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I personaggi più malvagi della storia di Milano
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E-book327 pagine4 ore

I personaggi più malvagi della storia di Milano

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Info su questo ebook

Dall'Inquisizione agli anni di piombo
Nell'anima della città si nasconde un cuore assassino

Principi, condottieri, carnefici, serial killer, banditi e terroristi
Il lato oscuro della Milano feroce e criminale

Si dice che il male abbia molte facce. Nella storia di Milano queste facce sono state quelle di principi e di condottieri, streghe presunte e veri carnefici, serial killer e poliziotti prezzolati, banditi e terroristi.
Accomunati da efferatezza e origini, hanno mietuto le loro vittime con l’inganno o con la violenza trasformando la capitale morale d’Italia in un autentico Far West. Questo libro rivela vizi privati e pubbliche crudeltà di duchi e contesse delle corti rinascimentali dei Visconti e degli Sforza; ricostruisce gli efferati crimini dei capi delle “polizie private” durante i seicento giorni di Salò; ripercorre le gesta di bande criminali divenute a loro modo leggendarie, passando per i secoli delle congiure consumate all’ombra dei palazzi, dei processi sommari celebrati “in nome di Dio” e della persecuzione dei patrioti nel periodo della sottomissione all’impero d’Austria. Non mancano i ricorrenti assassini seriali che hanno riempito le cronache fin dalla metà dell’Ottocento, né i maggiori protagonisti – di destra come di sinistra – degli anni di piombo, alcuni dei quali sopravvissuti a quella stagione terribile, ai processi, alle condanne per riapparire a sorpresa ai nostri giorni, in alcuni casi più potenti e feroci che mai.

Tra gli argomenti trattati nel libro:

Bernabò Visconti: l’incarnazione del male
Giovanni Maria Visconti: bizze e capricci del Nerone alla milanese
Gian Giacomo de’ Medici: Quasi un Dracul
Bianca Maria Scappardone: uomini e mantidi
Francesco Maria Guaccio: scope e martelli per le streghe
La Banda Carità: sinfonia di morte
Quelli dell’Aprilia nera: rapine e pallottole fra le macerie
Renato Vallanzasca: Bandito a Milano
Antonio Busnelli: il becchino in corsia
Gilberto Cavallini: il killer nero

«Gli autori tracciano il loro oscuro labirinto narrando con oggettività vicende inquietanti. Il terrore diventa un affare di famiglia.»
Laura Laurenzi, la Repubblica

«Una carrellata di fatti oscuri e crudeli, operati da famiglie che hanno utilizzato ogni genere di sopraffazione per difendere il proprio nome e potere.»
Panorama.it


Andrea Accorsi
(Legnano 1968), giornalista professionista e ricercatore, lavora come capo servizio della redazione interni in un quotidiano nazionale. Studioso di storia del giornalismo e di criminologia, per la Newton Compton ha scritto molti libri e saggi sull’argomento.


Daniela Ferro
(Milano 1977), giornalista pubblicista e saggista, ha scritto diversi libri, tutti editi dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854162921
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    Anteprima del libro

    I personaggi più malvagi della storia di Milano - Andrea Accorsi

    es

    227

    Prima edizione ebook: dicembre 2013

    © 2013 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-541-6292-1

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Andrea Accorsi - Daniela Ferro

    I personaggi più malvagi della storia di Milano

    Principi, condottieri, carnefici, serial killer, banditi e terroristi. Il lato oscuro della Milano feroce e criminale

    omino

    Newton Compton editori

    RINGRAZIAMENTI

    Gli autori ringraziano Giulia Guerriero, Massimo Lugli e Orazio Sorrentini per il contributo fornito alla stesura di alcuni capitoli.

    Introduzione

    I milanesi ammazzano al sabato è il titolo di uno dei romanzi di maggior successo di Giorgio Scerbanenco, uno dei padri della giallistica italiana, nonostante la sua origine ucraina. Protagonisti dei suoi tantissimi romanzi, quei milanesi che uccidono in quel giorno, perché negli altri devono lavorare: «Se non fosse stato sabato – dice uno di essi – non l’avrei fatto tutto quel disastro». Molti dei personaggi che affollano il nuovo e corposo libro della collaudata coppia Accorsi-Ferro sono riconoscibili nella loro milanesità: una cifra culturale ancor prima che anagrafica. Un tratto che segna I personaggi più malvagi della storia di Milano lungo un tempo che scala gli anni fino al Medioevo della «uggiosa esistenza» – come la qualificano gli autori – di Giovanni Maria Visconti: «Una velenosa serpe, che al neonato ducato procurò solo danni e il rischio di una precoce decadenza, se una congiura – quanto mai provvidenziale per le sorti della città – non avesse posto fine alla sua esistenza».

