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Come usare le parole giuste in qualsiasi occasione
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E-book280 pagine4 ore

Come usare le parole giuste in qualsiasi occasione

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Info su questo ebook

Ovvero l’arte delle buone maniere in conversazione e in società

Esprimersi con efficacia è alla base della nostra conviven­za sociale come individui. L’arte del parlare non è solo un modo per farci capire dagli al­tri, ma è l’insieme di regole che stanno alla base di una buona conversazione, così come di un discorso pubblico di successo. Ma che cosa contraddistingue un bravo oratore? Quali sono le norme di cui è bene tenere conto quando parliamo? Que­sto libro è una guida essenziale alle buone maniere della comu­nicazione: partendo dall’analisi del contesto in cui ci troviamo, passando per le origini del rac­conto e la sua funzione sociale, fino all’impostazione della voce e della postura a seconda del­le situazioni. Senza tralasciare, ovviamente, l’importanza delle emozioni come elemento es­senziale di una conversazione, in grado di scatenare empatia in chi ascolta. Un percorso approfon­dito nell’affascinante mondo del­la retorica, per imparare a domi­nare tutti gli aspetti del parlare e trovarsi a proprio agio in ogni situazione.

Le buone maniere della comunicazione dalla conversazione privata al discorso in pubblico

Comunicare con gli altri è un bisogno essenziale: nel lavoro, con gli amici, in occasioni ufficiali e nella vita di tutti i giorni. Tutti possono diventare degli ottimi comunicatori, basta volerlo!

«Non c’è una seconda occasione per fare una prima buona impressione.»
Oscar Wilde
Samuele Briatore
è presidente dell’Accademia Italiana Galateo. Dal 2019 è coordinatore del primo Corso di Alta Formazione di Galatei e Buone Maniere in Italia organizzato presso la Sapienza, Università di Roma. Ha collaborato con «La Repubblica», «Il Messaggero», «Il Tempo», «Adnkro­nos», «Il Fatto Quotidiano», «Ansa», «Horeca», «Ristorazione Italiana», «Elle» e «Rai News». Si occupa di trai­ning fisico e vocale per attori. Tiene corsi di galateo all’interno di presti­giose strutture museali italiane. Con la Newton Compton ha pubblicato Le regole delle buone maniere e Come usare le parole giuste in qualsiasi occasione.
LinguaItaliano
Data di uscita17 set 2020
ISBN9788822748454
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    Anteprima del libro

    Come usare le parole giuste in qualsiasi occasione - Samuele Briatore

    Introduzione

    Una scena vuota e un albero che perde le foglie, due strani personaggi in scena: Vladimiro ed Estragone che aspettano il signor Godot.

    vladimiro Non capisco.

    estragone Ma ragiona un momento, scusa.

    vladimiro (ragiona. Finalmente) Non capisco.

    estragone Adesso ti spiego. (Si concentra) Il ramo… il ramo… (Con rabbia) Ma insomma, cerca di capire! vladimiro Tu sei la mia unica salvezza.

    estragone (con sforzo) … Gogo leggero… ramo non si rompe… Gogo morto. Didi pesante… ramo si rompe… Didi solo. (Pausa). Mentre se tu… (Cerca l’espressione esatta).

    vladimiro A questo non avevo pensato.

    estragone (che ha trovato) Chi più può meno può.

    vladimiro Ma è poi vero che io peso più di te?

    estragone Sei tu che lo dici. Io non ne so niente. C’è una probabilità su due. O quasi.

    vladimiro Allora che si fa?

    estragone Non facciamo niente. È più prudente.

    vladimiro Sentiamo prima cosa ci dirà.

    estragone Chi?

    vladimiro Godot.

    estragone Giusto.

    vladimiro Aspettiamo di sapere come stanno le cose.

    estragone D’altra parte, sarebbe forse meglio battere il ferro mentre è caldo.

    vladimiro Sono curioso di sapere che cosa ci dirà. In ogni modo, mica l’abbiamo sposato.

    estragone Cos’è più che gli abbiamo chiesto esattamente?

    vladimiro Ma non c’eri anche tu?

    estragone Non stavo attento.

    vladimiro Be’… ecco… niente di preciso.

