qualche strana coincidenza gli stralunati piani di padre e figlio finiranno con l’intrecciarsi, non proprio come previsto… Attorno alla vicenda orbita un universo pulsante e vivo, contraddistinto da comparse che daranno vita a una serie di situazioni tragi-comiche. Dai quattro teppistelli della II B ad Alessia Vani, la bionda infatuazione di Luca, da Salvo “Il Condor” Lomaschi, un presuntuosissimo attempato guru di periferia, a Michele Contaldi, il poliziotto grillo parlante, dalla bellissima compagna di Aldo, Silvia Goryunòva, all’investigatore Ignazio Gandolfi, un impacciato Clouseau travestito da Marlowe. Un romanzo corale che segna l’esordio di un giovane scrittore campano che farà presto parlare di sé.
LinguaItaliano
Data di uscita26 mar 2013
ISBN9788868150044
Un gioco da ragazzi

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    Un gioco da ragazzi - Emilio De Filippo

    Un gioco da ragazzi

    romanzo

    Emilio De Filippo

    Published by Giuseppe Meligrana Editore

    Copyright Meligrana Editore, 2013

    Copyright Emilio De Filippo, 2013

    Tutti i diritti riservati

    ISBN: 9788868150044

    Immagine di copertina:

    Copyright Stefan Steib - s.steib@hartblei.de

    Meligrana Editore

    Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)

    Tel. (+ 39) 0963 600007 – (+ 39) 338 6157041

    www.meligranaeditore.com

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    INDICE

    Frontespizio

    Colophon

    Licenza d’uso

    Emilio De Filippo

    Copertina

    Un gioco da ragazzi

    Venerdì, 3 giugno 2005

    Sabato, 4 giugno 2005

    Domenica, 5 giugno 2005

    Lunedì, 6 giugno 2005

    Martedì, 7 giugno 2005

    Mercoledì, 8 giugno 2005

    Goivedì, 9 giugno 2005

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    Licenza d’uso

    Questo ebook è concesso in uso per l’intrattenimento personale.

    Questo ebook non può essere rivenduto o ceduto ad altre persone.

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    Grazie per il rispetto al duro lavoro di quest’autore.

    Emilio De Filippo

    Emilio De Filippo nasce nel 1974 a Salerno, dove vive e lavora come tecnico informatico. Un gioco da ragazzi, pubblicato da Meligrana Editore, è il suo primo romanzo.

    Contattalo:

    emiliodefilippo@gmail.com

    Seguilo su:

    www.emiliodefilippo.com

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    Twitter

    «È vero, principe, che lei una volta ha detto che la ‘bellezza’ salverà il mondo?»

    «State a sentire, signori,» esclamò con voce stentorea, rivolgendosi a tutti, «il principe sostiene che il mondo sarà salvato dalla bellezza! E io sostengo che questi pensieri gioiosi gli vengono in testa perché è innamorato. Signori, il principe è innamorato… Ma quale bellezza salverà il mondo?...»

    Fëdor Dostoevskij, L’Idiota

    La gente ha bisogno di programmi – diceva lei. – Bisogna farseli dei programmi. Quando sarò troppo vecchia per fare dei programmi e desiderare qualcosa, allora possono anche farmi una bella iniezione e via». Così diceva e anche altre cose, perciò ho cominciato a pensare che l’amavo.

    Raymond Carver, L’avventura

    La notte seguitava ad andare avanti, non c’era niente che potessi fare.

    Charles Bukowski, Storie di ordinaria follia

    La gente felice non ha nessuna storia da raccontare.

    Therapy?, Stories

    I personaggi, i fatti e le località descritte in questo romanzo sono in parte frutto della fantasia dell’autore. Ogni riferimento a persone e fatti è puramente casuale.

    Venerdì, 3 giugno 2005

    1.

    «Forza, scappa!»

    «Ti ho detto di riempire il sacco fino in cima, coglione!» sbraitava Nicola al direttore della Banca Popolare di Novara, agitandogli la pistola contro e mordendosi le labbra fino a farle sanguinare.

    «Smettila, andiamo prima che arrivi la polizia!» Sergio brandiva saldamente la semiautomatica, puntandola verso i cassieri e tenendo d’occhio l’uscita principale.

    Sapeva bene che lì fuori, a pochi metri, ci sarebbe stato Aldo a bordo della Punto che sembrava appena uscita dalla Parigi-Dakar. Il loro uomo era lì ad attenderli, a portali a un passo dal paradiso, in un mondo dove le questioni economiche sarebbero state l’ultimo dei loro problemi, solo un lontano ricordo. Il loro fottuto autista verso la felicità.

