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Storie maledette del calcio: Ciò che la telecronaca non può raccontare
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Storie maledette del calcio: Ciò che la telecronaca non può raccontare
E-book347 pagine4 ore

Storie maledette del calcio: Ciò che la telecronaca non può raccontare

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Anche lo sport più popolare del mondo nasconde segreti indicibili, storie che non vogliono (o non possono) essere divulgate. Dal 1889 – universalmente riconosciuto come l’anno zero del calcio – sono ottantotto i giocatori deceduti sul rettangolo verde. Ma in questi racconti si parla di morti dovute a cure “speciali”, suicidi inspiegabili che hanno lasciato sgomenti, terribili agonie provocate da malattie rare. Sla in primis. E poi omicidi, che in molti casi non hanno ancora un colpevole. Da Taccola a Vialli, da Astori a Fortunato passando per Maradona, unico straniero della nera raccolta: Roberto Maida narra le tragedie più dolorose e misteriose della storia del calcio italiano arricchendole con testimonianze, inchieste e aneddoti straordinari. Tutto ciò che videocamere e microfoni non hanno mai potuto raccontare.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita8 mag 2023
ISBN9788836163014
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    Anteprima del libro

    Storie maledette del calcio - Roberto Maida

    STORIEMALEDETTE_COVER_EBOOK.jpg

    Roberto Maida

    storie maledette del calcio

    Ciò che la telecronaca non può raccontare

    A Mario, maestro e amico.

    Prefazione

    di Ivan Zazzaroni, direttore «Corriere dello Sport»

    «La vita dà e la vita toglie. E in questa ruota dove non esistono certezze, né porti sicuri, possiamo solo provare a non perdere mai noi stessi». Non conosco Sonia Sacco, autrice di un aforisma che riassume perfettamente il senso della raccolta di Roberto Maida. Non la conosco, ma trovo che con grande semplicità ed efficacia abbia colto nel segno, lasciandoci almeno la speranza.

    Le storie contenute in questo libro sono maledette perché hanno procurato dolori laceranti a persone – mogli, figli, fidanzate, genitori, amici, tifosi – alle quali la vita aveva fino a poco tempo prima concesso il privilegio di godere dell’emozione, della gioia, del benessere. E maledette anche perché, in alcuni casi, penso in particolare all’omicidio di Bergamini, lo sono ancora oggi, dopo tanti anni.

    Alcuni dei protagonisti delle quattordici esistenze spezzate ho potuto considerarli amici, due in particolare, Davide Astori e Andrea Fortunato. Ma se nel primo caso non ho avuto nemmeno il tempo di capire, tanto improvvisa è stata la sua morte, nel secondo ho vissuto a distanza telefonica l’intero calvario fino all’ultima chiamata, risalente a pochi giorni prima che si arrendesse a una terribile forma di leucemia. Non ho mai dimenticato quel suo «sto meglio, Ivan».

    Roberto è stato bravo nel riuscire a imporre a una materia così bruciante una dolcezza insospettabile. Mi perdonerà se mi permetto di aggiungere una quindicesima storia a quelle raccontate nel libro: quella di Edoardo Bortolotti, ex calciatore del Brescia che a venticinque anni si lanciò dal balcone di casa poiché incapace di governare la sua vita. La coca, certo, ma non solo. «Io sono un calciatore», disse nella sua ultima intervista, «e per farlo nel migliore dei modi ho bisogno di tranquillità, di un ambiente senza pressioni che non mi soffochi».

    Muore giovane chi è caro agli dei: così gli antichi greci davano un senso a quel dolore troppo grande per essere compreso dalla ragione. In tale maniera essi coglievano il legame inestricabile che unisce sacralità e sofferenza: questo legame prendeva il nome di giovinezza.