    Questi due personaggi aspettano una persona che non verrà mai, una persona che dovrebbe dare loro cibo e un rifugio caldo, ossia una soluzione ai loro bisogni. L’opera di Samuel Beckett porta in scena il nonsenso della vita umana e l’incredibile attesa di qualcosa che non arriverà mai. I due personaggi si lamentano del freddo e della fame, e ammazzano il tempo con bisticci e discorsi spesso conditi da considerazioni futili, banali e ricche di luoghi comuni. I discorsi sono spesso insensati e le parole sono utilizzate per intrattenersi e non per comunicare e comprendere.

    Questa situazione immaginata da Beckett è quella che vediamo ogni giorno nella nostra quotidianità, conversazioni senza senso, mancanza di ascolto e tentativi di persuasione del prossimo. Spesso uno dei personaggi siamo proprio noi, che tentiamo di far passare il tempo con conversazioni superficiali, noiose e spesso scontate. In nostro soccorso, aspettiamo che arrivino tecniche che ci salvino da quella situazione, il nostro Godot oggi si chiama small talk, oppure comunicazione efficace o, ancora, comunicazione vincente, varie tecniche che promettono di aiutarci, ma questo aiuto non arriverà mai. Una bulimia nella conversazione che porta a un’anoressia dell’ascolto, una realtà nella quale tutti diventiamo degli emittenti di un messaggio, ma dove nessuno vuole esserne il destinatario. Le buone maniere forniscono una suggestione inedita per comprendere l’arte della parola, riunendo forma e contenuto. Nelle prossime pagine cercheremo anche di sfatare alcuni miti che vorrebbero le buone maniere e il galateo come un insieme di regole sterili e posticce, che ci privano di libertà e ci impongono finzione e falsità in virtù della cortesia. In realtà, scopriremo che le buone maniere e il galateo ci aiutano a esprimere il nostro pensiero e a delineare con più facilità la nostra persona senza però ferire o offendere le persone che ci circondano.

    Questo libro vuole riportare l’attenzione sulla relazione tra le persone e sulla riscoperta dell’emozione, intese come scintille generatrici di rapporti e connessioni. Qui non troveremo tecniche per convincere qualcuno, per sedurlo, non saranno esposte formule magiche per migliorare la comunicazione pubblica e quella privata, ma verrà proposto un insieme di suggerimenti per conoscerci e farci conoscere attraverso la nostra parola e il nostro corpo. Nelle prossime pagine, cercheremo di offrire un percorso di consapevolezza dove il linguaggio e le buone maniere si fondono, dando vita a un’arte delle parole. Gli esempi, gli esercizi e le situazioni riportati nel testo sono frutto dell’esperienza decennale dell’Accademia Italiana Galateo, la quale è impegnata nella sensibilizzazione alla comunicazione gentile.

    La comunicazione sarà intesa come un flusso di emozioni e come una relazione che si potrà rafforzare solo attraverso la nostra volontà e la nostra consapevolezza. Non parleremo solo di conversazione o di parlare in pubblico, ma cercheremo di fornire risposte alle domande che spesso ci poniamo nelle situazioni offerte dalla quotidianità. Non abbiamo voluto dividere la conversazione personale dalla comunicazione in pubblico, credendo che esse siano accumunate dalla medesima sensibilità di cuore.

    Desidero ringraziare per questo libro le diverse anime dell’Accademia e tutti i soci che da anni la sostengono e la animano, ringrazio le donne della mia famiglia per l’aiuto, ringrazio i miei docenti, che mi hanno fornito nozioni ed esperienze, ringrazio Manuel, Minerva e Mara per tutto l’aiuto offerto e, infine, ringrazio tutte le persone che mi hanno fornito nel tempo materiali, suggerimenti e suggestioni.

    Capitolo 1. Dalla conversazione al parlare in pubblico

    Dal salotto al teatro

    Questo titolo può sembrare strano, ma il salotto e il teatro hanno molte più cose in comune di quante se ne possano immaginare. Quando si pensa al parlare in pubblico solitamente ci si immagina un grande palco, fari accecanti puntati sul nostro viso e una folla di persone che non aspetta altro che l’inizio del discorso. Di sicuro questa è una situazione particolarmente suggestiva, ma a meno che non parliamo da soli, ogni volta che interagiamo con qualcuno stiamo parlando in pubblico.

