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La dritta via del desiderio
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E-book245 pagine3 ore

La dritta via del desiderio

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Info su questo ebook

Dante, cinquantenne, avvocato ormai affermato, dall'apparente vita perfetta, vive il suo personale viaggio verso l'uscita dalla "selva oscura" e una nuova forma di conoscenza. Elena, quarantenne, anche lei avvocatessa di successo, viene perseguitata da uno stalker. Quella che inizia come una collaborazione lavorativa, si tramuta in una potente storia di amore e tradimenti, fino a cambiare e a rivelarsi un labirintico percorso tra il mondo reale e altri mondi possibili, tra mito, religione e filosofia.
LinguaItaliano
Data di uscita11 nov 2022
ISBN9791221429695
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    Anteprima del libro

    La dritta via del desiderio - Alberto Spoladori

    PARTE PRIMA – LA DRITTA VIA

    Prologo

    L’aula del tribunale era immersa nel silenzio. Il giudice si era ritirato per deliberare.

    Dante stava cominciando a rilassarsi nella poltrona, con un leggero sorriso, dovuto alla certezza di un lavoro ben fatto.

    Guardava distrattamente le pareti bianche, il banco del giudice, le file di sedie retrostanti e la gente che cominciava a uscire dall’aula. Il suo sguardo vagava senza una meta precisa, nella testa risuonavano ancora le parole degli ultimi testimoni ascoltati.

    Un’occhiata stizzita al cellulare gli fece per l’ennesima volta venire in mente l’assurdità di un tribunale con le aule sotterranee dove non c’era assolutamente alcun campo. Chissà quante telefonate troverò appena tornato in superficie.. pensò tra l’ironico e l’ansioso.

    Il dibattimento si era svolto senza particolari intoppi e la linea difensiva portata avanti da Dante era stata ben definita fin dall’inizio e aveva avuto chiaramente successo.

    I testimoni avevano risposto in maniera coerente e non si erano fatti intimorire troppo dalla situazione, ma soprattutto l’esposizione dell’ingegnere Antonio era risultata efficace e convincente, con tanto di utilizzo di computer e proiettore per far capire nel modo migliore al giudice le circostanze dell’evento e le modalità operative che avevano portato all’infortunio.

    Ormai era una strategia vincente che Dante adottava ogni qualvolta fosse possibile: cercare di far capire la situazione al giudice nella maniera più chiara e trasparente, anche con l’aiuto di filmati, documenti o perfino riproduzioni di oggetti.

    Si sa che le parole possono essere interpretate in molte maniere e si sa che spesso i testimoni non sono particolarmente lucidi, per cui utilizzare mezzi oggettivi si rivelava sempre molto importante per esporre i fatti in maniera chiara e per far capire nel miglior modo possibile situazioni lavorative molto complesse e di non facile comprensione per chi non fosse un addetto ai lavori.

    In questo particolare dibattimento, in aggiunta, Dante aveva avuto anche l’impressione che tra Antonio e la giudice, una donna molto bella e intelligente, si fosse creata una certa sintonia e questa cosa, per lui, non poteva che essere un beneficio in più…

    Nell’aula, ora in silenzio dopo i primi minuti di normale tensione, anche le altre persone presenti avevano cominciato a rilassarsi. Chi chiacchierava, chi leggeva qualcosa, chi guardava il telefono, rendendosi subito conto dell’assenza di campo. Qualcuno era uscito dall’aula per andare al bar o in bagno.

    I minuti passavano, veloci per qualcuno, terribilmente lenti per altri, ma ad ogni modo, dopo circa quaranta minuti, tutti sentivano che mancava poco al rientro del giudice e quindi, come una mandria lasciata libera che improvvisamente sente il fischio del padrone e rientra disciplinata nel recinto, così la gente era tornata ordinatamente in aula, tutti si erano pian piano azzittiti e, ciascuno con uno stato d’animo diverso, si erano preparati finché finalmente la campanella suonò. Come da prassi, tutti si alzarono in piedi. Il magistrato e l’assistente si sedettero e dopo aver brevemente riordinato le carte, con voce decisa e stentorea, nel silenzio, il giudice pronunciò le sperate parole:

    «L’imputato è assolto da tutte le accuse per non aver commesso il fatto.»

