Crimini e farinata: Loano, un complicato puzzle per la Berta
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Info su questo ebook
Nicoletta Retteghieri, genovese, laureata in lingue straniere, usa lo pseudonimo di Draky per svolgere la sua attività di cantautrice. Appassionata gastronoma ed enigmista, ha scritto poesie e racconti, in particolare di genere thriller e, per Fratelli Frilli Editori, ha pubblicato i romanzi gialli L’importanza delle acciughe (2011) e La legge del baccalà (2016). Ha pubblicato racconti nelle antologie Brividi sul Bianco (2011, Progetto Letterario Alga), Una finestra sul noir (2017, Fratelli Frilli Editori), 44 gatti in noir (2018, Fratelli Frilli Editori) e Genovesi per sempre (2019). Ha lavorato in radio, mentre in campo musicale ha preso parte a numerosi spettacoli e inciso i CD Landemer e Violino Violento. Nel 2003 ha vinto il premio letterario I Fiumi, sezione musica. Tiene anche conferenze dedicate alla scrittura ed all’ambito linguistico. Grande collezionista di maialini (ne ha quasi 1000), il suo sogno è quello di aprire un museo del maiale. A tale proposito, cerca volonterosi sponsor.
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Anteprima del libro
Crimini e farinata - Nicoletta Retteghieri
CAPITOLO 1
Venerdì 7 marzo - mattina
Il suo socio, Cesare Ferrari, stava urlando al telefono e non perché stesse litigando con qualcuno.
Visto che di solito parlava con un tono di voce normale, Davide Traverso pensò che la telefonata giungesse dall’isola di Pasqua, o giù di lì.
D’altra parte, vista la crisi che non aveva certo risparmiato la brulicante località turistica di Loano, nemmeno la loro agenzia immobiliare andava a gonfie vele, e qualunque cliente era tanta manna, anche se chiamava da Puttenburgo.
Davide, in quel momento disoccupato, fissava lo schermo del PC rimuginando sulle prossime due caselle da eliminare nell’ennesima partita di mah-jong.
Affondando la mano nel ciuffo castano – ancora ben pigmentato, nonostante avesse passato da un pezzo i quaranta – pensò che avrebbe fatto bene a farsi dare un’accorciatina ai capelli da Vito, il suo barbiere di fiducia, che stava in via Cavour, a metà strada tra la sua casa sul lungomare e la casa della popolare Berta Riccardi, che per lui era semplicemente Mammà.
Tendenzialmente lui si piaceva con i capelli leggermente più lunghi, ma la sua esperienza in fatto di marketing gli dettava la strategia dell’alternanza, dal momento che le pollastre che frequentava apprezzavano ora uno, ora l’altro look.
Mentre i suoi pensieri stavano scivolando dall’accoppiamento di due caselle North ad altri tipi di accoppiamento, il telefono sulla sua scrivania squillò.
Loano Supercase, buongiorno
fu la sua professionale risposta.
Purtroppo dall’altra parte non c’era un cliente, ma il cugino di Mammà, Giobatta da Verzi, di professione agricoltore e sparagnino¹ di fama, il quale – in preda all’agitazione – risultava ben poco intelligibile il che, sommato a Cesare che continuava ad urlare all’altro telefono, rendeva ostico a Davide il capirci qualcosa.
Aspetta! Ripetimi tutto con calma, che non ci ho capito un tubo.
Evidentemente anche Davide doveva avere alzato la voce, poiché Cesare lo guardò sgranando gli occhi simili a due cipollotti azzurri e cominciò a parlare più piano.
Dopo un paio di minuti a Davide sembrò di avere capito che Giobatta avesse ricevuto una telefonata anonima che gli diceva di andare a controllare un suo terreno coltivato a patate, in quanto qualcuno vi si era introdotto abusivamente; lui c’era andato ed aveva trovato una porzione di terra smossa, così voleva che il figlio della cugina, dati i suoi trascorsi investigativi, andasse a dare un’occhiata per capire cosa fosse successo.
