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Mondiali 1982. La rivincita: Dalla polvere alla gloria: il trionfo dell'Italia
Mondiali 1982. La rivincita: Dalla polvere alla gloria: il trionfo dell'Italia
Mondiali 1982. La rivincita: Dalla polvere alla gloria: il trionfo dell'Italia
E-book311 pagine4 ore

Mondiali 1982. La rivincita: Dalla polvere alla gloria: il trionfo dell'Italia

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Info su questo ebook

Un allenatore contestato, solo contro giornali, tv e opinione pubblica. Il re del gol appena uscito dal gorgo del calcioscommesse. Un capitano di quarant’anni tra i pali. Enzo Bearzot, Paolo Rossi, Dino Zoff: dalla polvere alla gloria, il Mundial di Spagna del 1982 segna la loro rivincita. La rivalsa dell’Italia. Il riscatto di un gruppo che, isolatosi dal mondo esterno, porta a termine un’impresa sportiva memorabile, ribaltando ogni pronostico. Un cammino cominciato male, tra i veleni, nel girone di qualificazione di Vigo: tre pareggi, nessuna vittoria. Poi il silenzio stampa e il trasferimento a Barcellona: la cavalcata contro Argentina, Brasile e Polonia, quindi il trionfo nella notte magica di Madrid. Un successo straordinario che simbolicamente è racchiuso nell’urlo di Marco Tardelli al gol del 2-0 sulla Germania: rabbia e gioia insieme all’ennesima potenza. Liberate nell’estate più dolce della nostra vita.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita6 nov 2020
ISBN9788836160563
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    Anteprima del libro

    Mondiali 1982. La rivincita - Francesco De Core

    PROLOGO

    Libero di volare

    Dicono che ho un portamento nobile perché gioco sempre con la testa alta. Guardo. Guardo oltre. Me lo hanno insegnato da bambino. Non fermarti a quello che accade attorno a te. Spazia. Prevedi. Non avere paura.

    No, non ho paura. Neanche stavolta.

    Dicono che sono un buon libero perché capisco prima dove va il pallone. Come un sesto senso. Intuisco. E mi posiziono. Colgo l’attimo che precede. In quelli successivi ho già la palla tra i piedi. Gli altri che giocano sono fuori traccia. Io, il registro, lo scrivo; gli avversari lo leggono soltanto.

    No, non ho paura. Neanche stavolta.

    Dicono che parlo raramente. E hanno ragione. Che mi vergogno un poco. E hanno ragione. Che ho un carattere chiuso. E hanno ragione. Ma sono un ragazzo tranquillo, socievole, educato. Non ho pensieri feroci. Ho dentro il gusto della mia terra, che è antico, saldo, fermo come un rosso di quelli che non si agitano. I rossi corposi della mia cantina.

    No, non ho paura. Neanche stavolta.

    So che sto giocando una finale mondiale. So che capita una volta nella vita. So che mi posso fidare dei miei compagni. E loro si fidano di me. Qualsiasi cosa io possa fare, o dire, loro si girano, mi osservano, ci contano. La magia di una squadra, in fondo, è solo questa. Altri segreti non ne conosco. E niente trucchi, niente inganni.

    No che non ho paura, neanche stavolta che Breitner si allunga, con lentezza e vanamente, a cercare la palla che gli sfugge. Rossi lo contrasta, ma il pallone è mio, in anticipo, non è un gioco di prestigio, non ho la calamita, so soltanto dove stare quando è il momento.

    Alzo la testa, come sempre. Il campo si apre. Non ho nessuno davanti. Sono un libero, che è una bella definizione per il ruolo di colui che vaga, in difesa, a tappare falle improvvise, chiudere varchi, desumere pensieri altrui, percepire le traiettorie che saranno. Il portiere ha i pali come riferimento, ha una casa dove muoversi, il libero no. Non ha un posto fisso dove stare, rimedia agli errori di altri, è come l’acchiappatore nel campo di segale che salva i bambini dal burrone, the catcher in the rye, e quel libro di Salinger non lo dimentico. Anche io, a modo mio, sono Holden.