    Premessa

    Il lato umano della vita di un calciatore è spesso trascurato. Non mi riferisco ovviamente al gossip, che invece è parte integrante (e ridondante) della narrazione. Parlo dei bisogni, delle idee, delle fragilità di queste giovani star che sono sottoposte a prove di resistenza emotiva molto forti. Non è tutto bello e limpido per chi vive in vetrina e deve dimostrare sempre di essere diverso. Ma soprattutto c’è una realtà alla quale neanche l’atleta vip può sottrarsi: il rischio statistico del dolore. Ce ne siamo accorti nel mese più tragico, tra dicembre 2022 e gennaio 2023, quando se ne sono andati campioni come Sinisa Mihajlovic e Gianluca Vialli, uccisi da gravi malattie, oltre al grandissimo Pelé, il fuoriclasse di tutti, e a Mario Sconcerti, il Maradona del giornalismo sportivo.

    Parto proprio da Sconcerti, la perdita che ho sentito di più. Mario è stato un maestro, uno stimolo, un riferimento, un consulente, anche nella vita. Discutevamo animatamente di qualunque argomento in quella veranda di Porto Badino che faceva da cornice alle nostre estati. Certe cene potevano durare fino all’alba e spaziavano dalla storia, la sua grande passione, alla politica o al cinema e alla letteratura. Lui aveva cominciato anche a leggere i primi racconti di questo libro, che avevo in testa da qualche anno. Porto nel cuore la sua ultima email, in cui mi esortava a continuare perché l’idea e i contenuti gli piacevano e lo emozionavano. Una raccomandazione in particolare ha avuto per me un valore enorme: bisogna cercare di scrivere senza fretta. La differenza tra un articolo e un libro – sottolineava giustamente – è la pace della parola. L’aggettivo, l’avverbio devono essere sempre quelli precisi, essenziali, esatti. Mi dispiace terribilmente, a proposito di avverbi, che Mario non abbia potuto sapere quanto sia stato importante il suo input nella composizione di questa raccolta.

    E ora permettetemi qualche precisazione preliminare. Storie maledette del calcio non vuole essere un manuale o un’enciclopedia delle tragedie. Non pretende di essere esauriente. Né si permette di stilare una graduatoria del male, perché non esistono vittime di Serie A o Serie B. I criteri selettivi che ho adottato sono stati essenzialmente tre.

    Il primo è stato prendere in esame le vicende, più o meno torbide e sospette, che hanno provocato la morte dei calciatori fuori dal campo. Dunque non troverete in questo libro i casi di Renato Curi o Piermario Morosini, tanto per citare alcune tragedie avvenute sotto gli occhi di tutti, in piena attività.

    Il secondo è stato l’approfondimento di storie italiane con la sola eccezione di Diego Armando Maradona, che è stato il più grande calciatore della storia e che sentiamo tutti un po’ nostro.

    Il terzo criterio, molto emotivo, è privato. Ho deciso di studiare, analizzare, trasmettere le storie che ho vissuto di più. Se non direttamente, e quindi empaticamente, attraverso i ricordi di chi me le ha fatte sentire vicine. Mi rendo conto del pericolo. Qualcuno, magari, non sarà d’accordo con le mie scelte. Ma non vedevo possibilità alternative. Voglio fare qualche esempio: c’è un capitolo su Federico Pisani, del quale seguii all’epoca ogni passo della tragedia e delle successive indagini, ma non su Erasmo Iacovone, attaccante al quale il Taranto ha intitolato il proprio stadio. Eppure entrambi sono accomunati da un’assurda tragedia, la morte in un incidente stradale. Iacovone, tra l’altro, venne speronato da un ladro d’auto che a fari spenti cercava di dileguarsi su una statale a folle velocità. Per la stessa ragione, poi, ho affrontato nei dettagli il calvario di Andrea Fortunato, giovane terzino della Juventus morto di leucemia durante l’attività, ma non quello di Carmelo Imbriani, ex attaccante, ucciso da un cancro a trentasette anni nel 2013. Il fratello Gianpaolo, persona speciale che ho avuto la fortuna di conoscere, sta diffondendo la sua storia girando il mondo in autostop.