    «E che nessuno si muova! Contate fino a cento prima di rialzare la testa, altrimenti...» Sergio indicava a Nicola l’uscita facendo roteare il braccio in direzione della porta, mentre con l’altro continuava a sventolare l’arma contro impiegati e clienti. «Andiamo! Andiamo!» gridava al socio.

    Sgusciarono via dalla banca e si tuffarono in macchina, sgommando a tutta forza e dandosi alla fuga per le strade assolate della città.

    «Stavolta ci siamo! Questa volta ce l’abbiamo fatta, cazzo!» esultava Sergio sfilandosi il passamontagna. Le pupille scure dilatate e il sorriso giallastro fra la barba incolta segnavano il volto di un uomo sulla quarantina, alto e robusto, con il collo di chi avesse appena ingollato un’anguria intera. I pochi capelli sopravvissuti alla calvizie rasati a zero, poi, non facevano che accentuare la spigolosità di una faccia già di per sé squadrata come un monolite dell’ Isola di Pasqua.

    «Vi giuro che Silvia me la sposo, le faccio fare la vita della signora...» balbettava Aldo elettrizzato. «Diamo un ricevimento in grande stile e facciamo sbavare d’invidia tutti quanti!» Le sue mani grassocce appiccicate al volante e il pedale del gas schiacciato a tavoletta.

    2.

    Avevano studiato a lungo quel piano, i tre balordi.

    In una delle stupide e inutili sere al bar Olimpo a qualcuno di loro era balenata l’idea di fare un colpo bello grosso. Non l’ennesima rapina da ladri di polli in cui si erano cimentati fino ad allora, no. Qualcosa di ben altro livello, qualcosa che potesse dare una svolta radicale alle loro vite.

    La scelta era ricaduta sulla banca della città di Normanni, già presa di mira da rapinatori e delinquenti di mezza tacca, specie nell’ultimo periodo.

    «Insomma hai visto? Se ce la fanno queste mezze seghe, possiamo farcela anche noi, non ti pare?» aveva sentenziato Nicola Coletti, alzando gli occhiali scuri sui capelli impomatati all’indietro, mentre scuoteva il giornale della domenica. Gli occhi a cercare lo sguardo del Capo, della mente della banda, un cenno di consenso e incoraggiamento.

    Ma Sergio Tarini sapeva bene che l’amico se la faceva sotto almeno quanto loro ad affrontare un colpo del genere, e che in fondo nemmeno lui ci credeva.

    D’altro canto era impossibile andare avanti in quel modo. Dei tre, Sergio era il solo ad avere un lavoro che gli garantisse un reddito per sopravvivere decentemente. Lavorava come muratore presso la ditta di costruzioni dell’avvocato Mario De Figis.

    In realtà Mario non era stato mai dottore in alcunché, tantomeno in legge. Avevano preso a chiamarlo avvocato, giù in paese, dopo nemmeno un anno che era iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza. Abbandonati gli studi, il titolo gli rimase comunque appiccicato addosso come il rossetto di una bella donna. E alla fine aveva fatto soldi corrompendo sistematicamente le autorità locali, aggiudicandosi le più grosse gare d’appalto, costruendo abusivamente su zone dichiarate suolo non edificabile, ma per lui ogni terra era buona per chi volesse costruirci sopra. «Quando Colombo scoprì l’America, ha forse chiesto il permesso per sbarcarci? E allora, la storia non vi ha insegnato niente? C’è tanto terreno su questo pianeta. Il primo che arriva se lo prende, gli altri se lo prendono nel culo!» amava ripetere in una risata sguaiata a chi gli rinfacciava il suo comportamento non proprio esemplare.

    Aldo Furlàn, detto Mercalli per la sua propensione a tremare al minimo segno di nervosismo, era il più schivo e silenzioso dei tre. In genere si limitava a seguire le decisioni che gli altri prendevano, dietro i suoi centoventi chili di trippa. Il gregario del gruppo, insomma.

    3.

    La Punto sgattaiolò al primo bivio verso le colline romagnole, in una ragnatela di strade e stradine che solo chi era pratico del posto poteva conoscere, tra gli sbuffi della marmitta che rompevano l’anonimato dell’odioso pomeriggio di periferia. Dopo una decina di chilometri arrivarono sullo sterrato in salita e proseguirono la rocambolesca fuga verso le fattorie diroccate sul Colle Frangia.

