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Il Novecento - Arti visive (71): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 72
Il Novecento - Arti visive (71): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 72
Il Novecento - Arti visive (71): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 72
E-book763 pagine7 ore

Il Novecento - Arti visive (71): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 72

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Info su questo ebook

Nel Novecento gli intrecci fra arte, politica, società hanno prodotto ribaltamenti, cancellazioni e rinascite di modelli artistici oscillanti fra la ricerca di un ordine nuovo e la fascinazione per l’irrazionale, fra l’assunzione dell’arte come strumento politico e il rigetto di ogni ideologia, fra la tensione a un’arte individuale e aristocratica o al contrario anonima e collettiva. Nella collisione di fine Ottocento fra tradizione e novità dirompenti cola a picco l’idea di continuità nella storia: il secolo si apre all’insegna della rottura e delle sperimentazioni più ardite in termini di linguaggio e di contenuti. Le avanguardie, tra cui si contano cubismo, espressionismo, futurismo, neoplasticismo e costruttivismo, alleate in un percorso di astrazione, tagliano traguardi che paiono senza ritorno: la cancellazione del soggetto, la forma come forma assoluta, la nuova preminenza del linguaggio, la negazione del racconto, l’esilio dei sentimenti, tutte conquiste che sanciscono il primato culturale dell’Europa. Finché nell’arco di alcuni decenni si verifica un capovolgimento di prospettiva col ritorno al figurativo e con lo spostamento del cuore culturale dall’Europa verso New York e Los Angeles, rimesso più tardi in discussione dall’emergere della nuova polarità dell’Asia.

In questo ebook si possono trovare tutte le maggiori espressioni artistiche del Novecento, in cui l’ideale dell’arte subisce un progressivo spostamento verso il futuro, arrivando, nelle sue forme più estreme, a produrre un’arte internazionalista, senza radici e senza memoria, dotata di una lingua aniconica universale, che cancella i confini delle identità nazionali e si proietta nella realtà globalizzata.
LinguaItaliano
Data di uscita26 nov 2014
ISBN9788898828050
Il Novecento - Arti visive (71): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 72

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    Il Novecento - Arti visive (71) - Umberto Eco

    copertina

    Il Novecento - Arti visive

    Storia della civiltà europea

    a cura di Umberto Eco

    Comitato scientifico

    Coordinatore: Umberto Eco

    Per l’Antichità

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Lucio Milano (Storia politica, economica e sociale – Vicino Oriente) Marco Bettalli (Storia politica, economica e sociale – Grecia e Roma); Maurizio Bettini (Letteratura, Mito e religione); Giuseppe Pucci (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Eva Cantarella (Diritto) Giovanni Manetti (Semiotica); Luca Marconi, Eleonora Rocconi (Musica)

    Coordinatori di sezione:

    Simone Beta (Letteratura greca); Donatella Puliga (Letteratura latina); Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche); Gilberto Corbellini, Valentina Gazzaniga (Medicina)

    Consulenze: Gabriella Pironti (Mito e religione – Grecia) Francesca Prescendi (Mito e religione – Roma)

    Medioevo

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Laura Barletta (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Valentino Pace (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Luca Marconi, Cecilia Panti (Musica); Ezio Raimondi, Marco Bazzocchi, Giuseppe Ledda (Letteratura)

    Coordinatori di sezione: Dario Ippolito (Storia politica, economica e sociale); Marcella Culatti (Arte Basso Medioevo e Quattrocento); Andrea Bernardoni, Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche)

    Età moderna e contemporanea

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Umberto Eco (Comunicazione); Laura Barletta, Vittorio Beonio Brocchieri (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Marcella Culatti (Arti visive); Roberto Leydi † , Luca Marconi, Lucio Spaziante (Musica); Pietro Corsi, Gilberto Corbellini, Antonio Clericuzio (Scienze e tecniche); Ezio Raimondi, Marco Antonio Bazzocchi, Gino Cervi (Letteratura e teatro); Marco de Marinis (Teatro – Novecento); Giovanna Grignaffini (Cinema - Novecento).

    © 2014 EM Publishers s.r.l, Milano

    STORIA DELLA CIVILTÀ EUROPEA

    a cura di Umberto Eco

    Il Novecento

    Arti visive

    logo editore

    La collana

    Un grande mosaico della Storia della civiltà europea, in 74 ebook firmati da 400 tra i più prestigiosi studiosi diretti da Umberto Eco. Un viaggio attraverso l’arte, la letteratura, i miti e le scienze che hanno forgiato la nostra identità: scegli tu il percorso, cominci dove vuoi tu, ti soffermi dove vuoi tu, cambi percorso quando vuoi tu, seguendo i tuoi interessi.

    ◼ Storia

    ◼ Scienze e tecniche

    ◼ Filosofia

    ◼ Mito e religione

    ◼ Arti visive

    ◼ Letteratura

    ◼ Musica

    Ogni ebook della collana tratta una specifica disciplina in un determinato periodo ed è quindi completo in se stesso.

    Ogni capitolo è in collegamento con la totalità dell’opera grazie a un gran numero di link che rimandano sia ad altri capitoli dello stesso ebook, sia a capitoli degli altri ebook della collana. Un insieme organico totalmente interdisciplinare, perché ogni storia è tutte le storie.

    Introduzione

    Introduzione alle arti visive del Novecento

    Anna Ottani Cavina

    Se davvero il Novecento verrà consegnato alla storia come il secolo breve (Hobsbawm) bisognerà riconoscergli, nella compressione temporale, un dinamismo molto accentuato. E questo perché gli intrecci fra arte, politica, società hanno prodotto ribaltamenti e cancellazioni e rinascite di modelli artistici oscillanti fra la ricerca di un ordine nuovo e la fascinazione per l’irrazionale, fra l’assunzione dell’arte come strumento politico e il rigetto di ogni ideologia, fra la tensione a un’arte individuale e aristocratica o al contrario anonima e collettiva. Ciò che naturalmente mandava in pezzi l’idea di progresso lineare introdotta dal modernismo, in nome di una discontinuità altamente soggettiva.

