L'infinito in un istante
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Anteprima del libro
L'infinito in un istante - Emiliano Deiana
1
La grazia è movimento.
Il poeta sardo Sergio Atzeni ci illumina:
Nei tuoi fianchi materni grazia di passo
di cerva giovane all’abbeverata
nel sorriso ciottoli di stelle profumati
di mandorli in germoglio
negli occhi di lupa che allatta
pace chiara
o negro fuoco di baccante in danza sacra
se la pupilla si allarga di passione.
Come posso non amarti?
Fianchi di ragazza, ingravidati d’accidenti: pieni di promesse, ardimento, sussurri, passione.
La grazia si realizza nella movenza, nella fluttuazione, nel passo sulla via lastricata, sul selciato di pietra levigata e annerita.
La grazia è fonte battesimale e abbeveratoio: sete e acqua che l’arsura placa; sorgente pura di vita e di desiderio.
La grazia è l’ineluttabilità dell’amore: «come posso non amarti?»
Immaginate il passo della persona amata quando arriva nell’oltraggio di una stazione dopo un lungo tempo di lontananza e separazione. Vedete la figura fendere la folla e solo lei esiste. La calca informe si coagula e resta l’agitazione: una primavera, il fiorire dei giorni, dei mesi.
Pensate, al contrario, a quando il soggetto che sgomenta la nostra passione ‒ nei luoghi di passaggio e dello spaesamento ‒ se ne va: per un breve periodo o per sempre. Il passo diviene disgraziato, la sciagura si annuncia: un terremoto, una carestia, una mutilazione.
Qualunque cosa succeda ‒ l’andare, il tornare ‒ la grazia ondeggia per la via e ha bisogno di una musica e di uno sfacelo.
In Tango lo scrittore argentino Jorge Luis Borges scrive: «In un recente libro di Ernesto Sàbato si legge una definizione come: un pensiero triste che si balla. Vorrei segnalare due parole discutibili.
La prima è pensiero: non credo che il tango sia assimilabile a un pensiero, ma a qualcosa di più profondo, a un’emozione.
La seconda è l’aggettivo triste, che non si può davvero attribuire ai primi tanghi».
Borges, forse, sottovaluta. Procede per approssimazioni. Non di semplice emozione si tratta, ma di purissima grazia. La milonga è ‒ essenzialmente ‒ «grazia di passo». Non solo eleganza o movimento sincronico e lascivo, ma grazia distillata e ardente.
In un tango intitolato Scirocco Francesco Guccini canta:
Ma lei arrivò affrettata danzando nella rosa
Di un abito di percalle che le fasciava i fianchi
E cominciò a parlare e ordinò qualcosa
Mentre nel cielo rinnovato correvano le nubi a branchi
E le lacrime si aggiunsero al latte di quel tè
E le mani disegnavano sogni e certezze…
La grazia è un vento caldo: morbido come un vestito di percalle, intessuto di nuvole che si perseguitano in un cielo sempre diverso.
Immaginiamo due ballerini inseguirsi sulle note del bandoneón, nella poca luce di un barrio, con qualcuno affacciato alla finestra: a guardare.
Il ballo emana emozione, ma non è l’emozione.
L’essenza della danza è propria della grazia, della levità, della leggerezza, dell’incorporeo e rarefatto ardore.
Il movimento riempie ‒ svuotandosi, come per una isterectomia ‒ la piazza, i marciapiedi, i postriboli, conquista gli sguardi di uomini soli appoggiati alle ringhiere, di donne ansimanti in attesa di un domani che non viene mai. La grazia è, contemporaneamente, dentro al vuoto che si riempie e al pieno che si svuota.
In un vecchio film Roberto Goyeneche, El polaco, esce da una taverna cantando ubriaco.
Fuori, seduto dentro la notte, il bandoneónista accenna un motivo triste e alcolico.
Lastima, bandoneón,
Mi corazon
Tu ronca maldición maleva...
Tu lágrima de ron
Me lleva
Hasta el hondo bajo fondo
Donde el barro se subleva.
Non esiste voce più imbevuta di liquore di quella di Goyeneche mentre canta di ferite e fracassi, di sbornie e di rum, di oblio e assenza.
Una donna impellicciata abbandona il locale malfamato. Se ne va sbattendosi dietro la porta: bercia, impreca contro El polaco che seguita a cantare e a sorseggiare da una coppa di champagne.
Lei si estingue, nelle urla e nelle recriminazioni.
Roberto Goyeneche continua con la voce delirante a prometterle una specie d’amore, d’abbandono: in un vuoto di promesse vane.
Mentre canta gli ultimi versi una giovane ragazza si avvicina, ardimentosa, per portarselo via.
Si chiude il sipario.
Sale l’ombra del disgusto.
Si serra el ventanal dietro l’ultima curda. Lo stordimento dell’alcol farà dimenticare il disastro della nottata.
Resta la grazia dell’addio.
Il movimento ultimo che chiude ogni legame e altri ne apre, nell’ora tarda, oltre il baratro scosceso delle possibilità.