    Sergio intanto aveva preso il posto di Aldo al volante; il socio era troppo nervoso per guidare. Un bello scossone del sesto grado in corso.

    Il Capo scrutò attentamente gli edifici circostanti. Era lì che si riunivano a pianificare i loro colpi. Ruderi abbandonati dal tempo e dalla memoria, che ora custodivano i progetti di quei tre poveri disgraziati. Dal colle si poteva scorgere tutta la Valle Ladda e, distesa lì in mezzo, come una donna che aspetta nel letto il suo amante, la loro cittadina, Roccafolle.

    Accostò la macchina alla casa e saltò giù con un balzo felino. Doveva prima di tutto smontare e sostituire per l’ennesima volta le targhe. «Va’ a prendere quelle originarie e porta anche un paio di secchi d’acqua e le spugne, così inizi a darle una ripulita!» ordinò a Nicola. Sputò per terra e si passò un braccio sulla fronte per asciugare via il sudore.

    Sergio era un grosso esperto in attività illecite, o perlomeno così lui si riteneva. Conosceva a memoria Rapina a mano armata di Kubrick, visionato ben diciotto volte, e aveva come idolo incontrastato Ronnie Biggs, il cervello della grande rapina che l’8 agosto 1963 prese d’assalto il treno postale Glasgow-Londra, fuggendo con un bottino di oltre due milioni di sterline. Figuriamoci se ora quegli stronzetti dei poliziotti di Roccafolle potevano dare filo da torcere a uno come lui.

    Nicola intanto aveva attaccato a ripulire la macchina.

    «Vacci piano con quelle spugne, che mi graffi tutta la portiera» puntualizzò, accigliato, Aldo. «Mi ci sono voluti due anni per mettere insieme i soldi per questa macchina!»

    «Amico, tra un po’ te ne compri dieci di auto così e questa la userai come cuccia per il cane!»

    «Ok, ma per adesso mi serve, quindi sei pregato di fare con cura. Ricordati che deve ritornare esattamente come prima.»

    «Sporca però mi piaceva di più» osservò Nicola, facendo un passo indietro e inclinando la testa come per squadrarla meglio.

    «Deve piacere a me. È la mia, di macchina.»

    «Mercalli, non capisci proprio un cazzo. Prima aveva un suo stile. Cioè, sembrava una di quelle auto dei rally!»

    «Sbrigatevi, imbranati, e non lucidatela come se dovessimo usarla per un matrimonio! Tenete sempre bene a mente che un’auto sporca passerà sempre più inosservata rispetto a una pulita, tutta lucida e splendente» precisò Sergio mentre avvitava la targa di dietro. «Almeno da queste parti...»

    Dopo un po’, la macchina era quasi pronta, né troppo sporca né troppo pulita, comunque irriconoscibile da quella che era sino a poche ore prima.

    «Prendi una bottiglia di quello buono, Mercalli, che stasera si festeggia!» strepitò Nicola in preda a un’euforia incontrollata.

    Il rudere adibito a loro studio e punto di ritrovo era sempre stato il teatro di serate tristi e noiose, fatte di progetti campati in aria, litigi e sbornie colossali. Quando le cose andavano particolarmente bene, il massimo del lusso era portarsi su un paio di prostitute per rispolverare un po’ quei vecchi materassi lì per terra.

    Quella sera no. Quella sera il rudere era la loro reggia. Il loro Arco di Trionfo.

    «Ma sì, mi compro ‘sta catapecchia e la faccio ristrutturare...» azzardò Aldo. «Anzi la rado al suolo e ci costruisco sopra una villa a tre piani con piscina, che crepi l’avarizia! Bella, tranquilla, lontana dal traffico della città; il luogo ideale per tirarci su i marmocchi con Silvia.» Il panzone continuava a tremare e a spingere gli occhiali tondi sul naso, asciugandosi di continuo i palmi delle mani sui pantaloni.

    Nicola gli lanciò un’occhiataccia di disappunto. «Mercalli, col cazzo che io rimango in questo schifo di posto! Già mi vedo in un bel luogo caldo, spaparanzato al sole, a godermela tutta. Chissà, magari in una di quelle isolette vicino la Spagna. Com’è che si chiamano...» Fece schioccare le dita. «Maldive, ecco! Ho ben in mente il concetto di vita, io. E tu Sergio, non dici niente?»

