Il nipote di Rivera
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Anteprima del libro
Il nipote di Rivera - Michele Messina
Capitoli
Proprietà letteraria riservata
© 2014 Abel Books
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Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:
Abel Books
via Terme di Traiano, 25
00053 Civitavecchia (Roma)
ISBN 9788867521234
Al Macedone, a mio padre e ai miei figli
La copertina è stata realizzata da Domenico Donato
Prefazione
Michele Messina adora la parola scritta. Gli piace comporre storie, ama abbandonarsi alla fantasia, che è bussola curiosa, stravagante, impegnativa. «Il nipote di Rivera» attraversa la sua terra, le sue passioni, il suo piglio esplorativo. «Io mi sento come un giocatore senza panchina né tribuna, eternamente tra i non convocati alla partita, perché ci sarà sempre qualcuno che giocherà meglio di me»: ecco qua, fin dalle prime pagine, il ritratto dell’autore.
Il filo conduttore, di questa e di altre opere, è la Juventus, per la quale Michele prova un amore quasi tribale. Troverete lo stesso sentimento, rovesciato, nei confronti dell’Inter: al cuore, e alla pancia, non si comanda. L’io narrante corre dietro a un periodo che va dall’autunno del 1997 al giugno del 1998. Non credo che la scelta sia casuale. Fu, quella, la stagione del «rigore di Iuliano su Ronaldo», dei tanti veleni che intossicarono la volata tra la Juventus della Triade e l’Inter di Ronaldo. Lo scudetto, alla fine, premiò la Juventus. Messina è di parte, e lo urla. A volte esagera, ma non patteggia gli eccessi, non nasconde al lettore gli istinti, alti o bassi che siano.
Tra i personaggi che incorniciano il testo, spicca Marlene, un’ombra femminile che sta ai sentimenti di Michele come la Champions League ai triboli della Juventus. Anche negli attimi in cui tutto sembra filare per il verso giusto, la diffidenza accentua la differenza, e mai il contatto si consuma. I racconti di Michele sono bauli zeppi di musica, di panorami sudisti, di calcio sognato e sofferto. Vanno aperti con cautela: se scivolano di mano, si corre il rischio di essere sommersi da una montagna di lattine e di carta. Ci sono il Macedone e il Maggico, il Catanzaru e il Castrovillari. Il campionato di serie A, con le sue messe cantate, affianca la ribalta modesta ma fiera dei campi di periferia, là dove il pallone rimbalza per amore, scandendo gli esami e le pulsioni dei protagonisti.
Tutto si tiene, fra le righe, e ogni pretesto è buono per risalire la corrente del tempo, come, per esempio, l’anniversario della strage di via Fani e del rapimento di Aldo Moro. «Una birra, Marlene, La Juve... cosa vuoi di più»: sembrano stretti, gli orizzonti e i confini dello scrivano, e invece contengono praterie che si perdono a vista d’occhio, nell’anima e nelle arrampicate. E’ un diario, più che un romanzo, solcato da quella merce rara, rarissima, che è l’amicizia, di cui il «Cow Crazy Club», la banda della Mucca pazza, ne incarna l’allegro ping-pong.
Si vive alla giornata, nella «Macondo» di Michele, tra un’interrogazione all’università e dialoghi surreali, con Tex Willer e l’Uomo Ragno a segnare lo spirito del tempo: e delle mangiate, soprattutto. Prendete «Amici miei» di Mario Monicelli e trasportatelo in un lembo di Calabria, adeguandone i riti e i vezzi alla rustica spontaneità di una combriccola (di amici, naturalmente) che si parla addosso e dà schiaffi immaginari a passeggeri di treni non meno metaforici.
Su tutto e su tutti, «lei»: Marlene. Sequestrata da Lud, dribbla «lui», lo spasimante narratore, come se fosse un terzinaccio di periferia. Gli fa una finta, e poi un’altra, e poi un’altra ancora, nell’intento di spossarlo e mortificarlo. Non ci riuscirà. Ma neppure il corteggiatore riuscirà a toglierle la palla. Non lo prevede la trama, e persino al destino sta bene così.