    In queste pagine ho cercato di restare il più vicino possibile ai fatti. È stato un lavoro di ricerca tra archivi dei giornali, resoconti sul web e testimonianze inedite, che mi auguro aiutino a riflettere sul colore meno reclamizzato del pallone: il nero. Ci sono storie che sono ancora stipate negli scaffali dei tribunali, come quella di Donato Denis Bergamini, dello stesso Maradona o di Davide Astori. Ma forse anche altre, rimaste senza un perché o liquidate come semplici incidenti, non hanno attirato la giusta attenzione di magistrati e giudici. Penso a Giuliano Taccola, a Luciano Re Cecconi, ai tanti casi di Sla e di strani tumori che hanno provocato vittime in serie, per non parlare di Michele Rogliani, calciatore semisconosciuto che è morto giovanissimo in un modo agghiacciante. Se nel mio piccolo riuscirò a risvegliare l’attenzione sulle loro tragedie, avrò onorato al meglio il loro ricordo.

    Luigi Gigi Meroni

    Re Umberto

    Fabrizio Poletti è un uomo fortunato. Senza alcuna selezione logica, il destino gli ha concesso di giocare i supplementari della partita più importante di tutte: Italia-Germania 4-3, la semifinale del Mondiale del 1970. Per i più giovani che leggono, basta chiedere al web. Ma quasi sicuramente ve l’avranno raccontata. È la partita del secolo, del ventesimo secolo. Gianni Rivera che si addormenta sul palo regalando il 3-3 ai tedeschi (dell’Ovest, all’epoca) e che all’azione dopo, come per magia, segna il gol della vittoria. Nel mito della narrazione italica, nei ricordi sbiaditi, nella filmografia popolare, quella semifinale è diventata il campo centrale del nostro orgoglio, anche se poi venimmo travolti dal Brasile all’ultimo passo verso la Coppa. C’era già stato tutto il sentimento dentro a Italiagermaniaquattroatre – da leggersi tutta attaccata come un tatuaggio della mente – perché rimanesse una goccia di sforzo capace di resistere a Pelé nella finale dello stadio Azteca di Città del Messico.

    Poletti, difensore del Torino, è stato a suo modo protagonista di una notte leggendaria perché sul più bello si ritrovò in campo al posto di Rosato, dopo i tempi regolamentari finiti sull’1-1 e prima che si materializzasse l’orizzonte dell’impresa. Non lo puoi sapere prima, ti capita e basta. E resta scolpita negli album di famiglia, quelli plastificati con la fodera zigrinata che si sfogliano con avida premura. Poletti, che non aveva la potenza di Riva né la classe di Rivera, è stato semplicemente baciato dalla coincidenza. La stessa che gli aveva concesso la possibilità di conoscere, invecchiare, viaggiare, amare. Gigi Meroni, che possedeva un talento illimitato, è invece stato ucciso dallo stesso destino, senza avere niente in cambio. È inutile chiedersi se tutto questo abbia senso. La pallina gira, come la ruota di un telequiz, e si ferma dove decide lei. Luigi Gigi Meroni è morto a ventiquattro anni davanti agli occhi di Fabrizio, che ha avuto il merito inconsapevole di trovarsi un metro più in là e – forse – anche l’istinto di accorgersi in tempo di ciò che stava per accadere: una tragedia banale, comune, eppure insopportabile.