    Piuttosto che canonizzare in una sintesi riduttiva vicende non ancora sedimentate (inadatte per ora al montaggio), si è preferito – a introduzione del Novecento – segnalare alcune trame complesse che hanno accompagnato la fine del secolo, lasciando alla progressione tematica dei testi che seguono, il compito di ricostruire la mappa, provvisoria e frammentaria, dei fenomeni artistici del XX secolo.

    L’esaltazione del nuovo

    Nella collisione di fine Ottocento fra tradizione e novità dirompenti colava a picco l’idea di continuità nella storia: il secolo si apriva all’insegna della rottura e delle sperimentazioni più ardite in termini di linguaggio e di contenuti.

    Le avanguardie – cubismo, espressionismo, futurismo, neoplasticismo, costruttivismo – alleate in un percorso di astrazione, tagliano traguardi che sembrano senza ritorno: la cancellazione del soggetto, la forma come forma assoluta, la nuova preminenza del linguaggio, la negazione del racconto, l’esilio dei sentimenti… conquiste liberatorie che sanciscono ancora una volta il primato culturale dell’Europa. Nell’arco di alcuni decenni però si verifica un capovolgimento di prospettiva sul piano della storia (il ritorno al figurativo) e della geografia, con uno spostamento del cuore culturale dall’Europa verso New York (e Los Angeles), rimesso più tardi in discussione dall’emergere della nuova polarità dell’Asia.

    Il dato più appariscente – parliamo di arti figurative – è il primato riconosciuto all’architettura rispetto alle arti sorelle e il suo clamoroso affermarsi come arte dominante che impronta il secolo e catalizza le idee guida del Novecento.

    Per riprendere il filo della storia, sono le avanguardie, in apertura di secolo, a innescare un processo di rinnovamento radicale esasperando il concetto di modernità. Gli epicentri di un fenomeno che sarà pervasivo sono inizialmente Parigi, Berlino, Dresda, Monaco, Mosca, Milano, Londra, i Paesi Bassi.

    Il dato comune molto vistoso è l’assunzione della modernità come criterio di giudizio. Di conseguenza la corsa frenetica all’innovazione tende a neutralizzare quella funzione normativa ed esemplare che a lungo era stata attribuita al passato. Smaltita per così dire un’overdose di memoria storica e di legami troppo stringenti con un mondo remoto, l’ideale dell’arte subisce uno spostamento verso il futuro, che appare a quel punto molto più orientativo del passato.

    Il risultato è un’arte internazionalista, senza radici e senza memoria, dotata di una lingua aniconica universale, che cancella i confini delle identità nazionali e corre sul filo di un mutamento che poi si dirà globalizzazione.

    Il primato dell’architettura: la città, il museo

    Su questo sfondo continuamente mutevole è l’architettura a prendere il largo, e a costruire la storia del Novecento. Alcuni campioni prelevati dal tessuto architettonico-urbanistico possono quindi valere come frammenti per comporre un ritratto del nostro tempo nei mutamenti strutturali che lo hanno attraversato e nelle emergenze di fine secolo. Il secolo breve, nella prospettiva dello storico marxista Eric Hobsbawm, si chiude nel 1989 con la caduta del muro di Berlino e il successivo collasso dell’impero sovietico. Ma i vessilli del XX secolo avevano cominciato a vacillare già prima.

    Le avanguardie, per esempio, che avevano scardinato e disarticolato il sistema e rinnovato profondamente il linguaggio (e anche il pensiero e l’immagine), risultano a un certo punto archiviate, non solo per il tasso di distruttività che fin dall’inizio le ha percorse, ma per il protagonismo della comunicazione, in primo luogo visiva, che viene a scalzare la collocazione privilegiata delle arti, la cui conoscenza, sempre meno diretta, avviene soprattutto attraverso l’emporio mediatico.

    La delegittimazione investe in primo luogo pittura e scultura nelle molte varianti del fare artistico che si presentano nel corso del secolo, le quali non sono più in grado di esprimere le grandi rivoluzioni formali del mondo contemporaneo. Mentre l’architettura si trova a incrociare le esigenze pressanti della società tecnologica, sullo sfondo di un processo di urbanizzazione che sconvolge gli assetti e le tipologie che avevano dato volto all’Europa, nella sua forma geografica peculiare di costellazione di città.

    È la città, infatti, ad accusare drammaticamente la crisi. È la sua forma chiusa e disegnata, entro la griglia di strade e di piazze che sono il marchio dell’abitare europeo, ad andare incontro a un processo di sfaldamento e di erosione. Quella che avanza, nel premere di un’urbanizzazione temeraria e impetuosa che è simmetrica all’esodo dalle campagne (metà della popolazione del mondo vive oggi nelle città), è una diversa tipologia della città, dispersa, nebulosa, che tende a smarrire la sua filiazione dall’antica polis per diventare metropoli e megalopoli, e poi città diffusa e infinita, che campagne sempre più urbanizzate saldano a un’altra bolla edilizia, ugualmente dilagante ed espansa. Questo naturalmente è l’orizzonte del mondo (da Dhaka a Lagos, da Città del Messico al Cairo a Mumbai), dove lo sprawl urbano genera slums accerchianti e abnormi, e dove baracche e materiali di scarto compongono agglomerati che nulla hanno a che vedere con quella forma urbis elaborata nei secoli, che dava identità a un luogo e insieme a una comunità sociale (civitas), attribuendo all’architettura un ruolo primario.

    In Europa, l’erosione della città, come centro storico pulsante che si organizza intorno all’antica agorà, ha dimensioni, tempi e connotati diversi, in primo luogo per quella miscela di vita politica e intellettuale che è congenita alle nostre città, le quali da sempre trattengono le università nel cuore municipale e non nei campus lontani del territorio.

