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Se mi cadesse un aereo sulla testa: Sogni, passioni, sudori e fatiche di un cronista di periferia "...e poi dicono che fare il giornalista è sempre meglio che lavorare"
Se mi cadesse un aereo sulla testa: Sogni, passioni, sudori e fatiche di un cronista di periferia "...e poi dicono che fare il giornalista è sempre meglio che lavorare"
Se mi cadesse un aereo sulla testa: Sogni, passioni, sudori e fatiche di un cronista di periferia "...e poi dicono che fare il giornalista è sempre meglio che lavorare"
E-book175 pagine2 ore

Se mi cadesse un aereo sulla testa: Sogni, passioni, sudori e fatiche di un cronista di periferia "...e poi dicono che fare il giornalista è sempre meglio che lavorare"

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Info su questo ebook

Questa è una piccola storia fatta da tante piccole storie che ogni giorno - il giornalista Giuseppe Martorana - ha raccontato nel suo quarto di secolo di giornalismo; storie che parlano di omicidi, rapine, stupri, fino ad arrivare ai processi, dai quasi insignificanti a quelli che hanno segnato la storia d'Italia. Storie a volte solite e banali a volte importanti e difficili, ma tali da rappresentare uno spaccato di vita. Un interessante excursus su quello che è successo in questi ultimi anni. Cosa è successo in una terra che potrebbe essere uguale a tante altri. Raccontare i fatti, soprattutto quelli drammatici, potrebbe essere uguale dappertutto. Un omicidio, una strage, sono uguali a Caltanissetta, come a Palermo, come a New York come in Iraq. La morte è morte. Ma anche gli episodi cosiddetti «leggeri» sono più o meno uguali in ogni parte del mondo. E allora i fatti raccontati da questo pezzetto di Sicilia possono essere raffigurati in ogni altra parte del mondo: il dramma e la gioia sono uguali dappertutto.
LinguaItaliano
Data di uscita20 feb 2015
ISBN9788882433628
Se mi cadesse un aereo sulla testa: Sogni, passioni, sudori e fatiche di un cronista di periferia "...e poi dicono che fare il giornalista è sempre meglio che lavorare"

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    Anteprima del libro

    Se mi cadesse un aereo sulla testa - Giuseppe Martorana

    Cronista di periferia

    Ho tagliato il traguardo delle nozze d’argento con il Giornalismo. Venticinque anni trascorsi quasi tutti in provincia, tra cronaca nera e giudiziaria, con una parentesi davanti al desk (anche se prima ho usato righello, carta e pennarello per disegnare menabò e scrivere titoli con la macchina da scrivere).

    Anni di Giornalismo quasi tutti in provincia, e in una delle province più disgraziate, una di quelle dove non passa giorno che inciampi in una notizia. Da giornalista dovrei essere contento, eppure.

    Anni fa lessi cosa pensava della notizia Vittorio Orefice (alcuni lo ricorderanno con il suo papillon davanti ad una foto di Montecitorio, dagli schermi della Rai) e anche se potrebbe fare ribrezzo, mi ci ritrovo appieno. Orefice diceva: «Se mi trovassi in vacanza al mare, su una sdraio sotto un ombrellone e con una bibita fresca accanto e vedessi passare sopra di me un aereo il primo pensiero sarebbe: se cadesse proprio qua, vicino a me, sarei il primo ad avere e quindi a poter dare la notizia».

    Ebbene anch’io (non mi si voglia male per questo) condivido il pensiero di Vittorio Orefice. Non voglio, è naturale, la morte di nessuno, ma amo la notizia. Eppure. Già eppure. Dovrei essere contento di avere una notizia da proporre, ma ogni volta è un dramma. Un mio collega più anziano e quindi più esperto, anni addietro con forte accento palermitano ad una redazione riunita non ricordo per cosa disse a gran voce: «Curnutu cu porta ’na notizia».

    Tutti ridemmo, io non ci riflettei su, ma lo feci anni dopo quando mi ritrovai ad essere io il cornuto che porta la notizia. Non è facile trovare una notizia, di quelle che si possono chiamare con la N maiuscola, ma poi devi fare fronte alle grandi difficoltà che comporta avere una notizia e volerla divulgare.

    Faccio del danno a qualcuno? Questa è la prima domanda che deontologicamente mi pongo e superato lo scoglio cerco di capire se e a chi può interessare. A quel punto tutto dovrebbe essere semplice, ma è solo una speranza. Devi farla capire al «superiore» di turno, far sì che non si perda tra le tante notizia (con la n minuscola) che ogni giorno riempiono le redazioni dei giornali e poi sperare che nel Giornale abbia una collocazione visibile, perché ormai è diventato semplice nascondere le notizie. C’è chi ci riesce benissimo.