    Corso Re Umberto è uno dei vialoni della Torino bene, nel quartiere della Crocetta. Scorre parallelo alla stazione Porta Nuova e sbuca in centro, in Piazza Solferino, quella della fontana delle quattro stagioni. Palazzi eleganti, austeri, discreti. Una strada dove le macchine rombano, soprattutto di notte. Anche negli anni Sessanta, quando l’Italia ha scoperto il boom economico e comincia ad avvertire i suoni della contestazione giovanile. È una domenica autunnale, il 15 ottobre, ma non una serata di nebbia fitta. Oggi, a causa del riscaldamento climatico, la nebbia nel Nord Italia cala al ritmo del 50 per cento per decennio. Ma nel 1967, quando si addensa l’umidità, il fenomeno è frequente. Rischi, nel traffico, di non vedere neppure la macchina che ti precede. Non quella domenica, comunque. Ed è un dettaglio che rende ancora più assurdo l’incidente. Gigi e Fabrizio hanno giocato nel pomeriggio, battendo 4-2 la Sampdoria. E così ottengono, come tutti i giocatori del Torino, il permesso di lasciare il ritiro e dormire nelle loro abitazioni. L’allenatore Edmondo Fabbri, che è soddisfatto dalla partita in cui, tra l’altro, ha lanciato un giovanissimo Aldo Agroppi, concede volentieri una notte di svago alla squadra. Purtroppo però Meroni non ha le chiavi di casa. E così, non esistendo evidentemente la comodità dei cellulari, decide di fermarsi in un locale che conosce per mangiare qualcosa e telefonare alla compagna, Cristiana Uderstadt, per chiederle di tornare un po’ prima dalla cena alla quale è stata invitata. Poletti lo accompagna al Bar Zambon, su Corso Re Umberto. Poi i due escono, spensierati, e attraversano il viale all’altezza del civico 46.

    Per abbreviare il tragitto decidono di attraversare la strada nel punto in cui si trovano, senza cercare le strisce pedonali. Superano il controviale, il primo marciapiede alberato, la prima carreggiata. Ma siccome le automobili sfrecciano, da una parte e dall’altra, sono obbligati a fermarsi sulla linea di mezzeria in attesa del momento propizio per raggiungere l’altro lato. Sono le ore 21.30. A questo punto, avviene l’imponderabile incrocio. Poletti resta immobile mentre Gigi, probabilmente spaventato da una macchina che gli passa troppo vicino, o magari semplicemente stufo di star fermo a perdere tempo, o ancora per una momentanea perdita di equilibrio, fa un passo indietro. Uno soltanto. Dall’altra parte una Fiat 124 Sport Coupé, che ha appena effettuato un sorpasso a sinistra, calcola lo spazio per passare evitando le due sagome ma non nota il movimento improvviso: colpisce Gigi alla gamba sinistra con un parafango. Nell’impatto Meroni vola dall’altra parte della strada, cade sull’asfalto e viene travolto da una Lancia Appia grigia, che lo trascina per una cinquantina di metri prima di realizzare cosa sia accaduto. Di questa vettura ricordo anche la targa: MI-DO 2645. Soccorso dai passanti, Gigi viene riconosciuto immediatamente e trasportato all’ospedale Mauriziano da un altro automobilista senza nemmeno aspettare l’ambulanza: ma è impossibile salvarlo. I medici del pronto soccorso, Boccaprima e Frattini, tentano un intervento chirurgico disperato. Ma alle 22.40 possono solo dichiararne la morte.

    A investirlo per primo è un giovane rampollo torinese, Attilio Romero detto Tilli, diciannove anni, che sta tornando da una cena in compagnia di un amico. I due percorrono insieme Corso Re Umberto sulla 124 Coupé, che la Fiat ha prodotto giusto nel 1967 in 113 mila esemplari. È una macchina da ragazzo benestante, che rispecchia l’estrazione sociale dei Romero: il padre Andrea è primario dell’istituto di neuropsichiatria, guarda caso al Mauriziano. L’auto è larga 1670 millimetri, poco più di una Panda. Non sarà il volume del mezzo, quindi, un elemento decisivo del tremendo contatto. Ma in questa vicenda di sinistre coincidenze, neppure Romero è fortunato. Intanto perché è un neopatentato: un guidatore esperto avrebbe (forse) calcolato tutti i rischi. E poi perché la generosa scelta di accompagnare in macchina il compagno di serata («Non preoccuparti, non prendere i mezzi, vengo io da te») ritarda i suoi spostamenti, facendolo transitare nel momento sbagliato al posto sbagliato. Dell’altro conducente, che provoca involontariamente le ferite letali, non si saprà molto. Si chiama Guido Zaccheria e risiede a Bresso, in provincia di Milano. Non verrà mai inquisito né cercato. Diritto all’oblio ampiamente giustificato: non ha alcuna colpa nella vicenda.

