G. W. Vizzardelli: Analisi psico-criminologica di un serial killer adolescente
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Quello che ho appena virgolettato non è l’incipit di un romanzo giallo mozzafiato, ma una mia libera interpretazione di ciò che Vanessa Isoppo scrive nel suo G. W. Vizzardelli - Analisi psico-criminologica di un serial killer adolescente.
… una doverosa precisazione: tutto ciò che state leggendo, su ogni pagina di coinvolgente lettura, è accaduto veramente!
(dalla prefazione di Marco Buticchi)
Tra il 1937 e il 1939 cinque omicidi sconvolgono la tranquillità di una piccola città di provincia. Lo sgomento diventa ancora più grande quando le indagini identificano nel colpevole un ragazzino neanche maggiorenne, poco più che un bambino al momento dei primi due delitti.
Quale la dinamica degli omicidi? Soprattutto, che struttura di personalità ha il giovanissimo assassino?
Passati più di 80 anni dai fatti, e cento dalla nascita di Vizzardelli, l’autrice rilegge la perizia e le carte processuali interpretando la vicenda in chiave moderna, con un aggiornamento sia dal punto di vista psico-criminologico che legislativo.
In appendice (mai pubblicati prima) i temi, oggetto di perizia, e le lettere scritte dal carcere.
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Anteprima del libro
G. W. Vizzardelli - Vanessa Isoppo
Tutti i diritti riservati
Copyright ©2023 Gammarò edizioni
Oltre S.r.l., via Torino 1 – 16039 Sestri Levante (Ge)
www.librioltre.it
ISBN 979-12-80649-42-3
isbn_9791280649423.jpgTitolo originale dell’opera:
G. W. Vizzardelli
Analisi psico-criminologica di un serial killer adolescente
di Vanessa Isoppo
Collana * Le bitte *
ISBN formato cartaceo: 979-12-80649-15-7
ESERGO
La pietà è la legge principale,
forse l’unica vera legge dell’esistenza umana
Fëdor Dostoevskij
VIZZARDELLI, IL SERIAL KILLER DI SARZANA
Prefazione di Marco Buticchi
«… I lunghi corridoi del collegio erano deserti. L’ombra avanzava nella luce baluginante dell’illuminazione notturna. L’assassino aveva il volto seminascosto da una sciarpa e da un cappello. Indossava un cappotto marrone con il bavero alzato…».
Quello che ho appena virgolettato non è l’incipit di un romanzo giallo mozzafiato, ma una mia libera interpretazione di ciò che Vanessa Isoppo scrive nel suo G. W. Vizzardelli, Analisi psico-criminologica di un serial killer adolescente. Il Vizzardelli infatti, ancor minorenne, si macchia senza maturare eccessivi rimorsi, di ben cinque omicidi. Alcuni sono tra di loro talmente disgiunti che soltanto l’acume del commissario Cozzi – anche questo personaggio reale è degno della miglior letteratura poliziesca – riuscirà a recuperare il bandolo dei fili che li tengono uniti.
Su ogni pagina di coinvolgente lettura persiste latente una doverosa precisazione: tutto ciò che state leggendo è accaduto veramente. Perché sembra che i tasselli di questo spaccato di vita del Ventennio siano costruiti dall’abile mano del narratore per destare meraviglia in chi lo legge: c’è la cantina buia dove s’esercita l’apprendista stregone, c’è l’ossessione per il proprio corpo del feroce assassino, l’abuso d’alcol che infonde coraggio, l’indiziato innocente, la passione per le armi. C’è addirittura l’abbate che paga caro il suo affronto, ignaro della vendetta omicida.
Vizzardelli – il serial Killer adolescente è un saggio che troppo spesso fa dimenticare la sua natura per proiettarci indifesi oltre il confine del buon libro poliziesco. È talmente calzante la scenografia che spesso induce il lettore a varcare il limite del verosimile, per costringerlo a vere e proprie forzature nel tornare con i piedi sulla terra di quella città dell’estrema provincia ligure. Anche questa demarcazione è, però, effimera: gli eventi narrati, per la loro caratura, raggiungono ben presto risonanza nazionale, diventando un caso scabroso che richiama l’attenzione persino del duce Benito Mussolini.
Nella precisa descrizione dei fatti, le pagine corrono talmente veloci che il lettore si ritrova alla fine misurando le affinità tra ‘i bei tempi andati’ e il quotidiano vivere del terzo millennio. L’efferatezza di certi soggetti non sembra, poi, tanto cambiata: i malvagi risvolti delle anime perdute prima o poi presentano il conto. E Vizzardelli lo presenta per cinque volte, prima che gli inquirenti riescano a fermare provvidenzialmente il suo profondo e terribile disagio.