La grazia discende, attardandosi, dove nessuno si avventura, ma copre ‒ come una gualdrappa lisa ‒ di tremore e di commozione ogni cosa.
C’è un’opera del fotografo Jan Saudek.
Si intitola The deep devotion of Veronica.
Vi è rappresentata una giovane donna che, inginocchiata, bacia la mano di un uomo o, forse, di Dio. Il bacio di Veronica ricrea Dio così come l’Onnipotente, nella Cappella Sistina dipinta da Michelangelo, dà origine ad Adamo.
Commenta Giorgio Vasari: «Nella Creazione di Adamo, Michelangelo ha figurato Dio portato da un gruppo di Angioli ignudi e di tenera età, i quali par che sostenghino non solo una figura, ma tutto il peso del mondo, apparente tale mediante la venerabilissima maiestà di quello Dio e la maniera del moto, nel quale con un braccio cigne alcuni putti, quasi che egli si sostenga, e con l’altro porge la mano destra a uno Adamo, figurato di bellezza, di attitudine e di dintorni di qualità che è par fatto di nuovo dal sommo e primo suo creatore più tosto che dal pennello e disegno d’uno uomo tale».
Similmente Saudek dona vita e fulgore a Dio grazie alle labbra angustiate e conturbanti di una donna bellissima.
Virginia Woolf ci dice: «Le grazie riunite sembravano aver lavorato di comune accordo in prati d’asfodelo per creare quel viso».
Sotto una veste semitrasparente si indovinano i seni candidi: la pelle immacolata. È la trasfigurazione della grazia, dell’amor divino dove sacro e profano si incontrano: umanizzando Dio e sublimando il femmineo. Noi stessi siamo il Dio della nostra valle interiore.
Nessuno regna all’infuori di noi. Siamo i soli padroni del giardino. Lo governiamo obbedendo alle regole della natura attraverso la grazia e il mistero di un bacio.
Essere il Signore, tuttavia, è un’illusione. Anche l’armonia col Creato sfibra. I fiori appassiscono, le piante si seccano, la vite avvizzisce. Ciò che sembrava aggraziato ‒ perché intriso d’armonia ‒ grazia non era, ma un simulacro di finzioni.
La forma del giardino è disegnata sulla pianta del Palazzo di Cnosso. Identico il labirinto definito da siepi, piante, arbusti.
Vi domina ‒ imperioso ‒ il profumo di elicriso e di mare.
Non troviamo l’uscita. Ci perdiamo nel dedalo. Arranchiamo nel cammino. Non giungiamo mai al cospetto del Minotauro. Non perdoniamo il tradimento di Pasifae col toro bianco donato da Poseidone. Ci disperiamo. Sediamo in terra tenendoci la testa fra le mani. Siamo vinti, perduti. Non ci è di nessun aiuto neppure la devozione di Veronica.
Non ci è di consolazione ‒ nelle notti insonni ‒ perderci dentro la biblioteca del Palazzo, edificata sul progetto di quella di Babele.
Jorge Luis Borges ‒ ancora lui ‒ in Finzioni catechizza: «L’universo (che altri chiamano la Biblioteca) si compone di un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, circondati da ringhiere bassissime. Da qualunque esagono si vedono i piani inferiori e superiori: interminabilmente. La distribuzione delle gallerie è invariabile. Venti scaffali, cinque lunghi scaffali per lato, coprono tutti i lati tranne due; la loro altezza, che è quella dei piani, supera di poco quella di un bibliotecario normale. Una delle due facce dà su uno stretto atrio, che sbocca in un’altra galleria, identica alla prima e a tutte».
Dio vaga alla ricerca del Libro. Il gioco di specchi rende la costruzione infinita e per questo finita. Il libro ciclico che cerca è, appunto, sé stesso, il Divino: l’Altissimo.
Sentenzia lo scrittore argentino: «La biblioteca è una sfera il cui centro perfetto è qualunque esagono, e la cui circonferenza è inaccessibile».
Nessuna divinità, alle prese con la finzione d’infinito della costruzione babelica, giunge all’esagono cremisi. Chiunque si avventuri, alla fine, crolla al suolo sfinito, in preda alle visioni. Rischia di impazzire nella ricerca di un motivo, di un languore, di una eventualità.
La grazia che pure setaccia nella perfezione geometrica degli esagoni sfuma, in un soffio.
Non si troverà più neanche nel giardino dei sentieri che si biforcano.
Un Dio senza grazia dentro al cuore non può sopravvivere a sé stesso e alle visioni.
Per ritrovarla deve precipitare nel fango.
La grazia è rinuncia: al potere, al dovere, all’abitudine.
Bisogna farsi da regnante, suddito. Obbedire alla disobbedienza. Sfuggire alle aspettative. Scappare dagli obblighi. Disertare i vincoli.
Solo allora il giardino risplenderà nella primavera e la biblioteca renderà grazia alla Parola.
Abdica da te stesso. Umanizza il divino. Eleva l’umano. Rifiuta l’altrui devozione, venera lo sguardo di Veronica, la grazia della nudità, la perfezione del viso, la pelle diafana.
Godi della passione che giace, nascosta,