    Tra molti anni Romero diventerà, per una stranissima combinazione di eventi, il presidente del Torino, la squadra di Gigi Meroni. Ma di questo parleremo più tardi. Per adesso è meglio restare sull’incidente. Tilli accosta sul lato destro della strada, si sincera dell’accaduto, non crede ai suoi occhi: quell’uomo sdraiato a terra, come confermano le grida dei testimoni, è il suo idolo. Proprio dentro alla Fiat 124 Coupé, lo sbarbato Romero conserva le fotografie di Meroni e degli altri calciatori del Torino. Poche ore prima, allo stadio Comunale, ha bisticciato con un tifoso che durante la partita con la Sampdoria criticava aspramente Gigi: «Cosa vieni a fare qui se te la prendi con l’unico fenomeno che abbiamo?» Non riesce a capacitarsi di averlo investito, chiede aiuto, si confronta con l’amico, che è figlio di un magistrato, poi telefona al padre. La famiglia abita a poche centinaia di metri dal civico 46, sempre su Corso Re Umberto. Sono minuti concitati. Ma quando il telegiornale annuncia la notizia della morte di Meroni, i Romero non hanno esitazioni: andiamo alla polizia. Intanto la famiglia di Gigi parte da Como a bordo di una – guarda caso – Fiat 124, senza ancora conoscere i dettagli della disgrazia.

    Il ragazzo è in stato di choc, viene ascoltato a lungo. A suo carico, però, non emergono indizi di grave colpevolezza, o comunque non viene ravvisato il rischio di fuga. Non lo arrestano. Gli viene solo ritirata la patente per sei mesi, in attesa del processo. Il reato di omicidio stradale, di cui purtroppo leggiamo e sentiamo quasi tutti i giorni, verrà introdotto soltanto dalla legge 41 del 2016, con l’inserimento dell’articolo 589-bis nel codice penale e l’inasprimento delle condanne per i responsabili di condotte imprudenti alla guida, con le aggravanti dello stato di ebbrezza o dell’«alterazione psico-fisica conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope». Il caso di Corso Re Umberto, tuttavia, è singolare perché Romero non è ubriaco, e neppure drogato. Inoltre, essendo ripartito da fermo allo scattare del verde di un semaforo poche decine di metri prima, non ha violato i limiti di velocità. Come detto, in tribunale il giudice lo condanna a sei mesi con la condizionale, quindi escludendo ogni restrizione alla libertà, perché riconosce l’omicidio colposo ma anche una forte componente di fatalità che ha creato le condizioni del contatto. Non solo: nel 1967 la maggiore età si raggiunge al compimento dei ventuno anni, non dei diciotto. Quindi Tilli, da un punto di vista legale, è considerato ancora minorenne, circostanza che ne attenua la pena. Il Torino però, diciotto anni dopo la tragedia di Superga, lamenta il danno patrimoniale determinato dalla morte di uno dei suoi migliori calciatori e chiede un risarcimento: la causa arriverà fino alla Corte di Cassazione, che con una storica sentenza (la 174 del 26 gennaio 1971) cambierà l’interpretazione della responsabilità civile, stabilendo che le ingiustizie «oggettive» e non «soggettive» determinino un obbligo di ristoro. In sostanza Romero deve risarcire il Torino, la squadra del cuore, per averne leso un diritto, cioè le prestazioni sportive di un calciatore sotto contratto.