    Qualche anno fa il luogo comune del mestiere di giornalista era «è sempre meglio che lavorare». Lo si ripeteva in tutte le salse ma per me era una frase fastidiosa. Fare il giornalista per me non è mai stato il sogno utopico di viaggiare per il mondo, andare in posti che altrimenti avrei visto solo in cartolina o per chi si occupa di sport assistere alle più importanti gare mondiali. Fare giornalismo per me è semplicemente (?) raccontare ciò che so o che vedo, null’altro.

    Ad alcuni universitari della facoltà di scienze della comunicazione che mi chiedevano alcune informazioni per la loro tesi di laurea ho detto sorridendo «ma chi ve lo fa fare, cambiate mestiere finché siete in tempo», ma sorridevo appunto. Nonostante tutto, nonostante i «superiori», nonostante le «notizie nascoste o mai date» io rifarei tutto quello che ho fatto. Il giornalista è il mestiere più bello del mondo e un sogno al quale non si può rinunciare e malgrado tutto io resto un sognatore.

    Ma il mestiere ha anche i suoi rischi. Il più pericoloso è il buco. Già il buco. Cos’è il buco per un giornalista?. Un giornalista al suo direttore che lo aveva encomiato per avere «dato un buco» gli rispose scrivendo: «Il buco è un fatto occasionale, a volte si prende a volte si da».

    Il buco. Già il buco a volte può divenire una ossessione, una paura costante, un tarlo dentro che non ti fa stare tranquillo. Altre volte può essere gioia, soddisfazione, appagamento. Naturalmente il primo caso è quando si prende, il secondo è quando si da. Ma cos’è il buco?. Giornalisticamente è una notizia che un giornale ha e un altro, o tutti gli altri non hanno. «Ho dato un buco ai colleghi» è l’espressione che usa un giornalista allorquando la mattina, aprendo i giornali, si accorge che la notizia che lui ha scritto altri non l’hanno. Il buco, quindi, diventa determinante nel lavoro giornalistico. Determinante perché se lo dai acquisti meriti, a volte prestigio, per la maggior parte dei casi solo soddisfazione personale. Se lo prendi, invece, l’amarezza, il dispiacere, per la maggior parte dei casi la «cazziata» da parte del tuo superiore.

    Ebbene, chi lavora in periferia con il buco deve conviverci quotidianamente, molto di più di chi lavora nelle redazioni cosiddette «centrali». In queste ultime redazioni si è in molti e il «mal comune mezzo gaudio» vale eccome. Non così in periferia dove, a volte, ti ritrovi da solo a contrastare il concorrente, l’avversario, il nemico. E allora la mattina quando passi dall’edicola a prendere la mazzetta dei giornali ti trasformi in giocatore di poker. Prendi i giornali concorrenti e cominci ad aprirli come si aprono le cinque carte da poker. Piano piano, pagina per pagina, cominciando dai titoli e dai «richiami» della prima pagina. Se quest’ultima l’hai superata indenne tiri un sospiro di sollievo, se superi anche le pagine nazionali e regionali allora il sospiro diventa una bella boccata d’ossigeno, se poi anche nelle pagine locali non ci sono «buchi» allora la giornata comincia per il verso giusto. In caso contrario la mazzata sul collo è proporzionale alla grandezza del buco. Più il buco è grande (la notizia è importante) più la mazzata che ti arriva rischia di lasciarti sdraiato per terra per l’intera giornata e forse anche oltre.

    Ci sono giorni, però, che la mazzata arriva per i tuoi «avversari» e allora ti attendi che qualcuno ti chiami, si complimenti con te, ti dia atto di ciò che hai saputo fare invece, per lo più delle volte il telefono resta muto. E allora sei tu che ti riguardi il giornale e ti fai i complimenti da solo. Ma non basta. Poi, il giorno dopo, chiedi al tuo edicolante di fiducia come è andata il giorno prima, se il giornale si è venduto, se i lettori hanno fatto commenti e in base alle sue risposte anche quest’altra giornata che sta per cominciare assume l’aspetto in sintonia con il tuo umore. Ma è la vita. La vita è così. E poi che ci lamentiamo noi giornalisti. C’è quel vecchio detto che gira per le redazioni da anni, senza incontrare ostacoli, anzi con un sorrisetto di compiacimento di chi lo dice e di chi lo ascolta che fare il giornalista è sempre meglio che lavorare.

    Se io incontrassi chi ha inventato questo detto saprei cosa fargli.

    Nel mio quarto di secolo di giornalismo, di giornalista di periferia ho scritto tanto, di tutto e di più, si potrebbe dire. Omicidi, rapine, stupri. E poi ancora processi, dai quasi insignificanti a quelli che hanno segnato la storia d’Italia. Ma anche fatti di folklore, di quelli che nei giornali vengono definiti di colore e poi ancora sport, politica e quant’altro ancora. Proprio di tutto e di più.

