I segreti dell'arte moderna e contemporanea
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Prefazione di Angelo Crespi
«Un artista è uno che produce cose di cui la gente non ha alcun bisogno, ma che lui – per qualche ragione – pensa sia una buona idea darle.»
Andy Warhol
Che cosa fa di un’opera d’arte un capolavoro? Un capolavoro è l’espressione più alta del genio di chi l’ha realizzato, ma al tempo stesso è capace di raccontare un’epoca, un mondo, una realtà e un modo di sentire. Questo è un libro che va alla ricerca di chiavi meravigliose e misteriose per interpretare quelle opere e la loro grandezza. Si spingerà a ritroso, fino alla metà dell’Ottocento, perché è lì che affondano le radici di quello che dell’arte, oggi, ci lascia a bocca aperta: partendo dalla scandalosa nudità di Olympia, passando attraverso il gorgo folle del campo di grano di Van Gogh, cercando di penetrare i grovigli della mente dell’uomo che urla nel pastello più famoso di Munch, per rilassarsi poi tra le bottiglie di Morandi. Si cercherà di capire perché quel ragazzino dispettoso che si chiamava Piero Manzoni è diventato così importante, pur avendo vissuto così poco e, per di più, inscatolando le proprie feci e facendo quadri bianchi. Con lui, e poi con Boccioni, Burri, Fontana, Schifano, Pomodoro e anche con i grandi artisti internazionali che fanno il pienone nei musei, ricostruiremo le tappe imprescindibili della storia dell’arte contemporanea.
Alessandra Redaelli
è giornalista, critico d’arte e curatore di eventi di arte contemporanea. Nata a Milano, collabora da diversi anni con i mensili «Arte» e «Antiquariato». Cura mostre in gallerie private e in spazi pubblici in Italia e all’estero. Si è occupata di manifestazioni fieristiche dedicate all’arte ed è stata anche membro della giuria in diversi contest di arte contemporanea. Per la Newton Compton ha pubblicato Keep calm e impara a capire l’arte e I segreti dell'arte moderna e contemporanea.
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Anteprima del libro
I segreti dell'arte moderna e contemporanea - Alessandra Redaelli
Capitolo 1
I pionieri
Qui cominciano già i dubbi. Se questo è un libro, come dicevamo, dedicato ai capolavori dell’arte contemporanea, perché aprire con un dipinto del 1863? Non sono tutti d’accordo nel sostenere che l’arte contemporanea nasca esattamente nel 1917 con l’orinatoio rovesciato di Duchamp? O forse quella che nasceva lì era l’arte concettuale?
E poi, ha senso che un aggettivo come contemporanea
si ancori a un periodo? Trent’anni fa per arte moderna si intendeva quella che arrivava fino ai primi del Novecento su per giù, e da lì cominciava l’arte contemporanea (almeno, questo si intuiva guardando i testi dei corsi universitari relativi alle varie discipline); poi, nel 1998, le due case d’asta più blasonate del pianeta, Christie’s e Sotheby’s, hanno fissato di comune accordo il termine
dell’arte moderna nel 1960; dopo, si inizia a parlare di contemporaneo. Ma con il passare del tempo l’asticella si dovrà per forza spostare un pochino più avanti, no?
Bel problema, talmente complesso che qualcuno comincia a sostenere che arte contemporanea
non sia una definizione temporale, ma piuttosto una definizione di genere. E che il genere sia stato costruito a tavolino. Almeno, questo racconta la scrittrice (e pittrice) francese Aude de Kerros nel suo L’art caché, in bilico tra saggio e fantathriller. Dire arte contemporanea
, dunque, è come dire Cubismo
o Impressionismo
? Fa un certo effetto, a pensarci, ma l’idea è interessante.
Se il contemporaneo fosse un genere, comunque, sarebbe un genere fatto tutto a modo suo, caratterizzato da una molteplicità di forme e di espressioni mai vista prima. Del resto il Novecento è stato il secolo delle rivoluzioni più veloci, dei cambiamenti inimmaginabili, delle trasformazioni incessanti, di una mutazione profonda non solo del nostro modo di vivere, ma anche della nostra maniera di percepirci come persone. In due, tre generazioni abbiamo vissuto delle tappe evolutive (a volte anche involutive) per le quali, prima, di generazioni ce ne sarebbero volute sei o sette. E ogni generazione, oggi, guarda alla successiva come qualcosa di alieno e altro da sé.
Stiamo attraversando quella società che Zygmut Bauman ha definito – con fulminante intuizione – liquida
. Non è così difficile, dunque, comprendere come l’arte contemporanea abbia fatto propria questa inafferrabilità, e ciò è accaduto soprattutto nei decenni più recenti. Ma questa smania, quest’ansia di altro, questa spinta è cominciata ben prima.