È un saggio da leggere perché apre uno spaccato sulla tranquilla provincia italiana che, come il più quieto vulcano, cela spesso sottoterra la potenza distruttiva di una terribile eruzione.
INTRODUZIONE
Quest’anno (2022) ricorre il centenario della nascita di Giorgio William Vizzardelli, salito alle cronache di fine anni ‘30 come Mostro di Sarzana
e che più volte è stato definito, vedremo se correttamente, un serial killer.
Come criminologa la sua vicenda mi ha incuriosito da sempre e ritengo che essendo passato così tanto tempo dagli eventi, si possa guardare a lui anche con quell’empatia necessaria a mantenerci sempre e comunque umani, senza ovviamente dimenticare il rispetto e la stessa empatia dovuta alle vittime e ai loro familiari. La sua storia è terreno fertile per riflessioni ancora attuali e importanti:
• Quanto l’ambiente familiare faciliti lo sviluppo di una mente criminale
• Il senso di una pena, come disposto all’epoca, quale l’ergastolo a un minorenne
La funzione del carcere non solo come luogo di riabilitazione ma anche di contenimento
rispetto a problematiche psichiatriche che necessitano di determinate condizioni per essere tenute sotto controllo senza dover ricorrere ai vecchi manicomi criminali, attualmente R.E.M.S (Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza), perché magari il detenuto/paziente, è di facile gestione e non manifesta segni di aggressività verso se stesso o gli altri. Immagino che possa sembrare quanto meno singolare celebrare
il centenario della nascita di una persona che tanto dolore ha seminato intorno a sé, ma questo lavoro non ha ovviamente intenti celebrativi richiama bensì a una voglia di onestà intellettuale mossa anche dalla curiosità di conoscere ogni aspetto della vicenda.
Tutto accadde a Sarzana, una cittadina in provincia della Spezia, alla fine degli anni ‘30. All’epoca dei fatti gli abitanti erano circa 16000 e vivevano la loro tranquilla quotidianità interrotta periodicamente dai tafferugli tipici dell’epoca dovuti alla presenza di antifascisti e di fascisti.
Pochi anni prima la città salì alle cronache per quelli che vengono tutt’ora ricordati come I fatti del ‘21
: il 21 luglio 1921 la popolazione si mobilitò con gli Arditi del Popolo che nei giorni precedenti avevano già respinto incursioni squadriste. Contro i fascisti si schierarono anche i carabinieri comandati dal capitano Guido Jurgens che ordinò di aprire il fuoco e di disperdere le camicie nere. Gli squadristi vennero sconfitti dalla resistenza unita degli Arditi del Popolo, della comunità contadina e operaia e dei militari leali, riportando un bilancio di 16 morti e circa cinquanta feriti. Alla fine degli anni ‘30 la città, come il resto dell’Italia, stava vivendo il ventennio fascista, con vicende che tinteggiavano di luci e ombre anche Sarzana: è a una di queste ombre che voglio dare voce. Perché è lecito pensare che la notte non è mai sempre e solo scura, che qualche stella qui e là riverbera sempre. Ci sono poi le vicende personali che contribuiscono a spegnere ogni bagliore o rischiarare l’ambiente intorno (e dentro) a noi.
Giorgio Vizzardelli è stato un giovanissimo omicida reo confesso, condannato all’ergastolo in tutti i gradi di giudizio perché ritenuto colpevole oltre ogni ragionevole dubbio. E colpevole era, ma a 100 anni dalla sua nascita e a più di 80 anni dagli omicidi che ha commesso, proviamo a cambiare prospettiva. Non per giustificare le sue azioni, ma per provare a guardare alle cose con gli occhiali che la vita gli ha messo a disposizione.
Chiedendoci ogni volta cosa avremmo fatto noi al suo posto, sapendo che davvero una risposta veritiera non potremmo darla. Sincera sì, perché ognuno di noi sa sinceramente come può reagire alle avversità della vita, ma quello che non sappiamo è se la nostra idea corrisponde alla realtà, nel caso questa si verificasse. Come ho detto inizialmente, a distanza di tanti anni possiamo certamente permetterci non di riabilitare la memoria di chi è stato un assassino, ma di guardare a lui nella sua totalità di bambino, giovane uomo e uomo adulto, per comprenderlo senza però giustificarlo. A che serve tutto questo? Serve a conoscere una parte di storia dolorosa che purtroppo fa parte del passato di una normale città della provincia italiana, serve a farci riflettere sugli aspetti elencati all’inizio dell’introduzione e forse, più di tutto, può servire a esercitare semplicemente l’umanità, guardare all’altro con quella stessa comprensione che vorremmo fosse esercitata verso di noi, che pure non abbiamo mai ammazzato nessuno ma che tante volte permettiamo agli altri di farci sentire come pericolosi assassini. Ma serve anche a rispondere alla riflessione del perito psichiatra Aldo Franchini, il quale scrive che È mia profonda convinzione che la criminologia abbisogni ancora di una vasta esperienza in tal genere di studi per sganciarsi definitivamente dall’empirismo e dalla faciloneria dilettantistica che tanto la appesantiscono
.