    Quella del Visconti – fra i peggiori della blasonata genìa milanese, al pari dello zio Bernabò e del fratello Filippo Maria – è una delle tante storie malvagie che attraggono, anche grazie a un tratto narrativo che già conoscevo e che qui si conferma come fluido e coinvolgente, proprio per la loro malvagità, perché, come potrebbe spiegare qualsiasi studente di psicologia o sociologia, è il male che affascina, non il bene. Il bene, per dirla con lo starec Zosima nei Fratelli Karamazov, è prerogativa di pochi: i molti sono votati al male, alla sua facile percorribilità. Il male è dunque alla portata di chiunque, fino a diventare banale, come spiega Hannah Arendt nel suo libro sul processo Eichmann.

    Non di centinaia di pagine, ma di migliaia avrebbe potuto comporsi questo libro se fossero state computate tutte le azioni malvagie compiute da tutti i malvagi milanesi, cioè da chi ha avuto la sua nascita a Milano. Un discrimine che ha sfoltito una moltitudine di malvagi che altrimenti sarebbe stata ben più folta. Immaginate solo se si fosse allargato il campo allo scenario milanese, prescindendo dal luogo di nascita dei vari soggetti. Nella sua proverbiale generosità, Milano ha ospitato – e ospita – tanti malvagi provenienti da ogni dove. «Tutti siamo abbastanza forti da sopportare il male altrui», dice causticamente François de La Rochefoucauld nelle sue Riflessioni, e questa incontestabile verità è il motore stesso della Storia e delle storie della maggior parte degli uomini.

    Sopportiamo il male (altrui) nelle sue diverse e molteplici forme in ogni momento della giornata. Apprendiamo distrattamente del suo compimento arrotolando con calma degli spaghetti o ingurgitando con velocità un panino. Una morte sul lavoro o in guerra o in un agguato o in un attentato o in famiglia intercettano la nostra attenzione per pochi momenti. Anche il male si è adeguato alla velocità del Novecento, diventando elemento consueto. La sua capacità d’insinuazione fra le azioni umane è coerente con la sua umiltà, alla sua portata umana. Per questo nella sua chiesa sempre aperta conta sempre più fedeli: in alcuni casi – come vedremo in questo libro – veri e propri militanti del male, non già per la connotazione politica, che pure è presente, ma per la costanza quasi maniacale nel praticarlo, il male.

    Le storie qui narrate rispondono alla logica maligna che non si pone il problema etico del male, riverberando i pessimismi di Dostoevskij («Se Dio non esiste – dice Ivan Karamazov – tutto è possibile») e di Adorno («Dopo Auschwitz scrivere una poesia è un atto di barbarie») e della stessa Agatha Christie, l’incontrastata regina del giallo, secondo la quale gli uomini sono fondamentalmente malvagi, perché tutti ripiegati sul proprio essere individuale, alla ricerca del proprio bene. E proprio per quel bene si compie il male altrui: un concetto caro a Giulio Andreotti, con la sostituzione dell’io individuale con lo Stato. «Per compiere il bene dello Stato bisogna percorrere spesso le strade del male». (E lasciamo stare il povero Machiavelli, il cui pensiero continua a essere svillaneggiato con luoghi comuni privi di ogni riscontro oggettivo relativamente al suo pensiero).

    Da diversi anni mi sono dedicato alla storia del nostro Paese a far data dall’immediato dopoguerra. Per questa ragione, il mio interesse nei confronti di questo libro si è concentrato su alcune storie qui presenti. Storie imbastite di Storia, insomma. A esclusione di quella di Vallanzasca da lui stesso raccontatami a suo tempo in un supercarcere, quando mi si presentò come «il bandito, non un bandito», le altre storie che mi hanno particolarmente interessato sono state quelle legate alla politica; da quella della banda Muti a quella della banda Carità. Per poi arrivare a personaggi quali Marco Barbone, Gigi Cavallini, Massimo Carminati. Agenti della malvagità dai diversi cromatismi politici.