    L’emergenza città tuttavia esiste ugualmente. Conosce fenomeni contrastanti che sono da un lato la perdita di popolazione delle città medie, dall’altro il crescere sproporzionato delle periferie in rapporto al nucleo originario dell’urbe concepito, fin dal Rinascimento, come luogo ideale, razionale, programmato. Fenomeni tanto complessi implicano interventi che stanno a cavallo di molte discipline (economia, antropologia, sociologia, ecologia ambientale), ma investono frontalmente l’architettura, che sul tema della città si è misurata lungo l’arco del secolo, con proposte coraggiose e innovanti.

    Prima fra tutte l’introduzione su grande scala del grattacielo, moderna cattedrale gotica della città, il cui skyline viene a essere profondamente modificato dalla struttura colonnare e seriale dei buildings verticali, resi possibili dalle nuove tecnologie e così necessari ormai alle metropoli antinaturalistiche del Novecento da non essere stati messi in discussione neppure dalla catastrofe dell’11 settembre 2001, che ha abbattuto i propilei di Manhattan.

    Rispondendo all’esigenza di salvare l’idea antica di città come luogo fisico d’incontro, gli architetti tendono a realizzare piccole città dentro le città (cities within the city), edifici dominanti ad alta valenza simbolica in grado di restituire alla metropoli il suo magnetismo e la sua capacità di aggregazione contro il deserto affettivo della vita moderna. In questa sfida a riqualificare e a restituire un’aura ad alcuni edifici-simbolo, il crinale che separa l’invenzione artistica dal gioco esibito di molte archistar, architetti dal successo planetario e mediatico, risulta facilmente valicabile.

    La linea di confine fra meraviglia e intrattenimento appare ad esempio molto labile se si segue l’evolversi di un edificio – il museo – che nel corso del Novecento ha tracciato uno degli assi della ricerca architettonica, imponendosi come nuovo tempio della fede intorno al quale si organizza la città, non solo quella di recente fondazione ma anche quella storica della tradizione europea: Parigi, Londra, Francoforte, Mönchengladbach, Lione, Nîmes, Lille, Bilbao, Rovereto. Il museo infatti, nella seconda metà del secolo – punto di partenza è forse la spirale del Guggenheim Museum (1946-1959) di Frank Lloyd Wright a New York; l’icona di oggi è il Museo Guggenheim di Bilbao (1997) che Frank O. Gehry ha modellato in lamine di titanio –, è venuto a imporsi come monumento eclatante nella città, luogo perfetto per rilanciare e amplificare il mito dell’architettura, la sua vocazione di ponte fra Oriente e Occidente, in una prospettiva decisamente globale.

    In competizione con la scultura, il museo degli anni recenti tende a privilegiare l’impatto visivo (altamente spettacolare) piuttosto che la funzione cui è destinato, di custode della vocazione creativa dell’uomo. Nella città, il museo assume talvolta una visibilità scioccante e autoreferenziale; è addirittura investito di una missione taumaturgica e miracolistica in termini di rilancio economico della città, anche se il rischio è diventare una conchiglia sontuosa, che ha tradito il suo obiettivo fondante, quello di istituzione che conserva e trasmette le invenzioni dell’arte.

    Il rischio in questi casi – avverte Jean Clair – è quello di innalzare cenotafi possenti ma deserti di opere, percepite come disturbo alla contemplazione di un involucro che sembra essersi affrancato da ogni premessa funzionalista e razionale. Come succede nel Museo Ebraico di Daniel Libeskind a Berlino, che si autocelebra nelle superfici taglienti della sua stessa pelle metallica (1996).

    Il trionfo dell’ipermuseo quale emblema architettonico della città ha prodotto tuttavia, lungo il cammino, sperimentazioni e ricerca, regalandoci alcuni fra i capolavori del secolo. Musei che hanno saldato le potenzialità di una tecnologia avanzatissima e computerizzata a nuove esigenze espressive e formali. Musei che, senza rinunciare a un segno architettonico forte, hanno recuperato il valore estetico del contenuto e riattribuito all’opera d’arte la sua storica centralità. Musei che, per citarne solamente alcuni, portano la firma di un pioniere quale Louis Kahn, autore delloYale Center for British Art a New Haven, Kimbell Museum a Forth Worth; di Renzo Piano nei suoi edifici della luce (La Menil Collection a Houston, Paul Klee Zentrum a Berna), di Tadao Ando, creatore di spazi flessibili proiettati nel vento e sull’acqua (Museo di Arte Contemporanea a Naoshima). Nell’ambito perimetrato dell’edificio-museo, i maestri del Novecento hanno saputo elaborare progetti e riflessioni a largo spettro, facendo del museo un laboratorio architettonico d’avanguardia dove testare ricerche sulla luce, i materiali, le forme, e dove attivare un rapporto, a volte straordinariamente poetico, fra ambiente naturale e architettura.

    I protagonisti

    Pablo Ruiz Picasso

    Cristina Beltrami

    Nessun artista del Novecento ha potuto sottrarsi al confronto con Pablo Picasso. Pittore, scultore e incisore dall’inesauribile forza, l’artista spagnolo rivoluziona la propria produzione con una radicalità e una frequenza straordinarie. Dal periodo figurativo dei blu e dei rosa Picasso passa alla scomposizione dei soggetti negli anni del cubismo (1907-1914), per poi ritrovare, nel soggiorno italiano del 1917, la passione per il disegno e il colore. La sua adesione al surrealismo parigino sfocia nell’impegno politico. Picasso si sente un vero rivoluzionario e la tragedia di una singola cittadina diviene in Guernica (1937) il simbolo di ogni campagna antimilitare d’Europa.

    Il primo soggiorno a Parigi

    Il Novecento ha in Pablo Picasso la chiave di volta della propria parabola artistica. Nessun altro infatti può raccogliere all’interno della propria opera i segni peculiari della storia artistica del secolo scorso. Con il sostegno dei più importanti galleristi internazionali, egli conduce la propria ricerca trasformando incessantemente lo stile, la tecnica e i soggetti. Considerato il punto di riferimento di ogni avanguardia storica, Picasso è anche l’artista che distrugge e al contempo rinsalda il concetto di accademia.