    Sergio era seduto in disparte, a pizzicarsi la barba ispida sul mento, con lo sguardo fisso nel vuoto. «No, io continuo a fare la vita di sempre. Mi basta avere il frigo pieno e la mente libera.»

    I due si guardarono prima stupiti, per poi esplodere in una fragorosa risata. «Sì, come no, spendi tutto in puttanoni d’alto bordo: bravo, è così che si fa!» esclamò Nicola. Poi sgomitarono tra loro e si allontanarono per prendere le bottiglie di vino.

    Sabato, 4 giugno 2005

    4.

    Le otto in punto di mattina. La sveglia suonò a ricordargli quell’ora maledetta.

    Luca Tarini si catapultò in bagno, sciacquò il viso con l’acqua gelida e sistemò con una noce di gel il ciuffo nero che gli ricadeva puntualmente sulla fronte. S’infilò i pantaloni saltellando come se stesse sui carboni ardenti, abbottonò la camicia, afferrò lo zaino e scese giù.

    Strano, suo padre non era rientrato a casa la scorsa notte. Non che gliene importasse più di tanto, ma il fatto rimaneva comunque insolito. Negli ultimi tempi sembrava che il padre avesse messo la testa a posto: rincasare presto la sera e consumare la colazione alle otto in punto, prima di recarsi al cantiere, era divenuta una prassi consolidata da un anno a quella parte.

    A ogni modo, ora non c’era né il tempo né la voglia di starsene lì a farsi certe domande; aprì la porta e salì sullo scooter.

    L’indicatore del carburante segnava quasi zero. Bisognava passare dal benzinaio e dare una rifocillata al mezzo. «Vabbè, oggi entro alla seconda ora, tanto la Capulli non mi dice mai niente...» disse rigirandosi l’orologio sul polso.

    Luca non era per nulla entusiasta della scuola che frequentava. E i risultati erano lì a testimoniarlo. Il primo anno ripetuto due volte, rimandato a settembre per riparare tre materie nell’ultimo, e ora alla veneranda età di diciassette anni si apprestava a completare la seconda superiore, con una media di presenze che non aveva nulla da invidiare a un deputato parlamentare.

    In realtà il ragazzo aveva splendidi risultati nelle materie letterarie, ma in quelle scientifiche era una vera e propria frana. In quattro anni, le volte che aveva azzeccato il risultato di un’equazione si potevano contare sulle dita della mano di un macellaio cieco. E gli sarebbe servito un pallottoliere anche per svolgere la più semplice delle operazioni aritmetiche. Tanto per rendere l’idea.

    Perché? Perché non riesco mai ad averla vinta con mio padre? Sono così imbecille per lui? pensava tra sé, mentre il ragazzo del distributore riempiva il serbatoio di miscela e l’odore acre della benzina gli penetrava su per le narici.

    «E così vorresti andare al Classico, eh? Ma bravo, avevamo un intellettuale in famiglia e manco lo sapevamo... Hai idea di quanto costano i libri, i vocabolari e tutte le altre cazzatine per fare quella scuola? Lì ci vanno tutti i figli di papà, gente a cui i soldi gli escono dal buco del culo e che non ha bisogno di lavorare, ma solo di starsene in un posto dove incontrare quelli del proprio rango e compiacersi tra loro. Mi sembrano un branco di scolaretti che si divertono a farsi i pompini a vicenda.»

    Così Sergio Tarini aveva elegantemente chiuso la discussione, quando il figlio aveva espresso il desiderio di iscriversi al Liceo Classico G. Carducci di Roccafolle.

    «Ti prego, papà, mi servono le basi per la mia carriera di scrittore...»

    «Ancora con ‘sta storia? Senti, Leopardi, ficcati nella zucca una volta per tutte che questa casa ha bisogno di soldi, non di storie. Smettila di sognare e torna coi piedi per terra.»

    «Il Classico, ma pensa te... Per far cosa, poi? Imparare latino, greco e filosofia?» Sergio alzò la testa dal giornale e glielo tirò contro. «Guarda quanti annunci di aziende che cercano filosofi ci sono in giro! C’è la fila lì fuori!»

    Luca mise la coda tra le gambe e andò a rintanarsi in camera. Non ci provò nemmeno a replicare. Fiato sprecato. Suo padre aveva deciso che l’avrebbe mandato al Tecnico Industriale, o altrimenti l’avrebbe sbattuto a lavorare con sé al cantiere. A farsi le ossa come un vero uomo, a contribuire concretamente al mantenimento della famiglia.