Non c’è un unico punto, ovviamente, da cui si potrebbero cominciare a rintracciare le radici del contemporaneo. La scelta è caduta su Manet, perché Manet è un ibrido già come persona, come uomo. È un rivoluzionario in marsina e scarpe eleganti, un borghese figlio di un ricco giudice, uno che non volle mai mischiarsi a quegli impressionisti che sotto sotto un po’ disprezzava. Eppure, senza di lui gli impressionisti forse non sarebbero mai esistiti. O magari ci sarebbero stati ma non avrebbero avuto quella potenza dirompente. Manet ha forzato la pittura impastando i colori sulla tela come se non ci fosse un domani, ha dato un nuovo significato alla definizione di nero
, ma ha anche raccontato la Parigi sordida dei postriboli come solo un ricco borghese avrebbe potuto fare.
Ma soprattutto Manet è diventato Manet in prospettiva. Perché se dopo di lui non si fosse scatenato il bailamme degli impressionisti che hanno disgregato la forma fino ad arrivare alle Ninfee di Monet, e, metti caso, tutti avessero ricominciato a dipingere paesaggi ben definiti e ordinati e placide scene di genere, probabilmente lui sarebbe stato estromesso dai libri di storia dell’arte e sarebbe stato guardato (dai pochi amici che gli rimanevano: quello degli artisti è un ambientaccio) come un povero pazzo. E basta questo per renderlo particolarmente simpatico.
Dopo Manet, dunque, ecco le impressioni di Monet. Ecco che le sensazioni comunicate da uno spettacolo naturale diventano molto più importanti della resa esatta e retinica dello stesso spettacolo. La materia pittorica si sfalda, si fa nebulosa e vibrante. Ecco l’impressionismo. Da lì al trasferire le proprie angosce dentro la tela il passo è breve, anche perché il mondo è ormai maturo perché l’uomo incominci a guardare con una certa curiosità che cosa si agita nella sua testa. Non manca tantissimo perché un certo Sigmund Freud inizi a scandagliare sogni e incubi alla ricerca di rimossi traumi infantili. E questo è il terreno su cui si muovono Van Gogh e Munch.
Ciò significa che d’ora in poi l’arte sarà una specie di terapia psicanalitica in cui ogni artista butterà sulla tela le sue nevrosi fino al caos totale?
No. Perché quando si spalanca una porta, quella è, appunto, una porta. Non un tunnel con un unico percorso e un’unica uscita. Fuori lo spazio è immenso, vario, ci sono montagne, mari, campagne, metropoli, autostrade: basta scegliere da che parte andare. E Picasso sceglie di smontare la forma. Anche perché sfoga le sue nevrosi nella vita (generalmente sulle sue innumerevoli donne). Nasce così la ricerca del Cubismo, volta alla scomposizione del reale, alla moltiplicazione dei punti di vista. Ma se scompongo la forma posso arrivare anche a liquefarla, ad annullarla. Da qui la straordinaria intuizione di Kandinskij: l’astrazione. Il colore diventa emotivo, spirituale. Non ha più bisogno di alcuna forma per parlare allo spettatore. Oppure la scomposizione della forma può raccontare qualcosa che non è più solo un’immagine statica, ma che è movimento, progresso, velocità. La ricerca dei futuristi parte proprio dal Cubismo per superarne la staticità, e il capolavoro di Boccioni – quelle Forme uniche della continuità nello spazio che hanno completamente modificato il nostro modo di leggere la scultura – rappresenta l’attimo perfetto in cui il movimento si immobilizza nello spazio e, di conseguenza, come per magia, il tempo della nostra percezione si dilata.
Il Quadrato nero su fondo bianco di Malevič è il punto d’arrivo virtuale del percorso di Kandinskij nel colore, ma soprattutto è il punto di partenza della grandiosa stagione del concettuale. L’artista stesso lo definirà, con lucida chiaroveggenza, «l’embrione di tutte le possibilità». E quando arriviamo al fatidico anno 1917, ci rendiamo conto che davvero, a quel punto, il mondo dell’arte è aperto a tutte le possibilità. In quell’anno – esattamente un secolo fa – nascono tre capolavori, tre pietre miliari: Duchamp prende un orinatoio, lo rovescia, lo chiama Fontana e dà così ufficialmente il via all’arte concettuale; Modigliani, nel suo fatiscente appartamento bohémien, ritrae la sua donna addormentata e realizza uno dei dipinti più pagati di tutti i tempi; De Chirico crea il capolavoro della pittura metafisica, una lettura della realtà profondamente intellettuale, pittoricamente raffinata e intrisa di mistero e di inquietudine.
Tutte le strade ora sono aperte, dunque. Ed ecco perché a chiudere questo capitolo sui pionieri
ci sono due artisti diversissimi per filosofia e temperamento: Mondrian, da un lato, con la sua ricerca di ordine superiore attraverso griglie di figure geometriche a colori primari; dall’altro Dalí, che associa sulla tela figure incongruenti, seguendo percorsi onirici, e realizza così la più pura traduzione pittorica del pensiero freudiano.