    Dall’Ottocento in poi il salotto diventa il punto nevralgico della vita pubblica e, a tal proposito, per aiutarmi a spiegare meglio questo pensiero mi permetto di scomodare Walter Benjamin, secondo cui il salotto diventa il luogo per la rappresentazione del proprio universo agli altri, agli ospiti. Infatti, il filosofo tedesco scrive che

    Di qui hanno origine le fantasmagorie dell’intérieur. Per il privato cittadino, esso rappresenta l’universo. In esso egli raccoglie il lontano e il passato. Il suo salotto è un palco nel teatro universale.

    Anche nella modernizzazione e nel rinnovamento degli spazi, la nostra società mostra una resistenza a modificare uno spazio di rappresentazione di sé stessa. Nel salotto si espongono gli oggetti superflui, gli arredi più preziosi e, spesso, non è la stanza destinata alle attività ordinarie di casa. È, invece, il luogo della rappresentazione sociale, il cui motore primario diventa la conversazione. In modo un po’ azzardato, possiamo dire che il salotto non esisterebbe senza l’arte della conversazione, poiché in questo spazio narriamo di noi non solo attraverso l’architettura e le decorazioni, ma soprattutto grazie all’arte della parola. Ancora oggi definiamo salottiero un personaggio che si muove agilmente nei luoghi della mondanità, ma soprattutto una figura in grado di intrattenere facilmente la cosiddetta conversazione da salotto, ossia uno scambio piacevole, fresco e cortese, a volte frivolo, a volte pettegolo, ma mai sgradevole e mai inopportuno.

    I consigli racchiusi in questo testo non sono proposti esclusivamente per una presentazione in pubblico di un nuovo brevetto aerospaziale e neppure indicati unicamente per vendere i nostri prodotti con maggior facilità, ma sono applicabili prima di tutto alla quotidianità della relazione. Dominando l’arte della conversazione sarà possibile trasformare un semplice scambio di informazioni in una conversazione gentilmente funzionale.

    Avendo indicato il salotto come ambiente centrale per la conversazione, emerge l’importanza dello spazio per far nascere una relazione di scambio. Caratteristica fondamentale del salotto è quella di essere uno spazio condiviso tra padroni di casa e ospiti e possiamo facilmente riscontrare una sua similitudine con il teatro, spazio condiviso tra attori e spettatori. Entrambi i luoghi sono dedicati alla festa e alla celebrazione, spazi di eccezionale potere simbolico nei quali si passa dal quotidiano all’extra quotidiano, come descrive benissimo lo storico del teatro Fabrizio Cruciani nel suo libro Spazio del Teatro. La nota espressione teatro nel teatro può aiutarci a comprendere lo strettissimo rapporto che lega questi due luoghi: il teatro all’italiana, quello con i palchetti, era infatti una vera e propria estensione del salotto aristocratico. Ogni palchetto apparteneva a una famiglia, che ne curava l’aspetto e le frequentazioni, e lo si frequentava sia per vedere lo spettacolo, sia per essere visti e ammirati. Lungo tutto il Rinascimento, i grandi saloni erano adibiti a sale teatrali e in queste occasioni il rapporto tra salotto e teatro diventava indissolubile. Ho avuto la fortuna di essere allievo di Silvia Carandini, una delle maggiori conoscitrici del teatro barocco, e durante il percorso di dottorato questo parallelismo è emerso più volte. Ciò ha rappresentato per me un grande stimolo a continuare l’approfondimento dell’arte della conversazione e credo che il teatro sia uno dei punti dal quale partire per questa analisi.

    Per tutto il Seicento, la corte e il palazzo furono i luoghi di riferimento per l’organizzazione di feste e di rappresentazioni intorno alla loro figura cardine: quella del principe. Le piccole corti italiane con poco potere, ma con tantissima cultura, grazie a un’abile politica matrimoniale tesserono una rete di scambi culturali internazionali. Dame italiane come Caterina de’ Medici, Eleonora Gonzaga e Adelaide di Savoia furono così le ambasciatrici in Europa del gusto italiano e dell’arte della conversazione che ne derivava. Spesso era la corte stessa a mettersi in scena indossando i panni dell’attore e sperimentando le arti della declamazione; il teatro, come la danza, era un elemento fondamentale per la formazione dell’aristocrazia. Inoltre, il teatro non rappresentava solo un riferimento per l’aristocrazia ma anche per il clero, tanto da rientrare nel progetto di formazione dei gesuiti maturato tra il 1580 e il 1630 e formulato dettagliatamente nel trattato Ratio studiorum, che assunse da subito un ruolo egemone nella definizione dei progetti educativi dell’istituzione. Una delle pratiche pedagogiche stabiliva di impegnare gli allievi dei collegi, durante il periodo di Carnevale e alla fine dei corsi, in rappresentazioni teatrali. Ai giovani studenti veniva offerto uno spazio teatrale inteso come una realtà fittizia, in cui il pubblico si concedeva all’inganno, grazie alle illusioni rese possibili dall’applicazione delle scoperte scientifiche dell’epoca, e si lasciava sedurre dalle raffinate tecniche declamatorie. La pedagogia gesuita fondava quindi le sue attività sulla parola e sul buon uso di essa, oltre che sugli imponenti apparati visivi, per migliorare le capacità persuasive dei propri studenti. Cimentandosi nelle arti teatrali, con la recitazione ma soprattutto grazie alla declamazione, tanto il rampollo della famiglia aristocratica, quanto l’allievo dell’Ordine dei Gesuiti, si preparavano a diventare personaggi pubblici.