    Libero come Holden. Libero di varcare il mio confine. Libero di oltrepassare. Un libero che non fa il libero.

    Avanzo, sì. Palla al piede. Mi sento gli occhi addosso. Avverto una strana sensazione, un brusio come quando giocavo all’oratorio. Nel cerchio di centrocampo lascio la palla a Conti. Ma non torno indietro. Che bello stare un po’ all’ala destra, defilato. Bruno rallenta, Rossi gli sfila il pallone e viene verso di me. Me lo passa. Indugio e poi lo colpisco di tacco per Bergomi, un altro intruso.

    No che non ho paura a colpire la palla di tacco. Non sono Socrates, ma adesso il brasiliano è a casa, magari davanti alla tv o forse in un bar con gli amici, e io sono qui per vincere la coppa. Non è proprio la stessa cosa. E poi questo tacco mi riesce bene, anche se ho le scarpette sfondate, quelle del primo giorno di Vigo. Lo Zio si sbarazza della palla e mi coglie di sorpresa, a un soffio dal fuorigioco. Faccio tutto con semplicità. A testa alta. Ho Stielike davanti, ma è come se fosse trasparente. Sulla lunetta s’agita la sagoma di Tardelli. Lo innesco con un passaggio tagliente, preciso, inatteso. Forse anche per lo stesso Marco. Che controlla male, ha un incerto stop a uscire, ma poi s’allunga e con il sinistro traccia la parabola più bella, una roba mai vista in vita mia.

    Marco vola urlando, io resto lì. Mi guardo intorno. La felicità fuori, irrefrenabile; la pace dentro di me.

    No che non ho paura. Sono sereno. Sorrido.

    Mi chiamo Gaetano Scirea, libero di vivere la vita e il calcio per come sono. Sì, un uomo nel campo di segale, e salvo me salvando gli altri senza fare rumore. Da campione del mondo.

    PRIMA PARTE

    Il Vecio e l’Argentina

    Il Mondiale di calcio del 1982, nella Spagna rinata dalle ceneri del franchismo e recuperata alla democrazia con partecipazione popolare, per l’Italia ha radici lontane. Nel tempo e nello spazio. C’è un fil rouge che ci riporta quattro anni addietro, a un anno, il 1978, che ha avuto esiti e risvolti politicamente drammatici quando non nefasti, e a un Paese, l’Argentina, che nella festa di popolo per il successo sportivo decretava con orrore la fine della sua gioventù migliore, che sparì inghiottita nelle carceri del generale Videla o in fondo del mare. 

    Ma il 1978 del calcio è azzurro per davvero, quando nessuno credeva potesse diventarlo. A sperarlo, semmai, solo un allenatore dalla faccia di pugile, con un naso devastato da tre fratture in campo (di cui due provocate dai compagni di squadra) con un passato calcistico non particolarmente rilevante tra Catania, Inter e soprattutto Torino. Una sola presenza in Nazionale, da mediano con spiccata propensione alla difesa, cui toccò la marcatura nientemeno che del mitico Puskas, nell’incontro con l’Ungheria nel 1955: sconfitta per 2-0, gol di Puksas, naturalmente, che all’epoca non risparmiava nessuno. Compreso Enzo Bearzot, classe 1927, da Aiello del Friuli, a pochi chilometri dalla (ex) Jugoslavia. Con il pallone non una grande confidenza se non per un senso tattico fuori dal comune. E soprattutto con quella faccia un po’ così e quel naso «tenuto come una specie di medaglia se non al valore perlomeno al coraggio».