    Ma le conseguenze legali, e la pena pecuniaria, sono nulla rispetto al senso di colpa. Romero, classe 1948, convive dal 15 ottobre 1967 con il rimorso. Non ha voglia di dimenticare, tutt’altro. Vuole essere testimone di se stesso. Nel nostro colloquio, in un grande albergo torinese del centro, mi ha descritto con lucidità il suo stato d’animo:

    Mi definisco serenamente angosciato, se mi passate l’ossimoro. Sin dal primo istante dopo l’incidente ho provato un senso di smarrimento. Ero davanti a una scena di cui non sentivo fino in fondo di essere protagonista. Ero spettatore di un film o lettore di un romanzo noir.

    Superare il dolore non si può:

    Come fai? È difficile. Quando ti capitano certe cose il dispiacere si dirada, nel tempo. Finisce la disperazione ma non lo sgomento. Quello non scompare mai del tutto, insieme all’incredulità. Anzi, andando avanti, invecchiando, si affaccia sempre di più, forse perché è arrivato il tempo dei bilanci sulla vita.

    Non cerca l’assoluzione, né morale né tecnica:

    Anche se da un punto di vista scientifico la morte di Gigi Meroni fu provocata probabilmente dall’impatto con l’altra macchina, la Lancia, io avrei potuto agire diversamente. Sono passato troppo vicino a quei pedoni e non so perché lo abbia fatto. La visibilità era perfetta, sembrava una sera di fine estate e non d’autunno.

    Ha deciso di andare avanti da solo:

    La letteratura e le cattiverie hanno determinato il chiacchiericcio secondo il quale, essendo figlio di un neuropsichiatra, fossi stato aiutato da una terapia farmacologica. In verità io non ho mai chiesto alcun sostegno, neppure psicologico. Non so se l’evento abbia condizionato la mia psiche, forse sì, ma in me non si sono mai manifestati incubi o attacchi di panico o chissà cos’altro. Sono anche tornato a guidare un’automobile senza farmi travolgere dall’ansia.

    I tifosi del Torino, i suoi compagni di passione, gli sono stati accanto: «Sono tornato allo stadio a dicembre, un paio di mesi dopo l’incidente, e ho ricevuto tanta solidarietà. Nessuno ha mai pensato al dolo, naturalmente. E ha capito cosa potessi provare: avevo causato la morte del nostro eroe».

    A cinquant’anni dall’incidente, dunque nel 2017, Romero chiede e ottiene di incontrare la sorella di Gigi. Maria Meroni vive ancora a Como, città di origine di tutta la famiglia:

    Ci siamo abbracciati, è stato toccante. Non c’è stato nemmeno bisogno di parlare del perdono, un concetto che non ha mai fatto parte della chiacchierata. Da allora ci sentiamo periodicamente, abbiamo instaurato un rapporto squisito. I Meroni sono bella gente.

    Luigino, come lo chiamavano a casa, è rinato nell’anima del nipote, che si chiama come lui: è il figlio di Costantino, l’altro fratello scomparso nel 2000, e fa il musicista. In precedenza, Romero ha anche conosciuto Poletti, che era scampato alla tragedia. I due si sono visti a Brescia, nel periodo in cui Tilli era presidente del Torino, «dopo una nostra vittoria per 2-1. Ma non abbiamo sentito il bisogno di ricordare l’incidente, è stata una chiacchierata informale per parlare della squadra, della storia granata».