Leggerete di un pericoloso assassino neanche maggiorenne, refrattario a ogni regola e insofferente alla vita scolastica, per poi incontrare lo stesso uomo che, a distanza di anni, in carcere ha compreso l’importanza degli studi arrivando a leggere Shakespeare in lingua originale, ha curato la traduzione di testi dall’inglese ma che, una volta ottenuta la libertà, non ha retto il suo status di uomo libero e si è tolto la vita in casa della sorella.
Anche questo suicidio racconta molto dell’uomo che è diventato: ha fatto in modo di curare ogni dettaglio affinché il disagio pratico relativo al ritrovamento del suo corpo da parte dei famigliari fosse limitato al massimo, in un estremo gesto di attenzione all’altro. Attenzione all’altro che, evidentemente, era mancata al giovane diciassettenne omicida nell’infanzia e nell’adolescenza.
Mi piace pensare che Vizzardelli in carcere abbia saputo cogliere quelle opportunità che la vita talvolta offre anche nei luoghi più impensati, per come si è rivelato essere il carcere in questa sua ultima occasione di crescita e miglioramento personale.
1. LA STORIA
Il 23 agosto 1922 non fu un giorno qualunque, ma un giorno che cambiò il corso della storia di tante famiglie sarzanesi e che a suo modo accompagnò a lungo la quotidianità di un’intera città.
Fu una data che cambiò anche la stampa italiana, perché per la prima volta inizia quel circo mediatico che accompagna tutt’oggi i fatti di cronaca nera, ascoltando sia il richiamo del dovere di cronaca ma anche il richiamo che eventi sanguinosi suscitano nelle persone.
Quel giorno nacque, ultimo di sei figli, Giorgio William Vizzardelli; il padre era direttore dell’ufficio del registro di Sarzana, il classico gran lavoratore, dedito alla famiglia. Dietro quest’immagine irreprensibile si celava però un uomo che, oggi, non esiteremo a definire violento
. Sicuramente un padre molto severo, che non risparmiava botte a Giorgio (e forse agli altri figli), reo di essere un bambino fragile prima e un adolescente indolente e difficile in seguito.
Vizzardelli nacque da un parto difficile che provocò un’emorragia nella madre di entità così grave che non recuperò mai completamente la propria salute.
Insegnante elementare, proprio per le conseguenze che il parto ebbe su di lei non aveva più potuto riprendere il lavoro, disagio questo acuito notevolmente dalla necessità di essere continuamente accudita dal marito.
Questo la rese una donna depressa, centrata nel proprio dolore, una madre poco accuditiva e per niente attenta alle necessità pratiche ed emotive del piccolo Giorgio. I fratelli risentirono decisamente meno della situazione in quanto, più grandi, erano tutti ben avviati nello studio e nel lavoro e pertanto stavano molto poco in casa.
Delle tre sorelle maggiori, due erano già laureate, un’altra studiava al magistero; un fratello frequentava l’accademia militare di Modena e un altro la facoltà di chimica a Milano.
Le cronache descrivono quella di Vizzardelli come un’infanzia difficile, costellata da numerosi problemi di salute, (molte malattie infettive, la gracilità, le difficoltà di crescita) e segnata dalla difficile situazione familiare conseguente all’ invalidità della madre. Sebbene avesse un carattere un po’ chiuso e schivo, aveva sempre frequentato buone compagnie ed era considerato educato e rispettoso anche se, da sempre, si era dimostrato poco interessato allo studio.
Il 30 ottobre 1930 alle ore 8.13, proprio mentre si trovava a scuola a Senigallia, città in cui la famiglia si era trasferita, si verificò un violento terremoto che provocò 18 vittime, 140 feriti e distrusse molte case ed edifici pubblici, compreso il Comune e la scuola elementare. Da allora sviluppò fobia scolastica, rifiutandosi di seguire le lezioni e venendo punito per questo dal maestro in modo sempre più violento. Veniva accusato di essere svogliato, troppo chiuso e assente, di non socializzare e di non studiare. Gli veniva fatto notare che tutti gli altri alunni avevano sofferto per il terremoto, ma nessuno aveva mostrato uno scompenso emotivo così importante. Il padre, a casa, continuava le violenze di cui Giorgio veniva fatto oggetto a scuola, non accettando questo bambino così difficile e per molti versi fragile. Nello stesso periodo Giorgio iniziava a soffrire di enuresi notturna, probabilmente per le conseguenze del trauma. Già dall’età di sei anni iniziò a fare pratica con le armi, spesso utilizzando animali come bersagli, soprattutto oche, cani e gatti. In generale sin dall’infanzia si mostrava crudele verso gli animali, che non si faceva scrupoli di prendere a calci per osservarne indifferente le sofferenze.