    Ho raccontato il rapporto tra salotto e teatro per renderne esplicite le numerose similitudini e per scardinare uno dei concetti diffusi nella contemporaneità che trovo fuorvianti in questa sede. Oggi siamo di fronte a una sopravvalutazione della verità e dell’istintività, che rappresentano spesso una giustificazione ad atteggiamenti o parole aggressive e scortesi, mentre la pacatezza e il controllo vengono spesso additati come comportamenti propri di chi si trattiene o recita un ruolo. In questa specifica sede è importante chiarire che noi tutti, sia nella conversazione privata sia nel discorso in pubblico, recitiamo sempre un ruolo e acquisiamo degli atteggiamenti extra-ordinari, proprio come i protagonisti dello spazio teatrale di cui parlavamo prima. Sentiamo spesso l’espressione «Io sono così» seguita da una definizione frettolosa della persona; per essere onesti con noi stessi, proviamo allora a domandarci: «Quando?», quando siamo veramente così? Nessuno di noi è lo stesso durante tutta la giornata, ricopriamo diversi ruoli, acquisiamo diversi registri linguistici verbali, paraverbali e non verbali a seconda della situazione, del contesto e del ruolo. Sicuramente un manager austero e avido sul lavoro potrà essere un padre dolce affettuoso, un figlio attento e premuroso, un amante passionale e carnale, un timidone davanti alle telecamere. Quindi se ci chiediamo chi è lui, la risposta non può essere univoca, ma deve essere multipla e contemplare tutte le molteplici facce della realtà.

    Fin dall’inizio della lettura di questo libro, il primo esercizio da fare è quello di provare a prendere confidenza con l’idea che essere in società, presentare un progetto, essere un docente, essere un discente sono ruoli che dobbiamo interpretare e dobbiamo conoscere le nostre potenzialità per proporre al meglio cosa abbiamo da offrire. Non esiste un modo giusto e un modo sbagliato per conversare e per parlare in pubblico, esistono piuttosto una serie di suggestioni e consigli che possono agevolare la scoperta delle nostre potenzialità e aiutarci a rendere al meglio il nostro pensiero. Proviamo quindi ad accettare in modo consapevole e propositivo che la nostra personalità è composta da numerose sfaccettature, che dobbiamo conoscere e utilizzare consapevolmente. Non dobbiamo pensare di recitare, di essere artefatti o poco genuini ma, al contrario, di essere pienamente coscienti delle nostre capacità e di non lasciarci sovrastare dalle emozioni e dall’istinto, poiché con la consapevolezza possiamo gestire tutto nel modo veramente più aderente alla nostra personalità. Forse è più semplice immaginarci come degli atleti, la tecnica serve per arrivare alla conoscenza del gioco, ma la vittoria arriva grazie al corretto bilanciamento delle situazioni e al rapporto tra azione e reazione. Conoscere le proprie potenzialità e saperle indirizzare correttamente non ci leverà autenticità, al contrario ci potrà rendere sempre più liberi.