Non ci sono somme da tirare, «Il nipote di Rivera» galleggia attorno a nomi che non hanno bisogno di cognomi e a cognomi che non saranno mai nomi. Da Zizou a Cano, passando per un concerto di Gianni Bella e i libri di Umberto Eco. Ho apprezzato la piccola nicchia che Michele ha dedicato a Vladimiro Caminiti, cantore di uno sport più romantico, quando ancora il gesto tecnico era il quadro e non la cornice.
«In questi momenti è così bello vivere. Si dimentica tutto il male, tutto quello che si vorrebbe fare e non si può per il rispetto delle regole sociali o per il tanto decantato rispetto degli altri»: Michele spreme la sua filosofia «picciola al cammino» in barba ai luoghi comuni che, al Sud come al Nord, tengono prigionieri gli ideali e le idee. Una sconfitta non è mai la fine del mondo. Una vittoria non è sempre l’inizio di un mondo. L’importante è non arrendersi. Perché Marlene, non in questo libro, ma magari nel prossimo, cederà.
ROBERTO BECCANTINI
I
Dopo una rapida doccia, di corsa in chiesa a vedere se c’è Marlene. Sì, c’è ed è in compagnia di Lud. All’uscita, mi fermo a parlare con Sir Adrian Tumulto Toomes l’opinionista del Castro. Lei mi passa davanti, com’è solita fare e si dirige al banchetto del WWF. Oggi è il giorno dell’operazione Beniamino
a favore degli alberi. Con un’aria da giovane Onassis, lui le compra un berrettino e fra i due tipi lei sceglie quello bianco. La guardo, parlando della partita appena finita. Se n’accorge. Quelle diecimila lire mi sembrano bagnate di sangue umano, imbrattate di un sudiciume indelebile, talaltro in tasca ho solo ottomila lire e due giornali in mano. La mia marcatura a zona lascia troppo spazio alle punte avversarie.
Sto sfogliando le pagine culturali della Repubblica del Vate, lo compra ogni volta che può e lo legge dopo vari giorni, io lo leggo, in genere, una settimana dopo. Vi ho trovato un articolo sulla Callas, suicidatasi in una stanza parigina il 16 aprile 1977 per dimenticare la solitudine. Natalia Aspesi ha scritto un articolo, così indescrivibilmente dolce, su una donna perduta dietro ad un signore volgare. Speriamo che Marlene sia più fortunata di lei, altrimenti impazzirei. Nella pagina accanto c’è la notizia del Premio Campiello: lo ha vinto la Morazzoni, donna quasi piangente in fotografia, con Il caso Courrier
(Longanesi), lo leggerò quando uscirà in edizione economica, le mie attuali finanze non mi permettono di fare spese avventate. Chissà cosa starà leggendo lei, vorrei tanto saperlo, spero né Smiths o i romanzi di Ramses di Jacq. Probabilmente niente di niente.
Domenica sera sono andato a vedere Giuseppe, che si esibiva insieme a un Pianista da Piano Bar, in uno spettacolo su Re Ferdinando II di Borbone: canzoni di Paolo Conte, Pino Daniele e classiche napoletane, accompagnate da monologhi in dialetto. Onda su onda/ Il mare è una tavola blu/ Vorrei partire e non tornare mai più.
Sentimenti contrastanti, piacevolezza per lo spettacolo e delusione d’averla vista con Lud il bucaniere, Chris Waddle e signora girare la sera in macchina. Aspetto estetico di Lud: braccialetto d’oro al polso destro, orologio di metallo dal grosso quadrante tipo Sector o Breil al polso sinistro; collier dalle maglie medie al collo. Io non sopporto il contatto dell’oro sulla pelle e quindi non porto né collane o bracciali, poi li trovo assolutamente fuori luogo nella crisi attuale. Il mio orologio è di una marca sconosciuta, ha una carica a mano lunghissima, perde qualche minuto al giorno, ha la data e il giorno sbagliati. Vicino alla chiesetta, ci sono i quadri dei pittori rifiutati e un lungo manifesto scritto a mano, che spiega le loro ragioni. Non ci capisco molto. Ormai dovrei esserci abituato, ma ogni volta il dolore si rinnova e mi squarcia la mente con proposte allettanti d’inseguimento.
Alla TV ho visto Ronaldo segnare il primo goal nel