    Il volto del pubblico ministero restò totalmente impassibile, anche perché aveva intuito facilmente come sarebbe finito il processo, mentre un nuovo, fugace sorriso attraversò il volto dell’avvocato Dante. Un’altra vittoria pensò velocemente, prima che il cliente cominciasse a congratularsi, ringraziandolo e sorridendo a sua volta di sollievo. Lui ricambiò le congratulazioni, ringraziò e indossò un sorriso di circostanza, tante ormai erano le volte in cui si era presentata questa situazione. I pensieri però, come sempre più spesso accadeva, erano meno esultanti e allegri di quello che voleva far trasparire.

    Le facce dei suoi clienti stavano diventando tutte uguali. Quando arrivavano nel suo studio erano sempre tesi, preoccupati. Quando la giustizia ti mette le mani addosso non è mai facile, anche se hai la coscienza pulita. In un settore come quello degli infortuni sul lavoro, poi, la situazione era ancora più complessa, le variabili talmente molteplici che bastava un attimo per passare da illuminato imprenditore a comune delinquente. La domanda era sempre quella: Ma come è possibile, io cerco di dare tutto alla mia impresa, investo continuamente, pago fior di consulenti e vengo trattato in questo modo?. Poi in realtà, a guardare bene, spesso c’erano mancanze, omissioni, letture un po’ allegre del dettato normativo. Però i clienti di Dante erano quasi sempre gente onesta, che sacrificava la vita per il lavoro e che si sentiva profondamente offesa dall’essere coinvolta in questo tipo di situazioni, non capendo che la legislazione era diventata ormai talmente complessa e variegata da prestare sempre un appiglio al pubblico ministero in caso di incidenti e/o infortuni. Bastava una piccola violazione, un macchinario con una protezione temporaneamente rimossa, un corso di formazione non ancora completato a causare l’avviarsi di un procedimento penale. A ciò si aggiungeva che purtroppo, e questo Dante lo pensava spesso, anche taluni ispettori erano eccessivamente cauti e piuttosto che archiviare subito un caso, assumendosene la responsabilità, preferivano inoltrarlo al pubblico ministero in modo che fosse un giudice a prendere la decisione.

    Ad ogni buon conto, anche questa volta la squadra di Dante aveva avuto successo. Uno sguardo d’intesa passò rapido tra lui e l’ingegnere. Erano anni che i due collaboravano insieme e Dante lo chiamava sempre quando si trattava di fare da perito in un procedimento penale per infortunio sul lavoro, in quanto, basandosi su una solida conoscenza della normativa e su una vasta esperienza nel settore, aveva da un lato la capacità di ricostruire e descrivere con abilità le dinamiche e le cause dell’evento, ma dall’altra, e forse ancor più importante, la capacità di spiegare con parole semplici e dirette i fatti davanti al giudice. Tale ultimo aspetto non era per niente scontato, e quante volte Dante aveva visto fior di personaggi tremare e balbettare una volta trovatisi davanti all’autorità. Antonio, invece, aveva una naturale predisposizione a non subire l’autorità e questo risultava molto utile quando si trattava di spiegare con parole chiare e facili concetti anche molto complessi, senza farsi intimorire dalla presenza dei magistrati. In altre situazioni, d’altro canto, questo suo lato del carattere gli aveva causato non pochi guai.

    Anche l’assistente Giulia aveva l’aria contenta. Era un’avvocata giovane, da pochi mesi entrata a far parte dello studio, ma già molto promettente per capacità, per una spiccata predisposizione all’ordine e alla precisione e anche per le innate doti di leader, per ora ancora in embrione, ma già evidenti a chi, come Dante, era da anni navigato nelle realtà aziendali.