    Coraggio, vero. Non solo quello manifestato sul campo di gioco. Ma anche con la tuta da allenatore. È di poche cerimonie, Bearzot, figlio di una terra di confine, abituato alla concretezza del sacrificio e al buon uso, parco, delle parole; ma uomo pure di letture importanti, che lo segnano e lo aiutano ad attraversare momenti complessi, e di una tenacia che rasenta la testardaggine. Per un tipo così, tutto di un pezzo, un po’ burbero a mascelle serrate ma capace di spalancare sorrisi dolci e confortanti, contano le esperienze umane: i volti, le espressioni, i modi di essere, i valori, il senso di appartenenza, la filosofia quotidiana che si traduce in gesti mai banali. E poi, sì, il calcio: e con il pallone la tecnica, la tattica, tutto il bagaglio necessario per costruire una squadra degna di tal nome, perché è anzitutto il collettivo che si deve creare ed è dal collettivo che passano le vittorie. Un mantra, un modo di leggere lo sport filtrato dalla vita. Perché Bearzot pesa prima l’uomo: il suo sguardo, la sua moralità. È fatto così, ha appreso la lezione di Nereo Rocco, che lo volle accanto a sé nell’ultimo anno con la maglia granata, passato dalle botte dei novanta minuti non più fisicamente sostenibili a prendere lezioni dal paròn persino di osteria, di buon vino e di buon cibo. Scuola di vita.

    Un anno in panchina al Prato, in C, e poi i ranghi federali, dal 1969 con l’Under 23 fin dentro gli ingranaggi azzurri, a cominciare una carriera che lo porterà lontano e che, però, avrebbe potuto conoscere una brusca interruzione. Nel Mondiale del 1974 in Germania, da assistente di Ferruccio Valcareggi, in una delle peggiori esibizioni di un’Italia con i suoi campioni al capolinea, da Riva a Rivera tra gli altri, Bearzot è forse l’unico che conserva una sua integrità nello sfacelo. Tanto che lo scrittore Giovanni Arpino gli ritaglia un ruolo da protagonista nel romanzo Azzurro tenebra: Bearzot è il Vecio, e vecio Bearzot resterà per sempre, un calco che dalla letteratura scende per i rami dell’esistere fino a farsi carne, ossa, maschera. «Il Vecio scosse la mutria, rassegnato. Sembrava triste, ma se appena scopriva i denti in un sorriso, ecco che poteva incutere paura. In quell’attimo il volto, pur buono, avrebbe allontanato qualsiasi bullo da caffè: un calcio, durante lontane risse in area di rigore, aveva schiacciato il setto nasale del Vecio, che ora ostentava la maschera sorniona d’un pugile in guardia perenne». Ritratto magistrale.

    Arpino fu bearzottiano ante litteram, e non ne fece mistero, tra la finzione narrativa e i reportage dalla Spagna. Un’amicizia duratura, fatta di giochi e battute, di rimandi letterari e di poemi epici, di cose terribilmente serie e di calcio, naturalmente, conversazioni lunghe come la notte che non si esauriscono agli schemi e alle posizioni in campo, tutt’altro, ma che privilegiano in ogni sfumatura, in ogni dettaglio, anche minimo, l’essenza del giocatore, ciò che porta con sé oltre i piedi. Perché è di uomini che con il Vecio si discute e ci si accapiglia, e perché è di uomini che sono fatte le storie, non di numeri. Un’amicizia, la loro, più profonda di quanto lo sia quella con Gianni Brera, che pure si ricrederà – come tutti o quasi – sul bearzottismo come scienza calcistica prima ancora che sulla integrità della persona, peraltro mai in discussione.

    Chi è realmente Bearzot lo capisce meglio di tutti, appunto, il magister Arpino. Che in un gioco di specchi, riproduce il loro legame, viscerale e solidale, mescolando la realtà e la finzione con la sapienza del narratore e la passionalità dell’amico.

    Perché noi del football siamo tanti e siamo soli, inseguiva una sua immagine il Vecio.

    «La nostra solitudine è la nostra nobiltà. La nostra solitudine è la nostra gioia», fu felice di pescare nella memoria Arp: «Lo ha detto uno dei pochi italiani di sangue gelido, cioè vero. Infatti era mezzo greco e mezzo parigino».

    «Chi?» incuriosiva il Vecio.

    «Savinio. Uno che non badava ai nemici. Come dovrai fare tu. Se non avrai nemici significherà che hai sbagliato tutto».

    «Caffè?» indicò un’insegna il Vecio.

    «Naturale».