Approfittando del fatto che Giobatta non lo vedeva, Davide alzò gli occhi al cielo.
Che stronzata. Vuole che vada fin lassù solo per confermargli che c’è un po’ di terra smossa nel suo campo. Sarà stato un cinghiale, e che cavolo.
L’altro continuava a parlare e Davide, per farlo smettere, ma anche constatando che i clienti latitavano e che la giornata marzolina era tiepida, decise che un salto ce lo poteva fare. In fondo, un po’ di aria campestre gli avrebbe fatto bene.
Tolse la cravatta, mettendola in tasca, e fece un cenno al socio che, continuando ad urlare nella cornetta, probabilmente non si pose nemmeno il problema di dove lui stesse andando.
Davide sfilò il casco dalla moto, una Yamaha FJR 1300 parcheggiata davanti all’agenzia, e lo indossò, applicando l’auricolare dell’iPhone, nel caso qualche cliente o – meglio – qualche sgnacchera volesse mettersi in contatto con lui.
Rispose al saluto di Ugo il pasticcere, che stava transitando sul lungomare, e sgommò in direzione Verzi.
***
Superate le Bulaxe, fu quasi sconvolto da quanto stessero costruendo sulla fiancata del monte, lato ponente.
E dire che faceva l’agente immobiliare e che nuove case avrebbero significato ulteriore lavoro.
Ma il Davide imprenditore non si sovrapponeva esattamente al Davide uomo, che aveva un groppo in gola a ricordare le corse che faceva da ragazzino nello sterrato a margine dei campi, inseguendo le cavallette, o il pane secco che dava ai conigli della zia Benedetta (in realtà la prozia nonché madre di Giobatta, oramai passata a miglior vita, ma che a lui era simpatica, e che avrebbe ricordato sempre con un sorriso burbero, le mani sui fianchi e una Gauloises fra le dita), o le pesche gialle lavate nell’acqua sbarazzina del torrente poco più a valle.
Pensò che il cugino Giobatta fosse davvero una specie di panda, ovvero un sopravvissuto in via di estinzione, a rappresentare un mondo che veniva via via risucchiato dai progetti edilizi di architetti untanto-al-chilo.
Non si capacitava di come mai i media strombazzassero tanto la tendenza del ritorno alle origini, quando poi la terra da coltivare era sempre meno.
Chilometri zero un par di palle, altro che.
Arrivato nella frazione di Verzi imboccò una stradina a sinistra e – sulla moto traballante per il fondo mezzo disastrato dalle piogge pseudo-equatoriali – giunse alla casa del cugino.
Quella proprio non era cambiata, o meglio, probabilmente aveva peggiorato il suo aspetto fatiscente, e il tutto era in linea con la personalità del proprietario, che non aveva propensione a spendere, se non quando era costretto.
Passi per il colore, che dal bianco originario aveva seguito tendenze post-decadentiste ed era approdato ad un ocra chiazzato, passi per le reti arrugginite e con qualche buco qua e là delle gabbie dei suddetti conigli, passi per le persiane sghembe e rattoppate stile patchwork, ma quel mazzo di pannocchie rinsecchite, polverose e ragnatelose a mo’ di decorazione accanto alla porta, che sembravano datare all’epoca della terza Crociata, quello era troppo.
Mica c’era da stupirsi se la moglie di Giobatta si era data alla fuga una ventina di anni prima e se i figli avevano costruito i loro destini lontano da tutta quella trascuratezza.
Prima che Davide potesse fermare la moto nella piazzola antistante l’abitazione, sentì un Woof! Woof!
stentoreo e si vide venire incontro un enorme intrico lanuginoso di setole bianche, da cui sporgeva un tartufo nero, l’unico elemento che facesse capire che quello era il davanti.
Dev’essere Armando, il porta pulci di cui mi ha parlato mia madre.