    Figlio di un pittore di quadri da sala da pranzo, come Picasso definì il padre, appena possibile si trasferisce a Parigi (1901): apre uno studio in boulevard de Clichy e presenta una mostra nella galleria di Ambroise Vollard. Le difficoltà economiche lo costringono poi a rientrare a Barcellona dove ha inizio il cosiddetto periodo blu (1901) in cui le tele si animano di personaggi appartenenti al mondo del circo e della strada. Ne I due saltimbanchi (1901) la predominanza cromatica del blu, colore freddo, accentua il rapporto di indifferenza dei soggetti che sembrano ignorarsi in un melanconico silenzio.

    La vita notturna della grande città, anche quella più misera e viziosa, affascina l’artista così come era accaduto a Henri Toulouse-Lautrec, ma la tecnica pittorica è differente: ai campi pieni del pittore francese, Picasso predilige piccoli tocchi di colore puro che subito gratta via dalla tela accentuando la brutalità del risultato. Le poche tinte calde e la pastosità della materia nascono dalla pittura di van Gogh: il bianco sembra cerone di scena e blocca l’espressività dei due saltimbanchi. Il problema compositivo, legato a un gruppo di due figure così serrate l’una accanto all’altra, è risolto da Picasso con una drammatica compattezza che imprime ai corpi il peso di un arabesco privo di tridimensionalità. La scena è costruita su due punti di vista: uno frontale, rispetto ai saltimbanchi, e uno rialzato che permette di vedere i due bicchieri dall’alto. Questa duplicità prospettica conferma come Picasso sia a conoscenza dell’opera di Cézanne, all’origine della sua successiva ricerca cubista.

    Il Ritratto di Gertrude Stein incarna il momento di passaggio tra il Picasso figurativo, ancora sensibile alle citazioni letterarie, e quello più attento a questioni specificamente pittoriche. L’ereditiera americana, colta collezionista e assidua frequentatrice dell’artista, nella sua autobiografia narra che alla fine del 1905 posò oltre novanta volte sulla sgangherata poltrona di rue de Ravignan. Picasso, che raramente ritrae dal vivo il proprio soggetto, non riesce a portare a termine il dipinto, se non a distanza di giorni e in assenza della modella. Egli crea un ritratto dissimile da quanto dipinto in precedenza, in cui la somiglianza col modello non dipende più dalle leggi canoniche della rappresentazione ma si basa sulla selezione di pochi tratti caratterizzanti. Picasso stesso, con l’usuale ironia, afferma: Tutti pensano che lei non somiglia affatto al suo ritratto, ma non ci faccia caso, alla fine riuscirà a essere proprio così. L’innalzarsi della fronte, le orbite sovradimensionate, l’incisività del bordo delle palpebre e del labbro superiore sono caratteristiche di una maschera, ancor prima che di un volto umano. Anche la tecnica pittorica concorre a fissare l’immobilità del volto: è molto differente infatti la pennellata impiegata per il viso da quella con cui l’artista rende il caldo incarnato delle mani o la morbidezza delle pieghe dell’abito e l’afflosciarsi del foulard fermato da una spilla.

    Con lo stesso spirito di osservazione Picasso visita i musei parigini e i marchés aux puces che sono per lui eguale fonte di ispirazione: riesce a mescolare con geniale spontaneità le forme dell’arte tribale con la lezione dei grandi maestri dell’accademia francese. La posizione delle mani e delle braccia della Stein ricorda quella del Ritratto di Louis-François Bertin di Ingres esposto al Louvre.

    È ancora Ingres che Picasso ha negli occhi quando ritrae Olga Kokhlova, ballerina della compagnia dell’impresario russo Sergej Diaghilev, conosciuta a Roma nel 1917 durante la realizzazione della scenografia di Parade, balletto musicato da Erik Satie. In Ritratto di Olga in poltrona emerge l’amore che l’artista prova per la sua nuova modella: Olga è bella come nessuna donna lo è stata sinora sulle tele di Picasso. Il non finito dello sfondo, il ventaglio semiaperto sulle ginocchia, il braccio appoggiato allo schienale della poltrona e soprattutto il dettaglio della scollatura che scivola in avanti infondono al dipinto un senso di forte intimità; è un quadro quasi domestico.

    Dopo tante figure scomposte negli anni cubisti (1907-1914), Ritratto di Olga in poltrona sembra un ritorno alle regole accademiche: le linee sinuose del disegno che definisce con minuzia i motivi delle stoffe e l’ovale di Olga ricordano il classicismo atemporale di Ingres. Il dipinto però conserva ancora l’aspetto di un collage: la poltrona e la modella appaiono piatte, senza peso. L’accensione del colore nelle opere a partire dal 1917 è attribuito alla quotidiana immersione di Picasso nella cultura classica italiana, in particolare ai rossi degli affreschi di Pompei.

    Guernica

    Di ritorno a Parigi, Picasso aderisce al surrealismo, ma in un’accezione singolare: la rappresentazione della morte – tema ricorrente nel gruppo fondato da André Breton – non è onirica bensì realistica e cruenta, come lo era, nel Rinascimento, nell’opera del tedesco Mathias Grünewald. Se nel surrealismo è l’uomo oggetto di violenza, in Picasso è l’animale: il toro nella corrida si fa metafora dell’esistenza, del rito e del sacro.

    Così è anche in Guernica, dipinto storico sul bombardamento dell’omonima cittadina basca, avvenuto il 26 aprile 1937. Quattro giorni più tardi la rivista Ce soir pubblica alcune foto del massacro e Picasso le utilizza come punto di partenza. Inizia l’opera il primo maggio e la porta a termine in giugno, mentre Dora Maar, sua nuova compagna, documenta fotograficamente il processo creativo. Guernica si inserisce in un filone politico con cui da tempo Picasso attacca la casta militare che ha fatto naufragare la Spagna in un oceano di dolore e di morte. Già nel gennaio 1937 infatti l’artista aveva inciso Sogno e menzogna di Franco – due grandi fogli con 18 vignette antifranchiste – e alcuni soggetti di questa serie ritornano anche in Guernica.