    5.

    Era un vero e proprio miracolo come quel vecchio scassone andasse avanti, contro ogni legge della fisica e della meccanica, eppure a lui piaceva parecchio. Gli era affezionato.

    Lo scooter Garelli era stato suo fedele compagno di tante avventure e ora, anche se ne avesse avuta la possibilità, non se ne sarebbe disfatto per nulla al mondo. Sarebbe stato come abbandonare un amico che ti è stato sempre vicino, solo perché s’è fatto vecchio e non riesce più a starti dietro.

    «Andiamo, bello, ancora un paio di curve e siamo arrivati!» ripeté Luca battendo la mano sul serbatoio.

    Un rombo assordante provenne alla sua destra e, senza avere il tempo di rendersi conto di cosa stesse accadendo, fu inghiottito da una nuvola grigiastra.

    Frenò di colpo, tossendo e stropicciandosi gli occhi. Lì davanti, tra la coltre di fumo che andava diradandosi, compariva la sagoma di un ragazzo più piccolo di lui, capelli a spazzola biondicci e piercing luccicante sul sopracciglio destro.

    «Allora, Luca, lo rottamiamo o no ‘sto trattore?» sghignazzò Carlo sul KTM rosso fuoco. Un piede a terra a fare da cavalletto, il freno stretto nel pugno, ruotava a intermittenza la manopola del gas. «Secondo me faresti prima a piedi e ci risparmieresti pure i soldi della benza!»

    Quella moto da cross, con tutte le modifiche apportate, faceva un casino del diavolo. E più era rumorosa, più a Carlo piaceva. Era un segno della sua presenza sulle strade di Roccafolle, l’unica cosa per cui la gente si girasse a guardarlo. Una notte, suo padre, stanco del rumore che lo svegliava di soprassalto ogni volta che il disgraziato rincasava tardi, prese a martellate il tubo di scappamento e lo staccò via a calci. Per tutta risposta, Carlo ne costruì uno ancora più potente e rumoroso.

    Il KTM era la sua prima ragione di vita; aveva speso un capitale in decalcomanie, modifiche, improbabili modding che alla fine lo facevano somigliare sempre più a un carro di Carnevale.

    «Oggi la Capulli interroga, porca troia. Te hai studiato qualcosa?» chiese il mini-centauro portandosi una Chesterfield alla bocca.

    «Macché, son stato su fino alle due del mattino a cercare di tirar fuori qualcosa dal romanzo, ma sembra proprio che non voglia saperne di andare avanti...»

    Carlo buttò fuori il fumo verso l’alto. «Dovresti prenderti una pausa. Sempre in casa a lavorare su quel cazzo di libro. Di cosa scrivi, se poi non fai esperienze nella vita?»

    «No... a dire il vero il mio lavoro è più un saggio, una riflessione sul rapporto tra l’uomo e il tempo, e poi...»

    «Ok, ok, mio Socrate...» Il biondino alzò le mani, girando gli occhi al cielo. «Come non detto. Io ti ho dato il mio punto di vista, poi fa un po’ come ti pare.»

    Il traffico scorreva intenso dinanzi a loro, seduti sulle due ruote a fumacchiare e chiacchierare. C’era una tale alchimia tra i due ragazzi, un’amicizia così profonda, che alle volte il tempo sembrava fermarsi del tutto. Come se una enorme bolla li inglobasse e li confinasse dal resto del mondo, dalla stupida quotidianità che procedeva inesorabile.

    «Cavoli, le otto e trentacinque! È tardissimo, tra un po’ chiuderanno i cancelli!» Luca scalciò sul pedale d’avviamento più volte. Il bidone non partiva mai al primo colpo, specie quando si era in ritardo.

    Carlo lo osservava tranquillo, continuando a fumare. Poi buttò per terra la cicca e la schiacciò col tacco della scarpa. «Non c’ho mica tanta voglia di entrare, io. Oggi si fa sega, dai.»

    «Ma siamo a fine anno!»

    «E allora? Se mi chiamano a interrogazione non so una mazza e neanche tu sei messo meglio, a quanto pare» controbatté lo studente modello. «Dai, posa lo scassone e andiamo al quartier generale.»

    Luca lo guardò sconsolato; quel ragazzo aveva la capacità di farsi scivolare addosso ogni cosa come l’acqua. E se da un lato lo vedeva come un finto ribelle ricco e viziato, dall’altra invidiava il suo spirito libero, il suo voler stare al di fuori dalle regole a ogni costo.