In effetti la Berta, un bel po’ di tempo prima, aveva raccontato al figlio di avere incontrato cane e padrone al mercato, descrivendo l’animale con un tono fra il disgustato e l’inorridito.
Evidentemente il pastore bergamasco aveva solo l’utilità di fare molto casino all’arrivo di sconosciuti, dal momento che non sfiorò minimamente il nuovo venuto, limitandosi a sedersi, con gli zamponi anteriori piantati rigidi sul terreno, e continuando ad abbaiare.
Davide che, al contrario di sua madre, aveva una spiccata simpatia per gli animali, avrebbe avuto in animo di giocare con il possente quadrupede ma, sceso dalla moto e constatando la condizione igienica tutt’altro che ottimale della creatura, si trattenne, per tutelare il completo Trussardi che indossava.
Scostando una tenda a strisce di plastica verticali di un ex-colore verde, in quel momento Giobatta uscì dalla porta di casa, facendo un cenno di saluto a Davide, accompagnato da un verso tipo Ooooou!
, che non si discostava molto dai versi del cane.
L’agente immobiliare si lasciò quindi alle spalle Armando, che ormai si era zittito, e strinse la mano al cugino, che indossava una felpa pesante a V, grigia e stinta, da cui spuntava il collo di una canottiera celeste.
Giobatta, che in fatto di stazza e generosità di chioma bianca sembrava il clone di Armando (o Armando il clone suo, a seconda dei punti di vista), invitò Davide a seguirlo, continuando a parlare a raffica più del solito, visto lo stato di agitazione.
Dopo circa trecento metri dalla casa, percorrendo minuscoli sentieri che dividevano i vari campi, i due giunsero al terreno incriminato e si diressero in fondo, proprio dove era piantato l’unico albero che vi cresceva, un cerro che presto sarebbe rifiorito e avrebbe generato ghiande, come si poteva capire da quelle rinsecchite che giacevano ancora sul terreno.
Davide, esaminando la terra smossa, non faceva caso più di tanto a tutto il racconto di Giobatta, sempre più persuaso – nonostante la stranezza della telefonata anonima – che stesse facendo un gran casino per un banale caso di incursione da parte di un maiale selvaggio.
È un albero da ghiande, e questo si stupisce se un cinghialazzo viene a fare merenda qui?
Girò dietro al cerro, smosse appena la terra col piede e cambiò completamente idea.
Forse il cugino non era così stupido, e men che meno la telefonata.
Dalla terra spuntava un paio di cose che erano molto dissimili dalle ghiande, ma molto somiglianti a dita umane.
CAPITOLO 2
Venerdì 7 marzo - mattina
La Berta, in quel momento, si trovava nella merceria in via Cavour, all’altezza di piazza Vittorio Veneto, indecisa su quale passamaneria applicare al vestito della signora Frescobaldi, che abitava in corso Europa solo da un annetto dopo avere lasciato Cremona, il cui clima non le era più molto congeniale.
Cucire era sempre piaciuto alla Berta, che applicava questa sua abilità anche a beneficio di terzi, dietro modici compensi.
Ci metto questa guarnizione bianca a rosoni, che fa più estivo, o questa celestina a frangetta, che è più elegante?
Su invito della negoziante, si diresse alla porta d’ingresso, per vedere meglio i colori alla luce del giorno.
Il suo dubbio fu interrotto da un saluto.
Buongiorno, Berta! Come sta?
Era il maresciallo dei Carabinieri Aristide Marmotta, che transitava da lì e che nutriva simpatia (nonché riconoscenza, dato l’aiuto ricevuto su vari casi in passato) per quell’ultrasettantenne caparbia e perspicace.
Buongiorno a lei, maresciallo!
La Berta, dal canto suo, provava ammirazione per quel bell’uomo brizzolato della Val d’Ossola, dai modi signorili.
Tutto tranquillo, nei dintorni?
domandò la Berta, non senza una punta di delusione, visto che non poteva dilettarsi a risolvere nessun mistero.