    I testimoni invece erano più che altro sollevati di poter uscire da quel posto, da quell’ambiente così diverso e alieno rispetto alla loro vita normale. Uscendo, si guardavano fugacemente a destra e sinistra, come daini in fuga, sperando con tutto il cuore di non doverci mai più tornare come testimoni, tantomeno come imputati.

    Una volta usciti dal tribunale, finalmente all’aria aperta e salutati tutti, Dante si accorse che erano già le 12.30. «Giulia, è meglio che mangiamo qualcosa al volo qui al bar vicino al tribunale e poi torniamo in studio» disse.

    «Va bene avvocato, forse è meglio, visto che ci vuole quasi un’ora da qui a Padova.»

    Così i due si accomodarono a un tavolino esterno del bar vicino al tribunale. Si trattava di un posto rinnovato di recente, in quanto, a causa della terribile pandemia da poco pressoché finita, i vecchi titolari si erano trovati in tali difficoltà che alla fine erano stati costretti a cederlo.

    Prima, come Dante ricordava bene, era un posto caotico, con un arredamento orribile degli anni Ottanta, dove gli avvocati, insieme ai magistrati e ai pubblici ministeri, si ritrovavano gomito a gomito al mattino a prendere un veloce caffè e una brioche, così vicini, rispettosi e amichevoli tra di loro, come poco dopo, in aula, sarebbero stati distanti, austeri e distaccati.

    La giovane coppia che aveva da poco rilevato il bar aveva invece fatto un bel lavoro, trasformandolo in un posto molto trendy, con arredamenti accattivanti e moderni, e, per forza di cose, distanziati.

    Il nuovo nome del bar era piuttosto evocativo, soprattutto per Dante. Infatti, giocando sui nomi effettivi dei proprietari, avevano chiamato il locale Da Paolo e Francesca e, nell’ingresso, i due avevano furbescamente e con ottimo intuito appeso una targa con la famosa frase Amor, ch'a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m'abbandona.

    Forse per merito della targa, o più probabilmente grazie al loro spirito e alla loro verve, il locale stava ad ogni modo avendo parecchio successo. Avevano cominciato anche a servire aperitivi, pasti veloci, cocktail e altri prodotti, tanto che alla sera era diventato un nuovo ritrovo per i giovani. L’idea, appena fosse stato possibile, era quella di invitare anche delle band che suonassero musiche di tendenza, così da attirare ulteriore pubblico. A pranzo, però, il locale rimaneva ancora il regno assoluto di addetti ai lavori e legulei.

    Poco dopo, seduti e dopo aver ordinato, Dante cominciò finalmente a rilassarsi.

    Era una di quelle giornate che talvolta, a settembre, l’inizio di autunno generosamente regala. Il sole scaldava ancora abbastanza da permettere di togliersi la giacca, ma non così tanto da essere fastidioso come in agosto. L’aria, senza la solita cappa di umidità estiva che contraddistingue il clima padano, era pulita, con quel tipico profumo gradevole di fine estate. Una leggera foschia in distanza rendeva i raggi del sole sgranati e quasi visibili e lasciava presagire l’imminente autunno, ma per ora si stava benissimo e il clima era perfetto. I sensi, vista, tatto, udito e olfatto, erano pieni della luce del sole, del suo calore e del particolare sentore autunnale. Dante si assestò ancora meglio nella poltroncina e la mente riandò a un ricordo improvviso: quando frequentava l’università e usciva dalle lezioni verso sera, all’inizio dell’inverno, mancando poco al tramonto, il cielo era di un blu profondo, senza ancora essere scuro. Anche in quel caso la prima cosa che lo colpiva era il profumo dell’aria. Pur essendo in città, l’aria aveva un caratteristico profumo di fresco, di pulito, ma anche, Dante non sapeva come esprimere meglio il concetto, un sentore urbano, di operatività, di gente indaffarata. In quei momenti, camminando e assaporando l’aria, stanco ma contento di aver concluso la giornata, percepiva una sensazione molto particolare, di completezza e benessere, come se il tempo si fosse cristallizzato per un attimo in quel particolare momento.