    Almeno lui non si fa comandare a bacchetta dal padre come fai tu..., pensò rimproverandosi.

    6.

    Carlo Thomas De Figis, come quasi tutti quelli della classe, era più piccolo di Luca. Almeno all’anagrafe. Perché quando si trattava di essere svegli, di tirare fuori gli attributi, Luca sembrava un ragazzino, mentre Carlo, seppur appena sedicenne, sapeva districarsi in ogni situazione con una facciatostaggine che aveva dell’incredibile.

    Thomas era in Italia da poco più di tre anni ormai; da quando il giudice di San Diego ne tolse l’affidamento alla madre Catherine, una quarantenne americana ormai completamente alcolizzata, per riconsegnarlo al padre Mario.

    Negli anni trascorsi con la madre in California, Carlo si era costruito una discreta fama di surfista nel circuito dilettantistico, nonostante la sua giovane età. E il suo sogno di diventare un professionista nel cavalcare le onde si era infranto sulle montagne che cingevano Roccafolle, quando tornò in Italia accompagnato dall’assistente sociale.

    Non la smetteva di rinfacciare al padre di come l’avesse sottratto alla gloria, di come non fosse giusto che dovesse pagare anch’egli, più di loro, le complicazioni del divorzio.

    Era un ribelle, lui. Un carattere ereditato dalla madre, figlia della generazione post-hippie statunitense.

    E alla fine Luca non riusciva mai a dirgli di no, per qualsiasi cosa su cui s’impuntasse. Così prese il catenaccio, attaccò il Garelli a un palo della luce (Chi diamine vuoi che si prenda questo catorcio, andiamo!) e montò a fatica sul sellino del KTM.

    «Carlo fatti più avanti, che in due non c’entriamo.»

    «Prima ci andavamo. Cos’è, stai di nuovo ingrassando?» osservò il biondino. «Dovresti fare un po’ di moto. Sempre a casa col culo incollato alla sedia a scrivere...»

    «Ho capito, ho capito, non ricominciare ora...» lo interruppe Luca, sventolando la mano in avanti ed esortandolo a partire.

    «Tieniti forte e aggrappati sotto al sellino, almeno finché siamo in paese; non vorrei che qualcuno vedendoci abbracciati si facesse strane idee...»

    Imboccarono la prima strada a sinistra, verso il Monte Tallone, solita meta per starsene un po’ in santa pace lontani dagli altri.

    Carlo frenò bruscamente sullo sterrato, sollevando un gran polverone, e accostò vicino a un grosso pino spelacchiato.

    «Eccoci qua, lontani da professori e rompicoglioni vari. Oggi proprio non c’avevo voglia di starmene chiuso in classe!»

    «E quando mai...» bofonchiò Luca mentre scendeva dalla moto.

    Il Quartier Generale offriva il panorama di una Roccafolle immersa in una enorme vallata dell’Appennino tosco-emiliano; centinaia di minuscole case dove tanti piccoli uomini conducevano la loro misera esistenza. Da lassù la tristezza della cosa sembrava ancora più evidente. Ai piedi del Monte Tallone, poco distante dal centro abitato, l’impresa di costruzioni edili De Figis segnava con una enorme cappa di fuliggine la sua minacciosa presenza. Minacciosa poi un corno, perché l’azienda in questione dava lavoro a mezza città, e i cittadini avrebbero preferito respirare quella merda per il resto della loro vita piuttosto che trovarsi col culo per terra dall’oggi all’indomani. Quindi, nonostante le proteste degli ambientalisti, aggrappatisi a fantomatici decreti legge, ora il complesso si ritrovava a espandersi ancor più, e il cantiere appena eretto per i nuovi reparti del centro commerciale in costruzione era lì a ribadirlo.

    A Nord, il monte Ossola sovrastava incombente tutta la valle. A Est, larghe strisce verdi e giallognole si stendevano in un saliscendi variopinto, mentre verso Sud un paio di fatiscenti edifici giacevano abbandonati sulle alte colline del Frangia.

    Carlo prese a frugare nella tasca anteriore dello zaino e ne tirò fuori una pallina di carta stagnola.

    «Sai cos’abbiamo oggi per dessert?» disse con aria compiaciuta. «Lacrime degli dei. Questa è roba che ti spara dritto in orbita, me l’ha data il Coletti al bar Olimpo; da lui solo roba di primissima qualità!» E baciò il panetto di hashish con un sorriso

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