    Romero presidente, sì. Per una combinazione imprevedibile tra magia e stregoneria – che in una parola si possono sintetizzare in casualità – viene chiamato al Torino dopo una lunga carriera da manager in Fiat: prima all’ufficio stampa, poi altri incarichi tra i quali portavoce di Gianni Agnelli. Ha intrecciato per lavoro una fitta rete di relazioni, soprattutto con gli imprenditori piemontesi. E così nel 2000 accetta l’offerta di Franco Cimminelli, che ha una florida azienda specializzata nella componentistica di automobili ed è quindi un partner privilegiato per la Fiat. Su sollecitazione dell’allora amministratore delegato (e tifoso granata) Paolo Cantarella, Cimminelli rileva il pacchetto di maggioranza del Torino. Romero diventa il frontman, «con un azionista molto liquido alle spalle», ma la gestione non sarà vincente: la squadra gioca tre stagioni di Serie B e due di A, ma nel 2005 l’azienda, a quaranta giorni dalla seconda promozione, viene dichiarata fallita e quindi estromessa dal campionato. «Un trauma molto pesante», confessa Tilli, «non paragonabile alla tragedia di Meroni, chiaramente, ma forte. Se ci avessero dato più tempo per riparare a un errore, una fideiussione falsa, il Torino si sarebbe salvato. Il trattamento verso la nostra società fu brutale. In altri casi, con altri club di Serie A, è stato diverso». Comunque Romero finisce nell’inchiesta penale: bancarotta documentale, truffa, malversazione, violazione sulla legge sulle fatturazioni. Patteggia una condanna a due anni e mezzo: «Non potevo fare altrimenti. Ero moralmente innocente ma firmavo i bilanci, ero rappresentante legale della società». Cimminelli morirà nel 2012 a settantacinque anni, ricordato senza onori dalla tifoseria del Torino. Anche Romero, per la verità, è stato giudicato colpevole dal tribunale popolare. Non della tragedia di Corso Re Umberto, ma del fallimento granata. E contro certe sentenze non esistono appelli o cassazione.

    Gigi Meroni invece rimarrà leggenda, esaltante e incompiuta. Per capirne le ragioni, ho chiesto ancora a Romero:

    Parliamo di un autentico fuoriclasse, che si incastrava in un periodo particolarmente delicato. Dopo la tragedia di Superga, la squadra non aveva più raggiunto grandi risultati. Ma Meroni, con quei capelli lunghi e i calzettoni abbassati, con quelle finte e quello spunto, ci restituì la speranza. Nel 1965 arrivammo terzi in campionato, il miglior risultato dai tempi del Grande Torino. E Gigi era l’ala dei sogni proibiti. Un calciatore così talentuoso si fa amare persino più di un centravanti che segna a raffica.

    Lo ribattezzarono presto la Farfalla Granata, soprannome che è diventato per molti appassionati un tatuaggio, o comunque un vanto. E lo paragonarono, per il look trasgressivo e per le qualità di fantasista dribblomane, al più grande interprete del ruolo degli anni Sessanta: George Best, il campione nordirlandese del Manchester United, che si sarebbe autodistrutto a causa dell’abuso di alcol dopo aver vinto il Pallone d’Oro. Sospira Romero: «Vincemmo la Coppa Italia, ma se Meroni non fosse morto forse il Torino avrebbe vinto molto di più».

    Gigi era un grande calciatore. Un genio. Discontinuo e irresistibile. È stato capace di interrompere con un pallonetto la lunghissima imbattibilità casalinga dell’Inter di Helenio Herrera, o di sorprendere Albertosi del Milan con un colpo da biliardo, senza riguardi né timori verso gente scaltra e titolata. Se era in giornata sapeva cambiare le partite quasi da solo. Esempio per i lettori più giovani: qualcuno oggi paragona a lui il georgiano Kvaratskhelia, grande scommessa vinta del Napoli, per gli strappi anarchici ai quali i difensori difficilmente resistono. Ma Meroni era un tipo originale anche e soprattutto fuori dal campo. Aveva abitudini stravaganti, come quella di dormire con un teschio sul comodino («È un portafortuna»), o di girare per Torino con una gallina al

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