    Comunicazione gentile

    Quando pensiamo a qualcuno che parla in pubblico o a un bravo oratore in un salotto, forse immaginiamo un personaggio eccentrico, molto spigliato e vivace, persino egocentrico. Gli scaffali delle librerie sono pieni di testi che cercano di spiegare tecniche di vendita, di convincimento e di manipolazione, ma nel nostro caso quello che stiamo cercando è ben altro. Non vogliamo fornire in questo libro una serie di tecniche sterili e tantomeno delle formule magiche per riuscire a convincere qualcuno di qualcosa, il mio unico desiderio è quello di mettere a disposizione qualche strumento per trovare la sicurezza di esprimere il proprio pensiero e di farlo nel migliore dei modi. Non ho mai creduto nelle tecniche che possano essere applicate a tutto e da tutti e neanche nelle rigide regole del si fa così e non si fa così, al contrario credo fermamente nel percorso che ogni persona può intraprendere per scoprire la parte migliore di sé stessa. Sicuramente è una strada più complessa e con numerosi ostacoli, ma in questo caso il risultato è garantito e ciò che scopriremo di noi nessuno potrà mai portarcelo via, sarà la parte più preziosa della scoperta.

    Prima di iniziare a scrivere questo libro mi sono chiesto perché si sia diffuso questo bisogno di possedere tecniche per convincere, affascinare, manipolare il prossimo. Forse deriva da una ricerca esterna di sicurezza e fiducia, che, credo, possiamo trovare solamente dentro di noi.

    Sicuramente alcune di queste tecniche sono utili, ma in questa sede ci è molto più utile una frase attribuita ad Abraham Lincoln: «Si può ingannare qualcuno per molto tempo, si può ingannare tutti per poco tempo, non si può ingannare tutti per sempre». Questa citazione ci porta a riflettere su uno dei concetti chiave della comunicazione che trattiamo in questo libro: la comunicazione gentile, che racchiude una delle essenze dell’eleganza ed è ben diversa dalla comunicazione cortese. Facciamo quindi un passo indietro e usiamo l’Enciclopedia Treccani per aiutarci.

    Nella definizione di cortese leggiamo: «Complesso di qualità, tra cui rispetto verso gli altri, benevolenza verso gli inferiori, liberalità, piacevolezza di conversazione, disdegno d’ogni viltà, difesa degli oppressi e della donna, che, nell’educazione cavalleresca del Medioevo, costituivano una caratteristica dell’uomo di corte. Gentilezza di modi nei rapporti con altre persone, rispettosa e garbata deferenza», quindi possiamo dedurre che la cortesia è un atteggiamento nei confronti dell’altro ma non è abbastanza, dobbiamo andare oltre. Essere gentile comporta qualcosa in più, in quanto si tratta di qualcuno che «con riferimento alle doti spirituali, capace di sentimenti nobili, elevati: animo g., cuore g.; Spirto gentil, che quelle membra reggi (Petrarca)». Possiamo dire che mentre una comunicazione cortese è un atteggiamento, un’attenzione, la comunicazione gentile è un modo di essere, una forma mentale.

    Le caratteristiche della comunicazione sono infinite, ma possiamo vederne alcune che a mio avviso risultano più significative.

    Sicuramente uno dei punti fondamentali è racchiuso nell’ascolto, del quale però parleremo ampiamente nelle prossime pagine. Per la comunicazione gentile dobbiamo avere sempre chiaro i concetti di rispetto e controllo. Avere controllo su sé stessi è un grande sforzo per renderci migliori e non cedere a comportamenti inappropriati che possano offendere o addirittura ferire il prossimo. Il rispetto nasce molte volte proprio dal controllo. Quando nei miei corsi affronto questo tema, capita spesso che qualche partecipante sostenga che il controllo possa minare la nostra istintività. E in effetti sono d’accordo con questa affermazione, ma soltanto poiché ritengo che l’istintività sia una caratteristica negativa della persona. Oggi spesso crediamo che essere istintivi sia un valore positivo, ma se ci fermiamo a riflettere qualche istante ci è chiaro che spesso dietro le frasi l’ho detto perché sono vero o l’ho fatto perché sono istintivo c’è una giustificazione di un comportamento o di una frase che ha ferito o imbarazzato un’altra persona. Con questo non voglio intendere che bisogna comportarsi in modo falso o artefatto, ma sostengo che si debba essere consapevoli che una nostra leggerezza può offendere e ferire il prossimo, che la nostra verità spesso è solo nostra e che, in ultimo, non a tutti fa piacere sapere la nostra opinione quando non richiesta. Questa è una buona partenza per comprendere il senso della comunicazione gentile.