Sì, per fortuna non c’è niente di particolare. Lavoro ce n’è sempre tanto, ma su cose di ordinaria amministrazione. Mi scusi un attimo…
La ricetrasmittente di Marmotta aveva gracchiato e – dal suo aggrottare le sopracciglia – si capiva che avesse difficoltà a discernere quanto gli stavano comunicando.
La Berta, neanche a dirlo, stava speranzosamente sintonizzando le proprie antenne sulle notizie in arrivo.
Intanto il maresciallo sembrava finalmente avere capito il messaggio e mostrava preoccupazione.
Ah, accidenti… va bene, arriviamo subito.
Guardò la Berta, indeciso se riferirle qualcosa; poi, evidentemente, valutò che – viste le circostanze – sarebbe stato meglio informarla.
Berta, suo figlio…
Cosa gli è successo?
La Berta stava incollando i penetranti occhi color noce scuro su Marmotta, scaricandogli addosso un quintale di apprensione.
No, no, stia tranquilla, lui sta bene. Ma ci ha chiamati da Verzi, da un terreno di un suo cugino, se ho capito bene. Pare che ci sia un cadavere seppellito là.
Nonostante fosse rinfrancata dal sapere che Davide stava bene, lo sguardo della Berta non era minimamente mutato.
Mio cugino Giobatta? L’hanno ammazzato? Oh Segnù…
Ma no, si tranquillizzi, suo cugino è vivo e vegeto, ma qualcun altro no, e non sappiamo ancora chi sia. Ora mi scusi, ma…
Aspetti! C’è mio figlio di mezzo, non vorrà mica lasciarmi qui?
chiese la Berta, mentre aveva già frettolosamente infilato il vestito della Frescobaldi nel sacchetto e restituito le passamanerie alla merciaia, che nel frattempo le si era avvicinata per capire cosa stesse succedendo.
Il maresciallo aveva fretta, e quindi niente tempo da perdere a questionare con la Berta, sapendo poi che difficilmente l’avrebbe vinta lui.
Va bene, venga con me, ho la macchina qui dietro.
Marmotta, con la Berta che cercava di non farsi staccare – dato che una falcata del maresciallo corrispondeva a tre delle sue – prese la scorciatoia passando dal tabaccaio, il cui negozio, come molti altri in zona, aveva due entrate, e i due si ritrovarono sul lungomare, davanti al residence Perelli, dove il brigadiere Lo Prete, a bordo della gazzella, aveva già acceso il motore, avendo evidentemente ascoltato via radio la conversazione di poco prima.
Lo Prete sgommò in direzione Verzi, senza nemmeno domandare al suo superiore cosa ci facesse la Berta seduta dietro a loro, poiché oramai la conosceva bene: avrebbe indagato abbondantemente per conto suo e – per la miseria – anche questa volta ci avrebbe visto giusto.
CAPITOLO 3
Venerdì 7 marzo – mattina
Davide aveva già dei buoni motivi per essere esasperato.
Primo, probabilmente nessuno avrebbe sperato che il suo oroscopo giornaliero recitasse: Troverai un cadavere sepolto in un terreno
. Lui no di sicuro.
Secondo, dato l’evento, Giobatta non aveva smesso un attimo di parlare, in stato di conclamata agitazione, e lui, se dapprima aveva cercato di interloquire anche al fine di tranquillizzarlo, adesso ci aveva rinunciato, astraendosi dal fiume di parole. Cercava di concentrarsi sulle pendici dei rilievi circostanti, che rimanevano ancora generalmente brulli, nonostante lui sapesse che i rami si stavano ingioiellando di promettenti, tenere gemme.
Ma questo tentativo di ricerca della quiete era turbato dal terzo motivo, ovvero un gruppetto di corvi ipergracchianti, appollaiati sulla staccionata poco distante, in evidente attesa che lui e il cugino si schiodassero da lì, per fruire di un (secondo un’ottica squisitamente corvina) interessante banchetto, con antipasto di dita umane.