    Anche a essi – rossi o neri che fossero – così come a tutti i malavitosi comuni, è stata data una nuova opportunità: un secondo giro nella giostra della vita, ché il primo gli era venuto proprio male. Non come le loro vittime, fra cui, una per tutte, voglio qui ricordare Walter Tobagi. Il giornalista di quel Corriere che me lo fa sentire ancora più vicino per la testata che ci accomuna. Tobagi morì per far vivere Barbone come terrorista. Per permettere a lui e ai suoi complici (lasciamo stare i commandi di sudamericana memoria: la 28 marzo era solo un’accozzaglia di mentecatti) di accreditarsi presso il prestigioso college delle Brigate Rosse. Per arricchire insomma il loro curriculum, superando un esamino. La morte di un uomo.

    Appena entrato in galera, l’aspirante brigatista trovò nel pentimento la soluzione del suo futuro. Un futuro che oggi – a trentatré anni di distanza da quella plumbea giornata del 28 maggio 1980, fra l’altro anniversario della strage di Brescia – lo vede collaborare a una testata giornalistica dalle cui colonne lancia perfino anatemi morali che manco Haifa nel sinedrio. Nell’Italia dei tanti Savonarola prêt-à-porter ha trovato posto pure lui. Quel peccatuccio che ha sul suo passato è talmente lontano nel tempo in «un Paese senza memoria» – per dirla con Sciascia – da renderlo ormai quasi invisibile. Nonostante ciò, proprio la sua vita nuova dimostra la forza della democrazia: quel sistema imperfetto che un secondo giro di giostra lo permette anche a chi ha – da impunito rappresentante della malvagità – compiuto il male.

    Pino Casamassima

    Prefazione

    Si dice che il male abbia molte facce. Nella storia di Milano queste facce sono state di volta in volta quelle di principi e serial killer, streghe presunte e veri carnefici, condottieri e poliziotti prezzolati, banditi e terroristi, in una trasversalità di tempi, di circostanze e di status sociali che sembra non avere eguali nella storia.

    In nome del potere e al fine di conseguire meri interessi materiali – talvolta celati dietro il paravento di ideologie più o meno liberticide –, uomini e donne nei secoli hanno mietuto le loro vittime con l’inganno o con la violenza. Taluni hanno tessuto trame vaste e complesse; altri, più prosaicamente, si sono armati fino ai denti e hanno colpito nel mucchio, trasformando la capitale morale d’Italia, o altri luoghi della Penisola, in una sorta di Far West. In comune, la loro origine: essere nati a Milano, città che nel corso dei secoli è divenuta una porta sempre aperta alle nuove idee e ideologie, buone o cattive che fossero, dall’Illuminismo al Romanticismo, dalla Rivoluzione alla Restaurazione, ma anche al fascismo, al brigatismo e allo stragismo di Stato.

    Ognuna di queste epoche storiche ha avuto due volti della medaglia. Questo libro, che ne esplora quello buio, rivela vizi privati e pubbliche crudeltà di duchi e contesse nelle corti tardomedievali e rinascimentali dei Visconti e degli Sforza. Ricostruisce gli efferati crimini dei capi delle polizie private durante i seicento giorni di Salò. Ripercorre le gesta di bande criminali divenute a loro modo leggendarie, come quelle guidate nel secondo dopoguerra da Ezio Barbieri e Sandro Bezzi (quelli dell’Aprilia nera) e negli anni Settanta da Renato Vallanzasca, il re della Comasina. Ancora, percorre i secoli delle congiure consumate all’ombra dei palazzi, dei processi sommari celebrati in nome di Dio (l’Inquisizione) e della persecuzione dei patrioti nel periodo della dominazione austriaca in Lombardia.

    E non mancano i ricorrenti assassini seriali, che hanno riempito le cronache fin dalla metà dell’Ottocento (il mostro della Stretta Bagnera, l’infermiere assassino, il killer della Martesana…), né i maggiori protagonisti – di destra come di sinistra – degli anni di piombo, alcuni dei quali sopravvissuti a quella stagione terribile, ai processi, alle condanne, per riapparire a sorpresa ai giorni nostri, in alcuni casi più potenti e feroci che mai.

    Un’avvertenza: il criterio utilizzato per la scelta dei personaggi è stato – oltre, com’è ovvio, alla natura malvagia della loro indole e dei loro atti – la nascita a Milano, o nel Milanese. Per questo motivo, il lettore non troverà qui personaggi che hanno sì vissuto e agito in questa cornice, fino a restare a volte indissolubilmente legati a essa nell’immaginario collettivo, senza tuttavia esservi nati.