    Altre due caratteristiche fondamentali sono bontà e umiltà. Nei corsi, durante la prima lezione, ci soffermiamo sempre sui termini: le maniere sono buone e non belle. Le parole non sono usate a caso, perciò un cuore buono è una condizione essenziale per le buone maniere e per la comunicazione gentile, altrimenti le nostre parole sembreranno sempre non coerenti. Unitamente alla bontà, l’umiltà è una caratteristica vincente per un oratore, questa dote ci dà la possibilità di rimanere ancorati costantemente al concetto di umanità e di relazione. Soprattutto per chi parla in pubblico, l’umiltà è qualcosa che addolcisce ogni reazione e crea un ambiente positivo e predisposto all’ascolto. Spesso in una riunione o in una conferenza parliamo a nome di qualcuno, siamo rappresentanti di un ente oppure siamo esperti di qualcosa, una buona comunicazione ha bisogno però di altro. I nostri interlocutori vogliono vedere la persona prima dell’ente, vogliono capire le emozioni, i sentimenti, il calore di chi hanno di fronte, per cui non vergogniamoci di avere emozioni, anzi cerchiamo di farne il nostro cavallo vincente. Inoltre, avere umiltà ci aiuta ad avere un atteggiamento di gratitudine e di apertura. Non è scontato e neanche dovuto che qualcuno ci ascolti, quindi è necessario dimostrare sempre gratitudine verso i nostri interlocutori o verso un pubblico, questo atteggiamento è necessario per entrare in una costante condizione di apertura verso l’incontro e verso il prossimo. La conversazione è uno scambio, così come il parlare in pubblico, se rimaniamo concentrati su noi stessi non saremo in un luogo con degli interlocutori, ma saremo solamente degli emittenti che disperdono in un ambiente un contenuto comunicativo. Essere in relazione con un atteggiamento positivo ci permette di mettere in atto una delle caratteristiche più potenti nella comunicazione, l’ironia e la leggerezza. Se rispettiamo quanto detto in questo paragrafo, potremo senza problemi giocare con l’ironia, uno sbaglio o un imprevisto potrà essere l’elemento per creare empatia con i nostri interlocutori. Avere senso dell’umorismo, ridere e sorridere non sono mai atteggiamenti da evitare e, se sono autentici, non si perderà mai serietà, anzi si acquisirà il potere dell’empatia.

    L’ultimo punto sul quale vorrei riflettere è quello della congruenza e della coerenza. Come vedremo, il linguaggio non è solo verbale, per cui cerchiamo di sostenere solamente tesi nelle quali crediamo davvero, esprimiamo pensieri sinceri e non cadiamo mai nell’adulazione, in quanto quest’ultima è un’arma molto affilata che può tranciare un rapporto di fiducia con un pubblico o un interlocutore in pochissimi istanti. Il nostro discorso sarà sempre il nostro, non potrà essere un discorso di un altro e interpretato da noi e non potremo elogiare tesi che non sosteniamo realmente.

    Parlare in pubblico e in società

    I temi trattati in questo testo cercano di esplorare la buona maniera della parola sia in ambito sociale, come un salotto o un evento, sia in ambito pubblico, come una conferenza o una presentazione. Ci sono moltissimi testi indirizzati alle persone che vogliono migliorare una perfomance, in questa sede invece il desiderio è quello di renderci più consapevoli e sicuri nei diversi contesti che ci presenta la quotidianità. Credo che sia inutile e poco attuale essere dei bravissimi oratori in pubblico e dei pessimi invitati in un salotto o viceversa. Vorrei pertanto mirare a un metodo più olistico e sinergico dell’arte della parola. Prima di procedere con indicazioni più tecniche, credo sia opportuno soffermarci su alcune fasi comuni dell’arte della parola che possiamo ritrovare sia nella conversazione che nell’esposizione pubblica. In questo caso torna utile partire da uno schema ipotizzato dal linguista Mauro Ferraresi, il quale evidenzia l’importanza di due elementi del racconto, l’inizio e la fine, al quale noi ne aggiungeremo un terzo intermedio. Possiamo quindi provare a immaginare le tre fasi della conversazione o del parlare in pubblico come un aperitivo, una cena e un caffè.

    •Aperitivo: la conoscenza. Durante l’aperitivo prima di una cena, le persone lentamente arrivano sul luogo dell’appuntamento e la conversazione in questo momento deve essere ampia e concentrata sulla reciproca conoscenza. In questa prima fase, si eviterà di entrare nel vivo di argomentazioni e si eviteranno discorsi complessi,

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