    Il dipinto avrà un’eccezionale visibilità, sarà collocato al centro del padiglione spagnolo all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1937. L’artista perciò sceglie una tela di quasi otto metri di base e la carica di figure fortemente espressive. Partendo da sinistra compaiono: una donna col figlio morto tra le braccia, l’imponente testa di un toro, un guerriero caduto a terra mentre brandisce una spada spezzata, un cavallo che nitrisce di sofferenza, una lampada accesa, tre donne sulla destra; una di esse alza le braccia al cielo in segno di disperazione. La superficie è quasi monocroma: grigio, bianco, nero e figure s’incastrano come in un fregio bidimensionale. Picasso realizza un centinaio di disegni preparatori che poi appunta con degli spilli sulla tela ancora bianca per verificare la relazione tra gli elementi compositivi. Mescola ancora una volta immagini d’attualità con suggestioni precedenti: il dettaglio della luce artificiale è simile nei Mangiatori di patate di van Gogh (1885, Amsterdam, Rijksmuseum); il tono drammatico e la gestualità tengono conto di Fucilazione del 3 maggio 1808 di Goya (1814, Madrid, Museo del Prado), dipinto con cui Picasso ha un confronto quasi quotidiano visto che nel 1937 è nominato direttore del museo del Prado. Con Guernica l’artista spiazza nuovamente critica e pubblico. Al momento della sua presentazione i dirigenti repubblicani spagnoli la giudicano un’opera antisociale e inadeguata alla mentalità del proletariato. Jean-Paul Sartre trova il dipinto troppo simbolico; lo stesso Louis Aragon, scrittore e poeta francese amico di Picasso, avanza delle riserve. Si arriva persino a proporre di togliere il dipinto dall’esposizione parigina.

    Con Guernica Picasso entra apertamente nel dibattito politico, cosa che egli aveva in parte già fatto ineserendo ritagli di cronaca nei precedenti collage cubisti. L’impegno politico sfocerà nel 1944 nell’adesione al partito comunista francese: non ho mai considerato la pittura come un’arte di semplice piacere, di distrazione [...] Sì, ho coscienza di aver sempre lottato con la mia pittura, come un vero rivoluzionario.

    Guernica è un dipinto dalla forza inesauribile attorno al quale anche in Italia il gruppo artistico Corrente accende un intenso dibattito, rileggendolo in chiave antifascista. Renato Guttuso guarda a Picasso come a un modello non solo per l’invenzione formale, ma anche per le scelte politiche.

    La grafica

    Parallelamente alla pittura, Picasso svolge un’intensa attività d’incisore e di scultore. La sperimentazione grafica s’intensifica negli anni Quaranta: nel 1947 arriva a tirare oltre 50 litografie in soli otto mesi di lavoro. I soggetti sono fauni, civette, tori, animali mitologici e mediterranei; quelli stessi che compaiono nella scultura degli anni di Vallauris, antico centro del sud della Francia, dove Picasso acquista una villa e si cimenta nella fabbricazione di oggetti in ceramica e sculture. Nella villa di Vallauris riceve in dono una capra che diviene il soggetto di una singolare scultura. In La capra (1950) Picasso assembla una serie di oggetti che possono rimandare a singoli dettagli anatomici dell’animale. Così un cesto di vimini diventa il ventre della capra, per il muso viene impiegata una foglia di palma, le orecchie sono di cartone arrotolato, delle viti fungono da corna, due pezzi di metallo segnano i fianchi e due brocche per il latte imitano le mammelle. L’artista immerge l’assemblaggio nel gesso e ciò che riemerge è la figura dell’animale, nella quale però i diversi elementi sono ancora distinguibili. Picasso afferma: Io parto dal paniere e arrivo alla gabbia toracica, passo dalla metafora alla realtà. Gli accostamenti sono così inaspettati che risvegliano sempre nuove emozioni nello spettatore.

    Fortuna di Picasso

    Dal 1951 le retrospettive dedicate a Picasso, che ha ormai 70 anni, si moltiplicano in tutto il mondo; anche in Italia Lionello Venturi nel 1953 organizza una mostra epocale – 135 dipinti, 39 ceramiche, 32 sculture e 40 litografie – prima a Roma e poi a Milano. È l’occasione, per gli artisti italiani, di trovarsi a confronto con la versatilità dell’artista. Picasso scompare l’8 aprile del 1973 lasciando un’eredità artistica e concettuale con la quale ogni artista contemporaneo si è necessariamente confrontato. Egli è stato capace di azzerare e quindi recuperare le categorie di scuola, tradizione, significato, storia e tecnica dell’arte.

    Rimandi

    Volume 71: Potere e declino delle accademie

    Volume 65: Paul Cézanne

    Volume 65: La pittura simbolista

    Volume 68: La guerra di Spagna

    Il laboratorio cubista

    Il surrealismo

    Volume 73: I Ballets Russes

    Henri Matisse

    Anna Ottani Cavina

    Prima di lui, nella pittura, era il buio scrive il poeta Aragon. E Picasso: Matisse ha il sole nel ventre. Per Matisse il colore diventa il fine stesso della pittura; lo induce ad astrarre, a dematerializzare oggetti e persone, a tessere un’immagine fluida, in cui le relazioni fra le forme contano più delle forme. In questa dimensione creativa del colore Matisse rappresenta l’altro polo rispetto a Picasso, l’antagonista senza il quale la cosmologia di Matisse rimane mutila e indecifrabile. Perché Pôle Nord, Pôle Sud, la battuta di Picasso tante volte citata, sarà forse soltanto lo stereotipo di una conflittualità fra di loro un po’ costruita, ma anche di queste battute è fatta la critica, se sono intrise di significati. E Matisse versus Picasso è l’asse intorno a cui ruota molta pittura del Novecento.

    Il colore, la vita

    Nasce nel 1869. Ha dunque l’età di Bonnard e Vuillard, e 11 anni più di Picasso. All’inizio, nei suoi modi incerti di fare pittura – è il 1890, Matisse ha compiuto 20 anni – un intervento chirurgico lo costringe al letto. In dono ha una scatola di colori: dipinge nature morte e interni in penombra, come i realisti olandesi e il francese Chardin, di cui condivide il bisogno di familiarità con gli oggetti: sempre quelli, per tutta la vita.