    Non badare ai nemici, consigliava Arp al Vecio nel 1977, anno d’uscita di Azzurro tenebra. Di nemici se ne sarebbe fatti tanti, tantissimi, troppi, il buon Bearzot. Sarebbero cresciuti a misura d’esercito nel giugno del 1982, per diventare tal quali adulatori zelanti e concavi nel giro di un mese, nella festa eccitata d’un Paese ubriaco di gol. Da cretino a eroe in trenta giorni, esemplare parabola italiana. Una dismisura etica (e persino, di rimando, estetica) che renderà il Vecio ancor più diffidente, obbligandolo a calcolare la distanza tra sé, il suo mondo chiuso ma denso e ricco, e tutto quanto il resto, fatto di gloria fittizia e di lucidi piedistalli, dai quali è semplice tanto salire quanto scendere.

    All’elevazione del successo, come a repentine cadute di reputazione, Bearzot aveva già fatto discreta abitudine dopo il Mondiale tedesco del 1974, peraltro vissuto non in trincea ma nelle più coperte e meno insidiose seconde linee, che gli preclusero – buon per lui – la pioggia (anche) di fuoco amico che cadde copiosa sull’intera spedizione.

    Nel 1978 in Argentina la sua giovane Italia, bella come può esserlo una ragazza impertinente, persino incosciente della sua avvenenza, gioca il miglior calcio del torneo, con leggerezza e senso di libertà dovuti anzitutto al fatto di non sentirsi squadra favorita. Ma la mano di Bearzot c’è, eccome, al di là delle contingenze e della gioia persino impertinente di alcuni protagonisti non reclamati, primi fra tutti Antonio Cabrini, di anni venti, e Paolo Rossi, di ventuno, che marchieranno per sempre la loro splendida carriera con il sigillo del Vecio, a partire appunto dai giorni di Mar del Plata e Buenos Aires.  

    Quel gruppo possiede lo stigma di un calcio che Bearzot ha saputo miscelare con sapienza e intuito, evidenziando una raffinatezza tattica che molti, con insolenza pari a snobismo, avrebbero scambiato per contraffazione di concetti altrui se non per semplice fortuna. E invece il Vecio, che il calcio lo studia metodicamente, sa rinnovare i concetti di base ereditati dall’esperienza e dalla tradizione tecnica azzurra, che si evolve da Pozzo a Rocco e Valcareggi, con le folate rivoluzionarie di altre scuole.

    Ci sono una data e un’occasione che Bearzot segna sul taccuino di cittì consapevole del suo ruolo – in un Paese di milioni di commissari tecnici da bar –, e che dà la stura alla nuova carriera, con i picchi (di gioco) del ’78 e (di risultati) dell’82: maggio 1976, torneo del Bicentenario negli Stati Uniti. Enzo fa ancora coppia in panchina con Bernardini, ma è chiaro che l’allenatore che dalla transizione uscirà con i galloni del tecnico unico sarà lui. Il vento dell’Olanda di Cruijff soffia impetuoso, e dove arriva pare rendere vecchio e stantio un calcio che fin lì sembrava intramontabile nei suoi capisaldi, e quindi incorreggibile nella sua struttura di base.

    I risultati, per l’Italia, sono tutt’altro che esaltanti: dopo una vittoria per 4-0 sulla Selezione Usa, arrivano due sconfitte, la prima di misura contro l’Inghilterra (3-2), la seconda più netta con il solito Brasile (4-1). Molti volti nuovi, un progetto di squadra che diventerà impianto solido non più di cinque mesi dopo, quando l’Italia si rifarà sui leoni inglesi a Roma, partita decisiva per le qualificazioni ad Argentina ’78: 2-0 all’Olimpico, con un solo cambio nella formazione iniziale, Bettega al posto di Pulici.

    Bearzot è un uomo di strategia, non di tatticismi esasperati. Di idee solide, non di sogni evanescenti. Quella Nazionale nata nei giorni americani sarà l’impalcatura destinata a reggere fino all’82.