Quindi non poté che sconfortarsi ulteriormente, quando vide il quarto motivo, e cioè Mammà, che avanzava dietro ai Carabinieri squadrandolo, con uno sguardo della serie: Perché non mi hai chiamato subito?
Il maresciallo Marmotta lo salutò e fece la conoscenza di Giobatta, sempre più allarmato.
Davide si rese conto in quell’istante che non aveva preso in esame l’ipotesi che il cugino potesse avere a che fare con il cadavere; magari non l’aveva ucciso lui, ma poteva sapere chi fosse stato e poteva anche averlo seppellito lui, inventandosi di avere ricevuto una telefonata per creare un depistaggio. Magari non si trattava nemmeno di un omicidio, ma per qualche motivo aveva voluto far sparire il corpo.
Considerando però il carattere così apprensivo di Giobatta, tendeva ad escludere qualunque suo coinvolgimento nella vicenda.
Intanto il maresciallo aveva detto a lui, alla Berta e al cugino di tenersi ad una certa distanza dalla fossa, in attesa che arrivassero gli uomini della Scientifica.
La Berta ne approfittò per sottoporre Giobatta a un interrogatorio di terzo grado.
Tutto sommato a Davide non dispiacque, visto che il cugino poteva finalmente riversare la sua ansiosa logorrea su Mammà, ripetendo cose già raccontate almeno cinque volte e sicuramente da raccontare ancora altre cinquanta volte, tra Forze dell’Ordine e conoscenti vari.
Guardandosi attorno vide che nel frattempo un po’ di gente di Verzi si era ammucchiata in fondo al campo, tenuta a debita distanza da Lo Prete. Doveva essere tanta manna per loro che, pur non sapendo ancora cosa fosse successo, potevano ben sperare in qualcosa di grosso, visto che era arrivata una gazzella a tutta birra e che il brigadiere – reticente e abbottonato peggio di un cappotto militare – si stava impegnando a non farli avvicinare al terreno.
Di più: i Verzini, avvistati la Berta e Davide, ovvero gli investigatori più famosi di Loano, avevano ora la certezza che ci fosse un enorme scoop in arrivo.
Certezza che divenne matematica quando arrivò la stampa, per il momento nella espansa persona del giornalista Marco Castello, amico di Davide e conducente di un motorino che – a causa della sofferenza generata dalla titanica mole del reporter – era ormai arrivato a prendere in esame l’ipotesi del suicidio.
Marco, che evidentemente aveva lasciato l’avvilito mezzo più a valle, percorreva gli ultimi metri del minuscolo sentiero, ansimando come un bufalo nell’atto zompatorio.
Davide lo scorse e gli fece un cenno, invitandolo a raggiungerlo.
Lo Prete – nonostante lo conoscesse – lo fermò, voltandosi a guardare il suo superiore, per capire se intendesse concedere l’accesso alla stampa.
Marmotta rispose con un cenno d’assenso al brigadiere, che consentì a Marco di proseguire.
Il corpulento giornalista superò con un ultimo, eroico, sforzo, il tratto di campo che lo divideva dall’amico, il quale si stava domandando perché avesse davanti un individuo in procinto di stramazzare, se gran parte del percorso si trovava in piano.
Fiuuu, Davide – riuscì a dire Marco, usando il suo tipico intercalare da fumetti e allungando il collo per osservare le mosse del maresciallo – sempre di corsa, sempre di corsa! Cos’è successo? È vero che c’è un morto?
Davide si chiese come avesse fatto l’amico a saperlo così in fretta, ma rinunciò a chiederglielo. La stampa aveva risorse che i normali umani non potevano nemmeno immaginare. Cominciò quindi a raccontare lo svolgersi degli eventi, sovrastato presto dall’urlo di una sirena in lontananza, segno che la task force della Scientifica era arrivata.
Seguì un momento di silenzio surreale; sembrava che tutti i presenti – nell’ansia di sapere