    Poco dopo (1892) a Parigi, nell’atelier simbolista di Gustave Moreau, raccoglie preziosità e iridescenze dei decadenti di fine secolo: Sulla tavolozza avevo prima solo i bistri e le terre. Ecco invece l’ocra e i violetti, l’acidità dell’arancio, indaco, e verdi innaturali e vibranti come nei quadri preraffaelliti.

    Poi, come tutti, anche Matisse rende omaggio a Cézanne, alla ricerca di una forma palpabile, nelle dominanti di massa e volume. E lavora coi bronzi, con la scultura. Il secolo è appena agli inizi e lui ha solamente 30 anni, ma la sua parabola è a questo punto tracciata. Sarà, per tutta la vita, la sfida a saldare gli inconciliabili estremi che per lui erano Cézanne e l’Oriente, la struttura e la luce, lo spazio tridimensionale e prospettico e i fondali decorativi dell’Asia: miniature e ceramiche dell’antica Persia, labirinti e arabeschi dell’arte islamica. Protagonista naturalmente il colore, quel colpo di gong – scriveva Matisse – che fa vibrare intorno lo spazio: Questo soggetto nero, si può anche vederlo come una cattedrale [...] ma è bene ricordarsi che prima di tutto è un Nero. E non va perduto [...].

    Prima dell’affermazione dei fauves (ed è Matisse il più grande dei fauves: Lusso, calma e voluttà, 1904-1905, Parigi, Musée d’Orsay; La joie de vivre,1905-1906, Merion, Pennsylvania, Barnes Foundation), il colore non era mai stato una forma, un’entità in grado di determinare i rapporti, mobili e fluttuanti, nell’intarsio luminoso delle cose. Ecco invece le localizzazioni di verde, di rosso, di blu, formare, per infallibili accordi, quel cerchio apollineo che è poi La danse nelle due versioni del MoMA e dell’Ermitage di San Pietroburgo (1909-1910), quattro metri di base ciascuna. Ghirlande di braccia tagliate nel vivo di un colore modulato impercettibilmente, che stabilisce una circolarità fra le cose. Un colore astratto, mai imitativo, che difficilmente farà perdonare Picasso – se davvero fu lui – per il cinismo di un giudizio terribile: Matisse? È una cravatta. Come dire scintillante, virtuoso. Una battuta che si fa minacciosa, se si continua a mostrare Matisse a pezzi e a tronconi, nei suoi quadri più colorati e godibili come è accaduto in alcune mostre recenti. Solo rileggendo Matisse tutto intero si può coglierne il lascito di pittore moderno che, a partire dagli anni Sessanta, gli artisti (color field painters, minimalisti e pop) hanno mostrato di riconoscere con un’esposizione che l’avanguardia a New York ha voluto intitolare After Matisse (1986).

    La modernità semplifica

    La modernità di Matisse è anche nella sua vocazione versatile, così vicina al teatro e ai balletti russi di Diaghilev, per il quale progetta le scene e i costumi (Le Chant du Rossignol di Stravinskij, 1919).

    E ancora la modernità di Matisse, nell’arco di una vita che lo vede spostarsi fra Nizza e Parigi, si avverte nella sua capacità di rinuncia. Rinuncia alle annotazioni narrative, realistiche, da cui ogni volta il suo lavoro procede, per cogliere il valore espressivo del vuoto, che è cancellazione di qualcosa che non si racconta ma è percepibile nella sua assenza (L’atelier in rosa, 1911, Mosca, Museo Puškin). Quante volte la tela è a nudo, lasciata apposta senza pittura, fino ad assumere un valore semantico analogo al silenzio di Mallarmé, poeta a lui molto caro. Infine, temerario, l’estro incontenibile degli ultimi anni: la decorazione della Cappella del Rosario di Vence (1951, mosaici, vetrate, sculture, perfino le vesti liturgiche in poplin di seta, sacrali e bellissime) e i suoi geniali papiers découpés, le carte ritagliate e dipinte quando, malato su una sedia a rotelle (a 85 anni, nel 1954) va incontro alla morte stringendo in mano una canna flessibile per disegnare ancora sul muro.

    Matisse disegna con le forbici dentro il colore, ritaglia cioè delle carte, colorate già prima dai suoi aiutanti. Plasma in tal modo, simultaneamente, il campo cromatico e il suo contorno. E costruisce un universo di segni iconici, che divengono alghe, foglie, nudi, coralli, librati nello spazio delle stanze d’albergo, dove, malato e costretto al letto, si concede di continuare a inventare.

    Emozioni complesse e strumenti fra i più elementari, come nella sequenza incantata della Piscina (1952), découpage modulare di quasi otto metri, un tempo sulle pareti dell’Hôtel Régina di Nizza. Uomini blu su un fondo bianco e marrone, che si propagano come onde, nuotando liberi, senza cornici. Così Matisse – scriveva il critico del Washington Post – riusciva a trasformare in capolavoro cose modeste con cui, sì e no, noi potremmo decorare una scatola di canditi.

    Cercava, nell’universo dei segni, il momento catartico della condensazione, il momento in cui dalla percezione analitica avrebbe estratto l’essenzialità dell’immagine. E procedeva adagio, per spogliazione. Je gratte beaucoup, scrive di sé con disarmante candore. Sottraggo, elimino, alla ricerca di quella sintesi che non è mai per lui folgorante, immediata. 40 sedute per dipingere un nudo e più di 100 per una natura morta, scrive in una lettera al pittore Bonnard. E addirittura 500 pose gli costa, nell’arco di anni (1900-1903), la realizzazione della scultura Le serf (Lo schiavo). Ancora una volta, debbo aspettare, confessa nel 1940. Come per dire che esistevano tempi, certo un po’ amari, d’insoddisfazione e di attesa. E dipinti di transito, provvisori. Lui d’altra parte vuole incantare. Come se la vita fosse davvero un mondo intatto, senza cesure fra l’orizzonte e l’interno della mia stanza-atelier [...] dove la barchetta che corre sul mare vive lo stesso spazio degli oggetti che mi stanno intorno.