Nel 1933, quando Giorgio aveva 11 anni, la famiglia si trasferì a Sarzana in seguito alla nomina del padre come direttore dell’ufficio del registro della città. I fratelli maggiori, chi per motivi di studio, chi per lavoro, non seguirono la famiglia, pertanto lui si trovò improvvisamente ad affrontare da solo le dinamiche di una famiglia evidentemente disfunzionale.
Diventato adolescente, prevedibilmente la situazione peggiorò moltissimo, con altre incomprensioni e punizioni, schiaffi e cinghiate, sia dai professori che dal padre.
Tra i 13 e i 14 anni con la pubertà crebbe molto in fretta, ma divenne sempre più agitato e insoddisfatto, sviluppando un carattere molto chiuso e irritabile. Lo studio gli procurava una vera e propria sofferenza fisica.
Cominciò a frequentare una palestra sportiva e nel giro di circa due anni diventò vigoroso e atletico; forte della sua esperienza con le armi sin dalla più tenera età, continuò a coltivare questa passione allenandosi e vincendo piccole gare di tiro a segno. Diventò molto abile anche nell’apportare modifiche e migliorie a pistole ormai inattive, abbandonate, considerate inutilizzabili. Si confezionava da solo le cartucce.
Prese possesso della cantina di casa che trasformò in una sorta di laboratorio chimico: si dedicò a esperimenti per ottenere la nitroglicerina, distillava alcool e preparava liquori al limone, bevendo giornalmente senza che nessuno se ne accorgesse. Imparò a deviare la corrente elettrica ad alta tensione, dal tetto della propria casa sino in soffitta riuscendo ad ottenere l’arco voltaico, che usava per saldare tubi metallici, migliorare e riparare le sue armi o anche solo per godere dello spettacolo delle fiammate.
Pur non amando lo studio, leggeva però molti libri, da Jack London a Tolstoj, a Dostoevskij, mostrando grande ammirazione per i protagonisti dei romanzi: sognava viaggi, ricchezze, avventure favolose. Il suo idolo era però un personaggio reale, Al Capone.
Finite le scuole medie, all’età di 14 anni, il padre, contrariamente a ogni logica, data la scarsa voglia di studiare di Giorgio e la sua refrattarietà all’autorità, lo iscrisse al primo anno di ginnasio in un importate istituto religioso di Sarzana, il Collegio delle Missioni, ben conosciuto per la severità e l’intransigenza degli insegnanti. Probabilmente fece questa scelta nella speranza che un intervento educativo molto incisivo lo rendesse un ragazzo più gestibile nel presente e un uomo migliore in futuro. Vizzardelli cominciò così a frequentare le scuole superiori e il doposcuola, ma continuò ovviamente a studiare poco e a manifestare un atteggiamento di sopportazione e arroganza non gradito agli insegnanti del Collegio.
Il Collegio aveva sede in un grande edificio del ‘700 di cinque piani, alla periferia della città e dalle sue ampie finestre si godeva la vista di tutta la città di Sarzana e la vallata del Magra.
I ritmi di vita che il Collegio imponeva ai ragazzi erano molto rigorosi, sin dalla sveglia al mattino, alle 5.30, con impegni precisi e articolati sino alle 21.30, l’ora in cui ciascun collegiale doveva ritirarsi nella propria camerata per dormire.
La gerarchia presente all’interno della struttura era quasi di tipo militare: il comandante
era il Rettore, all’epoca un giovane uomo di 34 anni, don Bernardelli dell’ordine di San Vincenzo de’ Paoli, dalla casa madre di Torino, che ricopriva quell’incarico da tre anni. Immediatamente alle sue dipendenze c’erano i prefetti, poi i responsabili di vari servizi (per esempio l’economo), educatori, assistenti, e personale addetto a mansioni più umili.
I giovani ospiti appartenevano alle famiglie benestanti di Sarzana e provincia.
1%20collegio%20missioni.jpgIl Rettore del Collegio delle Missioni, all’epoca, rivestiva un ruolo di potere anche nella città, e don Bernardelli mostrava di trovarsi estremamente a proprio agio nell’essere un punto di riferimento non solo religioso ma anche, in