    Dopo una lunga serie di viaggi di studio, con i conseguenti approfondimenti, pensavo di prendere dal calcio olandese, che in quegli anni era all’avanguardia nel mondo, il principio di privilegiare i polivalenti. Noi in Italia eravamo rimasti agli specialisti, in tutti i ruoli, soprattutto in ambito di Nazionale. All’estero invece erano andati avanti, e s’incontravano sempre più spesso certi tipi di giocatori mai visti prima, capaci di rendersi utili alla squadra in ogni zona del campo e in ogni fase della partita. Ma poiché il modello tattico olandese, nel suo complesso, era un po’ troppo avanzato e secondo me scarsamente adattabile alle nostre caratteristiche, pensai che il modulo di riferimento iniziale poteva intanto essere quello polacco, che era certamente moderno ed efficace, come i mondiali di Germania avevano dimostrato ma meno spregiudicato. Diciamo una tappa intermedia di una non più differibile modernizzazione.¹

    La terza via polacca che Bearzot imbocca ha la sua sliding door il 5 giugno del 1976. Coltivarla o abbandonarla. Esserne convinti oppure rigettarla. Trascinare i calciatori – e i vertici federali – dalla sua parte oppure arrendersi all’evidenza di un calcio, quello italiano, irriformabile tatticamente. Rigido, strutturalmente legato al catenaccio e alla forza dei singoli, con poche – e non sempre praticabili – variabili nel campionato italiano.

    Stadio San Siro, c’è la Romania nell’amichevole che chiude la stagione. In quei giorni, il Vecio si fa persuaso che quella soluzione non è un compromesso al ribasso, anzi, ma una variabile che mette in risalto le doti tecniche di una generazione più aperta e meno dogmatica: l’onda orange aveva cancellato un mondo con la sfrontatezza della generazione postsessantottina e ne aveva già ricreato un altro, dilatando i confini della fantasia, il perimetro del campo ridisegnato da altri schemi, da altre direttrici. Non prenderne atto era mossa di somma quanto inutile presunzione. Ora, non è una questione di mode da assecondare, praticandole superficialmente, ma di un sistema da ricomporre plasmando elementi vecchi e nuovi. Bearzot ne parla ai ragazzi. «Ho spiegato loro che genere di calcio avevo in mente, facendo presente che, se i risultati non fossero arrivati, sarei stato io a rischiare di più». Ci mette la faccia, il Vecio. E apre l’ombrello: sarà tempesta se le cose non andranno per il verso giusto, se l’Italia deluderà, se le sconfitte si assommeranno lungo il cammino, se chi deve rispondere – i giocatori anzitutto – lo abbandoneranno per mancanza di fiducia e di condivisione. Ma quel 5 giugno deve prendersi un rischio. Percorrere la strada meno battuta.

    San Siro, che è stadio di tifo raffinato, inizialmente disapprova infastidito: male il primo tempo, che si chiude sullo 0-0. Ripresa consolante: quattro reti – Graziani, Antognoni e doppietta di Bettega, subentrato nella ripresa – e manovra che si scioglie ariosa. I fischi diventano applausi, il 4-2 finale è la firma attesa dal Vecio sul nuovo patto, il clima di ostilità resiste nella critica giornalistica ma si scioglie pian piano nell’ambiente. Il gioco e i risultati sono un balsamo, Bearzot può lavorare seguendo un sogno che diventa idea concreta. E soprattutto praticabile.  

    Il 5 giugno del 1976 è la vera alba dell’era Bearzot. Il nucleo è juventino, perché il Vecio pensa che il blocco sia determinante, fondamentale l’intesa umana prim’ancora che quella tecnica. Ai valori della persona affida le chiavi dello spogliatoio, è dai legami personali che si costruiscono le vittorie, non solo dai dribbling. La corsa verso il mondiale tanguero ha un suo inciampo, a Londra, con l’Inghilterra che si impone per 2-0, e cinque vittorie: Lussemburgo-Italia 1-4, Italia-Inghilterra 2-0, Finlandia-Italia 0-3, Italia-Finlandia 6-1, Italia-Lussemburgo 3-0. In classifica stessi punti degli inglesi (10), stessa differenza reti negli scontri diretti, ma primo posto conquistato per il divario di gol complessivi: +14 per gli azzurri, +11 per i bianchi.