    1. L’arroganza al potere

    Bernabò Visconti, 1323-1385

    Esistono diversi modi per rendersi memorabili e immortali. E se alcuni hanno scelto la via del coraggio e della virtù per incidere a fuoco il proprio nome nella memoria della gente, altri hanno seguito la direzione opposta, eccellendo in crudeltà e scelleratezze. Bernabò (o Barnabò) Visconti appartiene alla seconda categoria.

    Quest’uomo, vissuto nel xiv secolo, potrebbe essere presente in una cantica dell’Inferno del grande poeta fiorentino Dante. Di lui non si ricorda nulla o quasi all’infuori di aneddoti che hanno reso celebre e proverbiale la sua cattiveria, e che gli hanno guadagnato la giusta fama di diavolo in carne e ossa. Cronache e novelle del tempo hanno tratto ampia materia di ispirazione dalla figura dell’orgoglioso e prepotente signore di Milano, sulla cui ferocia traboccano storie che sconfinano nella leggenda.

    Una di queste vuole che nel castello di Trezzo si aggiri ancora oggi lo spirito della sua anima, come se volesse riscattarsi, o magari reiterare le sue nefandezze anche d all’altro mondo. Il diabolico Bernabò sembra avesse l’abitudine di gettare i corpi morenti dei nemici e delle fanciulle sedotte nei pozzi del sinistro maniero, in alcuni dei quali erano state collocate sul fondo delle lame.

    Un’altra storia prende spunto dalla stanza della goccia e potrebbe essere inserita di diritto nella serie di film horror diretti da James Wan. Questa stanza era nei sotterranei del castello, scavati direttamente in grotte naturali umide e con un continuo stillicidio di acqua. I corpi dei malcapitati che vi venivano rinchiusi erano legati proprio là dove cadeva una di queste gocce che lentamente, quasi a punirli in vita, li condannava a una morte spirituale prima che fisica, scavando in maniera lenta e inesorabile il loro cranio.

    Bernabò Visconti non risparmiò un terribile destino neppure al sangue del suo sangue: la figlia Bernardina pagò con una condanna crudele e irrevocabile il proprio amore per l’uomo sbagliato. E sì che il padre era un infaticabile donnaiolo, nonostante fosse sposato alla nobildonna veronese Regina Della Scala, figlia di Mastino ii.

    La stessa Bernardina era nata da un rapporto extraconiugale: Bernabò l’aveva avuta dalla sua favorita fra le cortigiane, Giovannola di Montebretto, ma l’aveva comunque riconosciuta come figlia legittima. Come sposo a lei destinato, il padre scelse il condottiero bergamasco Giovanni Suardo, discendente di una stimata – e soprattutto ricca – famiglia ghibellina, alleata dei Visconti nel dominio sulla città. Insomma, sarebbe stato il classico matrimonio di convenienza, sia economica che politica. Sarebbe stato, perché c’era un imprevisto che si sarebbe rivelato insormontabile: Bernardina non ne voleva sapere. E preferì concedersi alle assai più gradite attenzioni del noto libertino di corte Antoniolo Zotta. Ma i due giovani non furono sufficientemente accorti nel condurre la loro tresca amorosa. Bernabò in persona li sorprese nel clou delle loro appassionate effusioni. E l’ira del duca si abbatté come una falce sui due amanti incauti.

    L’uomo finì appeso per il collo, dopo essere stato falsamente accusato di furto. Torturato, confessò la colpa che non aveva commesso, ossia aver tentato di scassinare la serratura di un forziere di Bernabò: quanto bastava per condannarlo a morte. Bernardina, invece, fu murata viva in una segreta nella famigerata rocchetta di Porta Nuova, con il solo beneficio di qualche sorso d’acqua e un tozzo di pane ogni tanto. Fra molteplici sofferenze, e per di più nelle tenebre più fitte, la ragazza sopravvisse sette mesi, prima di rendere l’anima al cielo.