    Mentre il secolo si fa grave, Henri Matisse continua ad amare, in modo esclusivo e quasi imbarazzante, quello che fa, cioè la pittura. In un desiderio di conciliazione fra i regni separati della vita e dell’arte. Vuole essere, più di ogni altra cosa, pittore, con dedizione quasi inumana se, nell’ottobre del 1944 – la moglie torturata dalla Gestapo e Marguerite, la figlia amatissima, sulla via della deportazione – pretende di continuare a difendere almeno due ore al giorno di lavoro effettivo.

    Rimandi

    Volume 65: Paul Cézanne

    Volume 65: La pittura simbolista

    Volume 66: Origini e linguaggi del simbolismo letterario

    Pablo Ruiz Picasso

    L’espressionismo

    Pop art

    Il minimalismo

    Volume 73: I Ballets Russes

    Constantin Brancusi

    Elisa Montecchi

    Primo grande scultore moderno, Constantin Brancusi introduce nuove prospettive di metodo e nuove forme. Prediligendo la scultura a taglio diretto, interviene sulla struttura tradizionale del gruppo scultoreo e attribuisce una funzione del tutto rinnovata ai basamenti. Semplifica le forme depurandole dagli aspetti decorativi tipici della scultura simbolista. Le sue innumerevoli fotografie, delle singole opere come dell’atelier, manifestano la sua sensibilità per l’ambientazione delle sculture, osservate e documentate come creature nello spazio. Considerato, ancora in vita, tra i più grandi scultori del secolo, alla sua morte destina con lascito testamentario il proprio studio allo Stato francese.

    A Parigi

    Nel 1904 Constantin Brancusi, di origine rumena, arriva a Parigi; vi trova Auguste Rodin, l’astro della scultura, e gli artisti della generazione successiva come Émile-Antoine Bourdelle e Aristide Maillol, lavorano entro i limiti di un simbolismo classicista, monumentale e antropomorfico. Brancusi propone da subito una strada assai diversa per la scultura, con forme e metodi nuovi.

    Conosce Antonin Mercié (1845-1916), scultore e professore all’École des Beaux-Arts e ottiene un diploma che gli permette di aprire uno studio e trasferirsi definitivamente a Parigi. Vicino alla cerchia della rivista Verse et Prose di Paul Fort, espone con il gruppo Abbaye de Créteil, frequentato anche dal pittore Albert Gleizes, che poi frequenterà circoli cubisti. Il gruppo è intriso di gusto post simbolista e vicino alla sensibilità antipositivista di Henri Bergson , il grande filosofo francese che nel 1907 pubblica L’Evoluzione creatrice. Pur senza partecipare attivamente ad alcun movimento organizzato, dal 1920 frequenta ambienti dadaisti. È amico del compositore Erik Satie e soprattutto di Marcel Duchamp, che, con la sua influenza presso i collezionisti americani, giocherà un ruolo importante per la fortuna di Brancusi negli Stati Uniti.

    Brancusi, di formazione accademica, conosce la tradizione della scultura antica e domina le tecniche di lavorazione del marmo. A Parigi si appassiona alla scultura gotica delle grandi cattedrali francesi, ne rielabora i modelli e le composizioni che gli evocano il repertorio formale primitivo ed elementare della scultura millenaria dei Carpazi rumeni.

    Il bacio e la scultura a taglio diretto

    Tra il 1907 e il 1916 esegue varie versioni de Il bacio, una scultura estremamente affascinante che è quasi un programma poetico. In pietra calcarea, un materiale vile e quasi inadatto a un’opera d’arte, rappresenta due esseri stretti in un abbraccio. Il titolo dell’opera è identico a quello del famosissimo gruppo di Rodin, ma il risultato, il metodo di lavoro, le ambizioni, completamente nuove. Gli scultori tradizionali ideavano i modelli (spesso plasmati nella creta) e affidavano ad artigiani o praticiens il trasferimento in uno o più esemplari nel bronzo o nel marmo. Al contrario Brancusi e i modernisti– André Derain, Amedeo Modigliani seguono il lavoro dall’inizio alla fine. Con un controllo completo del work in progress, scelgono personalmente il blocco di pietra, scolpiscono a taglio diretto rifiniscono il lavoro per conto proprio, anche negli aspetti che le generazioni precedenti consideravano più artigianali. Brancusi ama scolpire anche i materiali più resistenti all’intervento dell’uomo. Tra i legni predilige la quercia antica (dalla pasta durissima) e appena viene a conoscenza dell’invenzione dell’acciaio inossidabile, se ne fa inviare una lastra con tanto di macchina levigatrice Black & Decker.

    Basamenti e scultura monumentale

    Dopo aver rinnovato il metodo di lavoro, Brancusi interviene sulla struttura formale. Con un procedimento opposto a quello di Rodin e dei simbolisti che, eliminato il piedistallo delle statue, ambientavano le loro opere nello spazio dello spettatore – con un effetto illusionistico formidabile –, Brancusi inventa un nuovo ruolo per i basamenti. Essi divengono parte integrante dell’opera, una componente inscindibile e luogo di espressione e sperimentazione formale. Scolpisce i basamenti scegliendo accuratamente i materiali in base agli accordi cromatici, tratta le superfici con la stessa perizia dell’opera in senso stretto. Brancusi va ancora oltre, al punto che da un’idea per un basamento nasce l’unico grande monumento pubblico che riuscirà a realizzare, La colonna senza fine del Complesso monumentale di Târgu Jiu (1937-1938) in Romania. La colonna è alta 29,33 metri e realizzata con 15 elementi, i semiconi affrontati. È un’opera in fusione di ferro metallizzato giallo e rame dorato, con un’anima di acciaio. I semiconi che si ripetono, secondo un modulo identico, suggeriscono l’idea di una estensione potenzialmente infinita. Brancusi già nel 1912 concepisce una struttura verticale sagomata, come basamento per una scultura, Maïastra (bronzo, Des Moines Art Center, Iowa, USA) e nel 1915 sintetizza per la prima volta un elemento a semi-coni affrontati per lo zoccolo di Chimera, la scultura in quercia del Philadelphia Museum of Art. Da quell’elemento geometrico ripetuto nasce la scultura più monumentale di Brancusi. Esegue numerose repliche in quercia e una in gesso svetta nel suo studio dal pavimento al soffitto. Nel parco di Târgu Jiu La porta del bacio (di travertino) e La tavola del silenzio (di pietra calcarea), distanti tra loro circa 130 metri, scandiscono una prospettiva assiale lunga un chilometro e mezzo che culmina nella magnifica Colonna senza fine, quasi il basamento monumentale del cielo.