    Era molto tempo che non riviveva quel tipo di sensazioni, così semplici, naturali, ma appaganti al tempo stesso.

    Il pensiero si soffermò successivamente sulla frase che i nuovi proprietari del bar avevano esposto. Essendo un grande appassionato della Divina Commedia (inevitabilmente anche a causa del suo stesso nome) e avendola letta più volte, gli tornò in mente l’intero insieme di quei versi, del canto V dell’Inferno, caratterizzati da un’anafora, ossia dalla ripetizione della stessa parola all’inizio di ogni verso:

    Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,

    prese costui de la bella persona

    che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.

    Amor, ch’a nullo amato amar perdona,

    mi prese del costui piacer sì forte,

    che, come vedi, ancor non m’abbandona.

    Amor condusse noi ad una morte.

    Caina attende chi a vita ci spense.

    Il poeta in questi versi celebra l’Amore come sentimento assoluto, coinvolgente e ispiratore. Un sentimento talmente travolgente da portare anche alla rovina, ma nel contempo talmente potente da far sì che nessuno, se amato (c’ha nullo amato), può resistere e sottrarsi egli stesso all’amore (amar perdona).

    La forza primordiale di questi versi, incentrati sul sentimento e sull’emozione più antica e ancestrale dell’uomo, ossia l’amore, creavano insieme piacere e turbamento nell’animo di Dante (il nostro Dante, non il poeta) e gli suscitavano delle domande, alle quali attualmente non riusciva a dare una risposta, ma che lo rendevano pensieroso e trasognato.

    Sempre più spesso infatti egli si interrogava su questi temi: cos’è l’amore, cos’è che ci spinge a fare le cose? A vivere? Ad agire?

    Per ora si trattava solo di domande. Forse, nel tempo, sarebbero arrivate anche le risposte.

    «Avvocato, non mangia il suo panino? Rischia di raffreddarsi!» disse improvvisamente Giulia, distogliendolo dalle meditazioni.

    «Certo, lo mangio subito, mi ero assorto in alcuni pensieri» rispose lui, leggermente imbarazzato per essere stato colto in un momento di particolare astrazione.

    Terminato velocemente il pasto, dopo un breve viaggio in macchina, arrivarono finalmente in ufficio, provati ma contenti per il successo nel processo.

    Più tardi, in ufficio, quando tutti erano andati ormai via ed erano state sbrigate le pratiche di routine, Dante si ritrovò solo e, nella calma e nel silenzio improvvisi, tornò con la mente a quel particolare momento del mattino, con una sensazione di nostalgia e di vaga insoddisfazione.

    Dante

    Dante, cinquant’anni suonati da qualche tempo, era senza dubbio alcuno un avvocato di successo. Aveva ricevuto quel nome a causa di una predilezione quasi maniacale di sua madre per la figura di Dante Alighieri, il sommo poeta. A lui quel nome non dispiaceva, anche se era stato talvolta oggetto di prese in giro e giochi di parole, soprattutto da bambino. Ma lui aveva sempre portato con orgoglio questo nome e non si era mai fatto intimidire da chi lo prendeva in giro.

    Cresciuto, un facile e svelto percorso al liceo, di cui ricordava più le feste, gli scherzi e le partite a calcetto che le difficoltà e lo studio, lo aveva portato alla facoltà di Legge a Padova, come da sempre da lui desiderato, dove si era laureato a pieni voti.

    Anche il percorso universitario non fu particolarmente complesso per lui, segno di una mente acuta e brillante fin da quei tempi. In quel periodo, più che gli esami universitari, le maggiori difficoltà erano rappresentate dagli approcci che lui e la sgangherata compagnia con cui si trovava praticamente sempre tentavano con le ragazze. La loro tecnica era quella dei grandi numeri: su cento tentativi andati male e finiti regolarmente in brutte figure, uno ogni tanto andava a buon fine. Il numero di successi era ulteriormente ridotto dal fatto che la metà di quelle poche volte in cui rischiavano di conquistare una pulzella erano ubriachi fradici.