    Forse per esorcizzare l’impressione popolare suscitata da simili gesti, subito cominciarono a diffondersi voci che volevano Bernardina scampata alla tremenda vendetta paterna. In molti giurarono di averla vista aggirarsi nel chiostro del monastero di Santa Radegonda (poi demolito), aggiungendo così un altro fantasma alle leggende circolate intorno ai Visconti. Un altro, ma non l’ultimo. Perché c’è chi sostiene di aver visto passeggiare fra le mura del castello di Trezzo lo spettro di un’altra delle molte figlie di Bernabò – che fra maschi e femmine ne ebbe più di trenta –, colpevole, come Bernardina, di un amore proibito: la ragazza si era innamorata di uno stalliere, quindi di un uomo di rango infinitamente inferiore al suo. Come punizione, il corpo della sfortunata fanciulla assaggiò le lame di uno dei pozzi scavati nelle viscere del castello sull’Adda.

    Fra le tessere del variegato mosaico che componeva la personalità di Bernabò Visconti vi era anche una forte componente anticlericale. Ed è certamente curioso per un uomo che era nato (nel 1323) in un convento e che, almeno sulla carta, era destinato alla carriera ecclesiastica. Già, perché proprio questa sembrava essere il suo ineludibile destino; e se i propositi originari della famiglia ebbero a mutare, fu solo in conseguenza dell’ardita e ambiziosa campagna espansionistica intrapresa dai Visconti nella prima metà del Trecento: a quella campagna serviva assai più un valente guerriero che un pio e umile oratore, che nulla avrebbe portato ai sogni di gloria della casata milanese.

    Del guerriero, Bernabò apprese tutte le qualità. Fu indomito, energico, risoluto, spietato. E ostinatamente crudele, tanto da apparire talvolta la caricatura di se stesso. Questo tuttavia non lo imparò: la sua indole malvagia e dispotica era innata.

    Forse perché gli ricordavano il destino al quale era scampato, disdegnava chiunque indossasse abiti religiosi. Inflisse un’ammenda all’abate al quale aveva affidato i suoi cani da caccia – l’arte venatoria era una grande passione di Bernabò – perché li aveva lasciati senza cibo. Ma il pover’uomo non aveva il denaro (quattromila scudi) per pagare la sanzione: era solo un povero abate di campagna. Bernabò, allora, gli offrì la possibilità di riscattare il suo debito rispondendo a quattro semplici domande: quanto dista la terra dal cielo, quanta acqua contiene il mare, che cosa fanno le anime dei dannati all’inferno e quanto valesse la persona di Bernabò Visconti. La multa sarebbe stata annullata solo quando l’abate fosse tornato con le risposte.

    L’abate raccontò dell’insolita proposta a un mugnaio, al quale non doveva mancare l’astuzia. Il resto lo fece il risentimento che la gente comune nutriva per il suo signore: ogni occasione era buona per vendicarsi di lui, del suo carattere irascibile e delle sue malefatte. Così, il mugnaio propose all’abate di sostituirlo e di presentarsi in sua vece al cospetto del Visconti.

    Sotto le mentite spoglie del religioso, gli rispose che la terra dista dal cielo tre milioni e quattrocentoventitré passi, che nel mare ci sono settemilaseicentotrentanove secchi e due boccali d’acqua, che nell’inferno si ruba, si arraffa e si uccide, proprio come il perfido Bernabò faceva in terra, e che lo stesso Bernabò valeva ventinove soldi. E all’indispettito signore, che gli rinfacciava di valutarlo così poco, il falso abate rispose che non era il caso di arrabbiarsi, perché Giuda aveva venduto Cristo per trenta denari, solo uno in più di quanto egli stimava Bernabò.

    A quel punto il Visconti, insospettito dalla prontezza di spirito e dall’arguzia del proprio interlocutore, cominciò a capire di essere stato ingannato a sua volta. Si alzò dal suo scranno e tolse di forza il cappuccio dietro il quale il presunto uomo di Chiesa celava il volto. E i suoi sospetti si tramutarono in certezza: la persona che aveva di fronte non era il remissivo e inaffidabile abate, ma lo scaltro mugnaio. Bernabò ne apprezzò l’audacia e l’acutezza al punto da fare di lui il nuovo abate e retrocedere quest’ultimo al rango di mugnaio.

    Il povero abate di campagna non fu il solo prelato a cadere vittima dei tiri mancini del Visconti. Due monaci benedettini constatarono di persona l’odio del capriccioso signore per i loro confratelli.