    Una piccola storia la mia fatta da tante piccole storie che ogni giorno ho raccontato. A volte solite e banali a volte importanti e difficili. Ma penso che tutte queste storie che hanno segnato la mia attività professionale potessero rappresentare uno spaccato di vita. Un interessante excursus su quello che è successo in questi ultimi anni. Cosa è successo in una terra che potrebbe essere uguale a tante altri. Raccontare i fatti, soprattutto quelli drammatici, potrebbe essere uguale dappertutto. Un omicidio, una strage, sono uguali a Caltanissetta, come a Palermo, come a New York come in Iraq. La morte è morte. Ma anche gli episodi cosiddetti «leggeri» sono più o meno uguali in ogni parte del mondo. E allora i fatti raccontati da questo pezzetto di Sicilia possono essere raffigurati in ogni altra parte del mondo: il dramma e la gioia sono uguali dappertutto. Io ho provato a raccontare quelli miei. Ho fatto una cernita, scegliendone alcuni escludendone altri. Una scelta fatta per amore e per spazio. Spero che venga apprezzato.

    Paolo Borsellino

    una verità ancora nascosta

    Comincerò con Paolo Borsellino. Non è una scelta casuale, ma un omaggio alla persona che ho più ammirato durante il mio lavoro di cronista. Ho seguito sin dall’inizio la storia processuale della sua uccisione, della strage che venne compiuta per ucciderlo e che assieme a lui strappò alla vita cinque dei suoi agenti di scorta. Seguii, per conto del mio Giornale, il primo processo, poi quello definito bis e poi ancora il ter e poi i processi di appello sino alle sentenze della Cassazione. Una storia lunga. Lunga sedici anni, ma che non ha ancora portato ad una verità vera. Conosciamo i nomi dei macellai di via D’Amelio, di chi organizzò la strage, di chi la esegui, ma molti aspetti sono ancora oscuri, compresi quelli che riguardano i veri mandanti della strage.

    Tra i miei tanti articoli su quella vicenda ho scelto questi che ora vi propongo.

    Corsa contro il tempo

    Paolo Borsellino sapeva che la sua era una corsa contro il tempo; continuava a ripeterlo in famiglia, ai propri collaboratori più stretti, lo ripeteva a se stesso mentre passava la notte a rileggere i suoi appunti. Sapeva, Borsellino, che dopo Falcone era lui che cercavano i killer di Cosa nostra; l’uomo che, morto Falcone, era l’unico a conoscerne i segreti e le confidenze; il solo destinato a ricoprire senza polemiche il delicato incarico al vertice della nuova Procura Nazionale Antimafia; l’unico in grado di scoprire mandanti, esecutori e moventi della strage di Capaci; l’unico in grado di decifrare quanto stava accadendo in quel momento nel nostro Paese, con uno sguardo a Tangentopoli ed uno ai manovali della criminalità mafiosa. Proprio perché era l’unico, lo uccidono il 19 luglio del 1992, alle ore 16.55, con un’auto-bomba collocata in via D’Amelio a Palermo, davanti alla portineria dell’edificio in cui vivono sua sorella e sua madre. L’ordigno esplode massacrando il magistrato e cinque dei sei agenti che gli fanno da scorta: Claudio Traina, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli e Eddie Walter Cusina. Tutt’intorno quattro edifici semicrollati, feriti, distruzione, terrore e 113 famiglie rimaste senza casa. Il corpo martoriato di Borsellino viene riconosciuto solo due ore dopo dal giudice Giuseppe Ayala; degli altri corpi, i soccorritori giunti sul posto fanno pietosa raccolta dei resti disseminati nel raggio di oltre cinquecento metri. Nella notte, viene disposto il trasferimento dei boss mafiosi presso le carceri di Pianosa e dell’Asinara; contestualmente, viene disposto l’invio in Sicilia di settemila soldati dislocati nei centri a più alto rischio. Inizia l’operazione «Vespri siciliani», che per quasi sei anni vedrà impegnate le truppe dell’esercito nel presidio del territorio siciliano. La nuova strage esaspera gli animi e provoca la reazione rabbiosa di numerosi cittadini. La sera stessa dell’eccidio un corteo spontaneo si dirige verso la Prefettura e la prende d’assedio. L’auto del Prefetto è costretta a sgommare tra gli insulti e i calci. I funerali si trasformano in una manifestazione di piazza contro i vertici dell’ordine pubblico; ne fa le spese anche il capo della polizia Parisi, preso a schiaffi in mezzo alla folla, alla fine della celebrazione religiosa. Pochi giorni e vengono trasferiti il Questore Vito Plantone e, successivamente, il Prefetto Mario Jovine; mentre - travolto dalle polemiche e dalle accuse dei suoi sostituti - si dimette il Procuratore della Repubblica Pietro Giammanco. Così come nel caso della strage di Capaci, anche per la morte di Paolo Borsellino e degli uomini della sua scorta, nonostante le numerose inchieste passate al vaglio dei giudici di merito, non sono ancora chiari numerosi aspetti emersi dalle indagini. In particolare, restano da individuare

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