    Memorabile (e ancora ricordata negli annali dei racconti universitari più epici) fu quella volta in cui lui e Michele, un suo carissimo amico, avevano finalmente fatto breccia nelle difese di due ragazze molto carine, ma, nel tragitto per accompagnarle a casa, per fortuna a piedi, si erano accasciati al suolo in mezzo alla strada, vinti dall’eccessivamente elevato tasso alcolico. Ripresisi dopo qualche minuto, in cui miracolosamente non era passata nessuna macchina, erano mestamente tornati al loro appartamento. Ovviamente delle ragazze non vi fu più traccia.

    Per il resto non trovò eccessive difficoltà e riuscì a laurearsi praticamente a pieni voti, con solo un anno di ritardo, dovuto probabilmente alla spiccata tendenza a divertirsi forse più del dovuto.

    Dopo la laurea, cum laude, e dopo pochi mesi passati nel più totale ozio, doverosi per riprendersi dalle fatiche degli studi, iniziò finalmente l’attività del praticantato, presso lo studio di un anziano avvocato. Di lui non ricordava più di tanto, visto che gli erano rimaste impresse soprattutto un paio di cose. Da un lato il feroce cipiglio, aiutato dalle cispose sopracciglia sale e pepe, molto scenografico e che si rivelava particolarmente utile in tribunale; ben più utile di quanto non fosse invero la sua relativa, per non dire altro, bravura. L’altro elemento oggetto di ricordo era peggiore, ossia la brutta abitudine dell’esimio avvocato di non tirare l’acqua dopo essere stato in bagno.

    In quei primissimi anni di carriera aveva fin da subito capito quanto potessero essere cinici e spietati i suoi colleghi, e appena possibile si era messo in proprio e aveva aperto uno studio professionale. Per alcuni anni si era trattato di uno studio associato, ma ben presto Dante diventò un grande fautore della famosa massima la migliore società è quella composta da un numero dispari di persone inferiore a tre.

    Con l’avanzamento della carriera e il successo aveva capito sempre di più il perché il termine squali venisse frequentemente associato al termine avvocati. Gli uni, infatti, sono esseri spietati, dotati di denti spaventosi e pronti a uccidere e spolpare senza pietà la propria preda, mentre gli altri sono dei pesci piuttosto grossi che vivono nel mare…

    Forse anche per questo si era creato fin dall’inizio delle passioni che lo portassero completamente fuori da quell’ambiente, nell’estremo bisogno di respirare aria diversa da quella degli studi legali e dei polverosi tribunali. Aveva in particolare praticato fin da giovane molti sport, dalla corsa alla bicicletta fino alla vela, ma la sua passione più grande era e rimaneva la montagna.

    Anelava così tanto quei momenti di svago e di stacco completo dalla routine quotidiana, da aver anche tolto un po’ di tempo e spazio perfino alla sua famiglia, pur di concedersi ogni tanto un’uscita in montagna.

    Eh già, la sua famiglia. Ventitré anni di matrimonio con la sua bella moglie Ludovica avevano fruttato due meravigliosi figli, Alberto e Angelica, che ormai avevano superato i vent’anni e si erano avviati ineluttabilmente alla loro vita.

    Erano sempre stati una famiglia unitissima e avevano fatto insieme moltissime cose, ma, dopo tutti questi anni, il distacco era ormai evidente.

    Ma andava bene così. Dante era stato sicuramente un padre presente, per quanto possibile, e si era sempre fatto in quattro per i suoi figli, ma ormai sentiva che dovevano prendere la loro strada, distaccarsi dalla famiglia e iniziare a creare la loro vita. Una cosa era certa: per quanti difetti potesse aver avuto come padre, l’unica cosa che nessuno avrebbe mai potuto rimproveragli era

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