    Bernabò si trovava allora al castello di Melegnano, dove fu raggiunto dalla scomunica papale del pontefice Innocenzo iv. Latori dello sgradito messaggio, i due benedettini (uno dei quali sarebbe poi asceso al soglio papale col nome di Urbano v) vennero accolti dal Visconti sul ponte levatoio del castello. Il signore di Milano chiese loro se preferissero bere o mangiare e i due risposero che avrebbero gradito un po’ di cibo. Gli sventurati non si sarebbero mai aspettati di essere accontentati con l’invito a inghiottire le lettere che portavano, con tanto di sigillo papale. Non che la seconda scelta li avrebbe condotti a un destino migliore: Bernabò pensava di dissetarli con le acque del fossato che circondava il castello.

    Che Bernabò non avesse un buon rapporto con gli ambasciatori, in barba a ogni detto e convenzione, emerge anche dall’accoglienza che riservò a un legato papale che recava la condanna di un alleato del Visconti: il poveretto fece la fine del pollo allo spiedo, legato e arrostito su una graticola. Un altro messaggero invece pagò a caro prezzo la… bassa statura. Bernabò, infatti, detestava le persone basse, le giudicava letteralmente non all’altezza di presentarsi al suo cospetto. Tanto che a quell’ambasciatore fece riferire il messaggio in sella a un cavallo scelto appositamente fra i più riottosi e munito di staffe troppo lunghe, al fine di impedire a chi lo montasse di controllare a dovere il destriero. Ci vollero più di quattro ore perché il malcapitato riferisse per intero il suo messaggio.

    Bernabò le aveva proprio tutte. Era smodato nelle sue azioni, come nelle reazioni. Sempre imprevedibile, sempre sopra le righe, aveva proprio quel che si dice un caratteraccio. E se a patirne le conseguenze erano spesso abati, monaci e frati, nonché ambasciatori e messaggeri, non significa però che Bernabò lesinasse i suoi strali al curaro con gli altri. Al contrario.

    Un signorotto genovese ebbe l’ardire, o meglio la sfrontatezza, di sfidare Bernabò in una tenzone a suon di… libagioni. L’ignaro sfidante aveva avuto l’incauta idea di dichiararsi davanti al signore di Milano il più grande bevitore del mondo. Per non essere da meno, Bernabò si autoproclamò il più forte bicchiere milanese, salvo poi perdere malamente la sfida. La reazione del Visconti stupì tutti: anziché adirarsi, elevò sui due piedi il genovese al rango di cavaliere. Probabilmente l’effetto della sbornia rimediata in quel duello singolare, combattuto a colpi di bicchieri levati e svuotati, ebbe la meglio persino sull’iracondo signore milanese. Bernabò tuttavia seppe rifarsi, e con gli interessi, dello smacco subìto. Non appena tornò in sé, una volta svaniti gli effetti concilianti della solenne bevuta, escogitò una punizione esemplare: ordinò che il neocavaliere fosse gettato in un letamaio.

    Ancora, si racconta che fece scaraventare in acqua un contadino che aveva riservato il medesimo trattamento al proprio asinello per liberare la strada, affinché Bernabò e il suo seguito potessero passare più agevolmente. Il Visconti si era comportato in quel modo solo perché il contadino non potesse gloriarsi di essere l’unico a usare gentilezze con gli altri.

    Ma Bernabò era anche un uomo che si sapeva divertire. Amava assistere alle esibizioni dei giullari, per trarne sollazzo. E coltivava svariati interessi, a partire dalla lettura. Si diceva che rimanesse per intere giornate chiuso nella sua biblioteca: in quel piccolo spazio fuori dal mondo, divorava i romanzi del ciclo arturiano al fine di trarre spunti per i tornei cavallereschi che amava organizzare. E gli piaceva impreziosire la vista intorno a sé circondandosi di opere d’arte di notevole fattura. Quasi come se volesse attorniarsi di bellezze per compiacersi di essere lui stesso un uomo di bell’aspetto, e nascondere così quello che era in realtà: una persona emotivamente instabile, che passava da eccessi d’ira immotivati ad atteggiamenti assolutamente amabili. Mentre gli storici sottolineano, sul piano politico-amministrativo, il valido contributo da lui dato allo sviluppo dello Stato di Milano, costantemente ampliato dalle tante guerre che combatté (contro l’impero e il papato, i Gonzaga e gli Estensi, i Savoia e Genova) e potenziato nei confronti delle autonomie comunali e feudali, attraverso la crescente centralizzazione del potere e il mantenimento dell’ordine all’interno dei confini.