    Non è un particolare statistico da poco, soprattutto non una circostanza fortuita: Bearzot aveva studiato a fondo i finnici. Aveva compreso che i giochi si sarebbero risolti proprio nel doppio scontro con la nazionale di Helsinki: questione di gol da mettere sul piatto della bilancia in caso di equilibrio massimo.

    Andai a vedere la Finlandia dappertutto, ogni volta che era possibile. E non era molto facile nascondersi, perché non c’era mai molta gente a quelle partite e finivano sempre per beccarmi. Arrivò un punto in cui mi vergognavo, mi sentivo come un guardone un po’ maniaco. Ma volevo sapere tutto di loro, perché nelle qualificazioni al campionato d’Europa, due anni prima, avevamo vinto 1-0 su rigore in Finlandia e pareggiato 0-0 a Roma. Ero certo che ripetendo quei risultati non avremmo timbrato il visto per l’Argentina. I fatti mi diedero ragione.²

    Nove le reti dell’Italia ai finlandesi, e una subita; sei quelle firmate dagli inglesi ai finnici, e due incassate.

    Anche nei dettagli, Bearzot è previdente e insieme ossessivo. Nulla lascia al caso, persino nel rischio. Calcolato sì, ma con margini che fanno fede del suo buon senso di uomo di frontiera.  

    Così, quando prende due ragazzi di vent’anni e decide di buttarli nella mischia più complessa che possa esserci, una vetrina mondiale dove manco un passaggio puoi permetterti il lusso di sbagliare, il Vecio non ci pensa su due volte. Antonio Cabrini e Paolo Rossi hanno l’età dell’incoscienza, la forza della giovinezza, la classe dei predestinati. E pure la copertura di un tecnico che pare nato vecchio, per l’espressione e la pazienza che manifesta, ma che sa quando è il momento di rompere equilibri ossidati dalla consuetudine.

    Il Mondiale in terra argentina è il palcoscenico che si sono presi senza chiedere permesso: sono figli di un calcio roccioso e strutturato, ma la loro è la traduzione moderna di un modo tutto nostro di contemplare il pallone, dall’oratorio alla serie A. Cabrini un terzino che sembra un’ala, di piede e di passo; Rossi un centravanti che il gol ce l’ha dentro, lo avverte da lontano, lo fiuta e lo materializza, evoluzione dell’attaccante a mezza strada tra Gerd Müller, Anastasi e Boninsegna.

    Cabrini, nato a Cremona, cresciuto nell’Atalanta e passato alla Juve di Trapattoni, debutta contro la Francia, a Mar del Plata, togliendo il posto a Maldera; Rossi, al centro di un clamoroso intrigo di mercato (per la metà del suo cartellino il presidente del Vicenza, Farina, lo paga due miliardi e 612 milioni, superando la Juve di Agnelli e Boniperti alle buste), è reduce da un campionato superlativo, marcato da 24 gol e dal secondo posto del Lanerossi, ed è quindi spinto stabilmente in azzurro – aveva esordito in azzurro nel dicembre 1977, a Liegi, Belgio-Italia 0-1 – a furor di popolo e di stampa: sarà il torinista Graziani a pagarne le conseguenze. Rossi e Bearzot: un legame inscindibile, duraturo. Esaltato dalle vittorie, ma reso forte, saldo, dai momenti difficili, bui, quelli del cono d’ombra di Pablito, dalle stelle alla polvere che verrà per l’ingiustizia subita con la sentenza del calcioscommesse. Solo un personaggio con la tempra di Bearzot avrebbe potuto recuperare la persona alla vita e il campione allo sport. Senza enfasi, senza giri di parole: varranno i sorrisi, e poi i ricordi.   

    In un Paese dilaniato dalla dittatura, dove le madri di Plaza de Mayo non sono ancora le nostre madri, partiti da un’Italia traumatizzata dall’assassinio di Moro sotto un cielo di piombo e di sangue, i ragazzi di Bearzot capovolgono l’immagine che abbiamo, salda e radicata, nel mondo. Per proiettarla ben oltre la chiusura degli anni Settanta, aperti da una finale mondiale contro il Brasile di Pelè, a Messico City, e dall’epopea di Italia-Germania 4-3: l’82

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