    Semplificare

    Tra le serie più significative di Brancusi è quella che inizia dalla scultura giovanile Sonno (1908, Bucarest, Muzeul National de Artã), prosegue con Musa addormentata (1909-1910), Scultura per ciechi (1920) e culmina in Inizio del mondo (1920). Sonno è una testa scolpita nel marmo adagiata sulla gota destra. Il volto emerge dalla pietra, i solchi dello scalpello sono profondi. Brancusi esegue quest’opera sviluppando il tema del non finito, secondo il gusto ornamentale della scultura simbolista. Nel 1909 Brancusi scolpisce Musa addormentata, i lineamenti del volto e i solchi dei capelli sono accennati delicatamente nell’ovale di marmo bianco levigatissimo. 11 anni dopo Scultura per ciechi è una riedizione dello stesso soggetto, la superficie pulitissima è venata soltanto dalle screziature del marmo bianco dai riflessi tra il giallo tenue e il rosa pallido. Inizio del mondo, sempre del 1920 è un ovale di marmo bianco candido e liscio, senza traccia di scalpello, montato sull’acciaio specchiante e la pietra calcarea.

    Brancusi parte da una scultura nello stile ornamentale dei simbolisti (Sonno), avanzando in un processo di semplificazione formale in cui prima purifica l’opera da ogni elemento narrativo e da ogni tratto ornamentale (Musa addormentata), poi arriva a cancellare persino le tracce del lavoro artistico, i solchi dello scalpello (Inizio del mondo). La scultura diventa così un oggetto pulito da elementi decorativi in una semplificazione formale assoluta che arriva all’essenza delle cose.

    La fotografia tra lirismo e discorso critico

    Brancusi conosce e usa la fotografia certamente dal 1904, ma è dopo la breve esperienza nello studio di Rodin (un mese, nel 1907) che inizia a sfruttarne le potenzialità ai fini della scultura. Soltanto dal 1921, e con i consigli di Man Ray, si procura un equipaggiamento professionale e allestisce una camera oscura attigua all’atelier.

    Brancusi esegue riprese fotografiche di singole sculture come Maïastra o versioni di Uccelli d’oro, opere in bronzo nelle quali si riflettono i riverberi di tutto ciò che sta intorno. Nelle fotografie mette in scena un vero discorso per immagini sul proprio lavoro, mostrando come, diversamente dai cubisti che scompongono le forme, egli cerchi forme pure dalle linee continue che piuttosto attraggono e racchiudono lo spazio circostante.

    Brancusi esegue anche riprese fotografiche dello studio. Con scorci e vedute d’insieme, registra ogni cambiamento nella posizione e nella combinazione delle sculture. Percepisce lo studio come un contesto unitario, un ambiente scultoreo dove i singoli pezzi vengono esaltati dai rapporti reciproci. Negli ultimi anni di vita si adopera affinché alla sua morte quell’insieme scultoreo, sostanzialmente un’opera d’arte unitaria, non venga smembrato e dona tutto, in un legato testamentario, allo stato francese.

    È stato affermato da più parti che la fotografia, per Brancusi, è l’occasione di una riflessione critica sulla scultura, ma anche un raffinato mezzo espressivo tout-court. Il ricchissimo materiale rimasto, tra lastre, pellicole stampe originali (più di 2000), mostra come Brancusi fotografi le sculture, da sole o assemblate in gruppi: prova le luci, combina le ombre, ritocca le stampe e le fotografa nuovamente con un gusto per i giochi di luce e le sovraesposizioni che va ben oltre un semplice uso strumentale della fotografia.

    Rimandi

    Volume 64: La reazione al positivismo: lo spiritualismo

    Volume 65: La scultura: François-Auguste-René Rodin

    Marcel Duchamp

    Il dadaismo

    New dada e nouveau réalisme

    Volume 73: Debussy, Ravel, Satie: la musica francese del primo Novecento

    Kazimir Severinovič Malevič

    Andrea Morpurgo

    Riferimento assoluto dell’astrattismo russo ed europeo, Malevič partecipa del clima progettuale della Russia degli anni Venti, che vede artisti e architetti impegnati nella costruzione di una società rinnovata, entro cui idealmente si dissolvono i confini fra arte e non arte. Ma la tensione degli anni Trenta, e il suo arresto, provocheranno un brusco cambiamento di rotta e un ritorno alla figurazione.

    Tempi nuovi

    Per comprendere l’importanza di Kazimir Malevič come pittore, ma soprattutto come teorico dell’arte, bisogna necessariamente parlare di astrattismo, corrente pittorica che all’inizio del XX secolo decide di abbandonare la pittura figurativa e, più in generale, la rappresentazione del reale. La dissoluzione delle immagini, iniziata già dall’impressionismo e proseguita dal cubismo, si radicalizza nell’astrattismo attraverso la ricerca di elementi formali primari, capaci di generare una nuova sintassi del linguaggio visivo. Attraverso un processo di semplificazione e decostruzione delle forme si arriva a un’arte caratterizzata da principi di geometria e ordine.

    La Russia d’inizio secolo rappresenta un vero e proprio laboratorio per questa nuove ricerche artistiche. Le premesse teoriche degli sviluppi successivi si possono rintracciare già nel raggismo di Mikhail Larionov e di Natalia Gončarova, movimento artistico le cui ricerche

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