    Personalità imprevedibile come nessun’altra, ai limiti della schizofrenia pura, forse il Visconti a volte era tormentato dai sensi di colpa, che lo portavano a compiere atti di beneficenza, come elargire generose donazioni ai quattro ospedali della città e agli ordini religiosi che si prodigavano in opere di carità. Ma neppure quei gesti potevano redimerlo agli occhi dei contemporanei.

    Com’è facile intuire, nel corso della sua vita il signore di Milano si era fatto un mucchio di nemici, fuori ma anche dentro la propria corte. E covò in seno alla sua stessa famiglia la serpe dal cui veleno sarebbe stato ucciso. Il parente serpente non era altri che il nipote Gian Galeazzo, con il quale Bernabò condivideva, o meglio disputava, la signoria su Milano.

    Gian Galeazzo era ritenuto dallo zio un ragazzetto inoffensivo, codardo e senza la minima capacità di controbattere. Ma il nipote voleva proprio questo: che il potente congiunto si creasse questa immagine di lui così pacifica e ingenua. E non correre così il rischio di essere eliminato come un pericoloso rivale per il seggio più alto dello Stato visconteo; cosa che Bernabò avrebbe certamente fatto, se si fosse reso conto del pericolo che quel giovane rappresentava per lui.

    Il nipote riuscì nella sua impresa, nascondendo per anni la sua vera identità al fine di ottenere ciò che voleva. La sua paziente opera di finzione gli riuscì talmente bene che quando invitò Bernabò a un pellegrinaggio al santuario della Madonna del Monte, vicino a Varese, nella primavera del 1385, lo zio accolse l’invito e lasciò Milano diretto al santuario. Neppure quando il nipote si presentò seguito da una nutrita schiera di soldati, l’ingenuo Bernabò si pose il problema di un possibile agguato ai suoi danni, che lo avrebbe visto facilmente soccombere.

    All’improvviso Gian Galeazzo scese da cavallo e con un abbraccio falso come Giuda salutò lo zio, il quale venne subito circondato dagli uomini del nipote: quell’abbraccio altro non era che il segnale convenuto per passare all’azione.

    Bernabò venne arrestato e rinchiuso nel suo castello di Trezzo d’Adda, lo stesso nel quale aveva dimorato negli ultimi tempi, ma anche recato la morte ai suoi nemici dopo averli fatti prigionieri. Insomma, una perfetta nemesi in tutto e per tutto. Nel frattempo, anche alcuni dei suoi figli venivano catturati dai fedelissimi di Gian Galeazzo, che non mossero un dito per impedire il saccheggio del palazzo di Bernabò a Milano; e certo al popolino non doveva parer vero poter sfogare in quel modo l’astio accumulato negli anni per il loro signore.

    Con quella fine, il Visconti dimostrava di essere sì crudele, ma non proprio la furbizia in persona. O, forse, non aveva la scaltrezza di dubitare anche dei componenti della sua famiglia, nonostante i passati tradimenti di alcune delle sue figlie. Fatto sta che Bernabò trascorse sette mesi (proprio come Bernardina nella sua cella a Porta Nuova) nel castello, dove il nipote gli concesse di intrattenersi con Donnina Ferri, l’ultima prediletta fra le amanti che avevano scaldato il suo giaciglio nelle fredde notti milanesi.

    Ma dietro quel gesto compiacente, Gian Galeazzo nascondeva ancora una volta le sue vere intenzioni, ovvero la ferma volontà di sbarazzarsi per sempre dell’ingombrante zio. A una settimana dal Natale di quello stesso anno, Bernabò accusò violenti dolori allo stomaco dopo aver sorseggiato una zuppa di fagioli, la sua preferita, accuratamente preparata da un cuoco al soldo di Gian Galeazzo con l’aggiunta di un pizzico di veleno. Il condimento extra fu più che sufficiente per spedire l’odiato zio a miglior, o peggior, vita: dipende dai punti di vista. In fondo, la sua vita era già stata infernale, per tutti coloro che avevano avuto a che fare con lui.

    2. Bizze e capricci del Nerone alla milanese

    Giovanni Maria Visconti, 1388-1412

    Anche nel frutteto più rigoglioso le mele marce cadono per terra. E anche le migliori famiglie possono conoscere la tara di un membro non propriamente all’altezza del lignaggio e del valore – storico, morale o intellettuale che sia – dei suoi consanguinei.

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