Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il Cinquecento: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 48
Il Cinquecento: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 48
Il Cinquecento: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 48
E-book617 pagine6 ore

Il Cinquecento: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 48

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

In questo ebook si racconta il meraviglioso panorama dell’arte gloriosa del Cinquecento, che tocca le punte più alte nei suoi primi e nei suoi ultimi quindici anni. I risultati raggiunti dalla ricerca artistica negli anni che vanno dal Tondo Doni di Michelangelo alla volta della Cappella Sistina e dalle opere fiorentine di Raffaello alla conclusione delle Stanze Vaticane condizioneranno e quasi esauriranno gli sviluppi futuri dell’arte italiana e in parte di quella europea fino alla metà degli anni Ottanta, quando i Carracci a Bologna e Caravaggio a Roma gettano le basi per la svolta moderna verso il naturalismo seicentesco. Si descrive qui il nuovo linguaggio artistico, aulico e classico, capace di imporsi come nuova lingua nazionale portato a piena definizione da Raffaello e Michelangelo e il modo in cui le nuove forme classiche, modellate sugli esempi della statuaria antica, fissano i canoni di una bellezza ideale, che diviene specchio della dignità e della grandezza dell’uomo al centro dell’universo e della storia. Un secolo ricco di iniziative, tra cui primeggia la Maniera inaugurata da Giulio Romano, Polidoro da Caravaggio e Perin del Vaga, affiancati da Rosso Fiorentino, Benvenuto Cellini e Parmigianino nell’atmosfera colta, tollerante e raffinata di Clemente VII, che fa dell'eleganza formale, della complessità compositiva e della creatività artificiosa nelle ispirazioni tematiche la sua essenza. Mentre in campo architettonico la ripresa dei modelli classici si alimenta del mito della renovatio urbis che intende restituire alla città dei papi la grandezza monumentale della Roma imperiale, quale presupposto per la sua rinascita anche politica, in un rapporto dialettico con la classicità che lascia spazio all’invenzione dei più grandi architetti, da Giulio Romano a Gerolamo Genga, da Vignola a Sansovino, a Palladio.
LinguaItaliano
Data di uscita6 mag 2014
ISBN9788897514749
Il Cinquecento: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 48

Correlato a Il Cinquecento

Titoli di questa serie (74)

Visualizza altri

Ebook correlati

Arte per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Il Cinquecento

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il Cinquecento - Umberto Eco

    copertina

    Il Cinquecento - Arti visive

    Storia della civiltà europea

    a cura di Umberto Eco

    Comitato scientifico

    Coordinatore: Umberto Eco

    Per l’Antichità

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Lucio Milano (Storia politica, economica e sociale – Vicino Oriente) Marco Bettalli (Storia politica, economica e sociale – Grecia e Roma); Maurizio Bettini (Letteratura, Mito e religione); Giuseppe Pucci (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Eva Cantarella (Diritto) Giovanni Manetti (Semiotica); Luca Marconi, Eleonora Rocconi (Musica)

    Coordinatori di sezione:

    Simone Beta (Letteratura greca); Donatella Puliga (Letteratura latina); Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche); Gilberto Corbellini, Valentina Gazzaniga (Medicina)

    Consulenze: Gabriella Pironti (Mito e religione – Grecia) Francesca Prescendi (Mito e religione – Roma)

    Medioevo

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Laura Barletta (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Valentino Pace (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Luca Marconi, Cecilia Panti (Musica); Ezio Raimondi, Marco Bazzocchi, Giuseppe Ledda (Letteratura)

    Coordinatori di sezione: Dario Ippolito (Storia politica, economica e sociale); Marcella Culatti (Arte Basso Medioevo e Quattrocento); Andrea Bernardoni, Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche)

    Età moderna e contemporanea

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Umberto Eco (Comunicazione); Laura Barletta, Vittorio Beonio Brocchieri (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Marcella Culatti (Arti visive); Roberto Leydi † , Luca Marconi, Lucio Spaziante (Musica); Pietro Corsi, Gilberto Corbellini, Antonio Clericuzio (Scienze e tecniche); Ezio Raimondi, Marco Antonio Bazzocchi, Gino Cervi (Letteratura e teatro); Marco de Marinis (Teatro – Novecento); Giovanna Grignaffini (Cinema - Novecento).

    © 2014 EM Publishers s.r.l, Milano

    STORIA DELLA CIVILTÀ EUROPEA

    a cura di Umberto Eco

    Il Cinquecento

    Arti visive

    logo editore

    La collana

    Un grande mosaico della Storia della civiltà europea, in 74 ebook firmati da 400 tra i più prestigiosi studiosi diretti da Umberto Eco. Un viaggio attraverso l’arte, la letteratura, i miti e le scienze che hanno forgiato la nostra identità: scegli tu il percorso, cominci dove vuoi tu, ti soffermi dove vuoi tu, cambi percorso quando vuoi tu, seguendo i tuoi interessi.

    ◼ Storia

    ◼ Scienze e tecniche

    ◼ Filosofia

    ◼ Mito e religione

    ◼ Arti visive

    ◼ Letteratura

    ◼ Musica

    Ogni ebook della collana tratta una specifica disciplina in un determinato periodo ed è quindi completo in se stesso.

    Ogni capitolo è in collegamento con la totalità dell’opera grazie a un gran numero di link che rimandano sia ad altri capitoli dello stesso ebook, sia a capitoli degli altri ebook della collana. Un insieme organico totalmente interdisciplinare, perché ogni storia è tutte le storie.

    Introduzione

    Introduzione alle arti visive del Cinquecento

    Emilia Calbi

    Il nuovo linguaggio e il primato italiano

    Difficile scandire cesure cronologiche nette nel panorama dell’arte del Cinquecento. Si potrebbe concordare con lo storico Giuliano Briganti nel ritenere che gli avvenimenti artistici più importanti del secolo si siano manifestati tutti nei suoi primi e nei suoi ultimi quindici anni.

    I risultati raggiunti dalla ricerca artistica negli anni che vanno dal Tondo Doni di Michelangelo (1504) alla volta della Cappella Sistina (1508-1512) e dalle opere fiorentine di Raffaello alla conclusione delle Stanze Vaticane (1514 ca.) sono di tale portata, infatti, da condizionare e quasi esaurire gli sviluppi futuri dell’arte italiana e, in parte, di quella europea almeno fino alla metà degli anni Ottanta, quando i Carracci a Bologna e Caravaggio a Roma gettano le basi per la svolta moderna verso il naturalismo seicentesco.

    Nei primi vent’anni del secolo, tra Firenze e Roma, giunge a maturazione un nuovo linguaggio artistico, aulico e classico, di tale dignità da imporsi sulle parlate artistiche locali come nuova lingua nazionale. Stimolato dall’ansia sperimentale di Leonardo e dal confronto con l’arte antica, il nuovo linguaggio è portato a piena definizione da Raffaello e Michelangelo, in testi figurativi destinati a diventare punto di riferimento per le generazioni successive, oltreché l’asse portante della tradizione classica italiana.

    Dell’importanza di quei primi quindici anni per gli esiti futuri dell’arte si ha piena consapevolezza già nel Cinquecento. Nel celebre Proemio alla parte terza delle Vite, Giorgio Vasari, fondatore della storiografia artistica, vede nei fatti intercorsi durante il pontificato di Giulio II e Leone X, tra Roma e Firenze, l’apice di un processo di evoluzione nella quale l’arte italiana avrebbe raggiunto l’estrema perfezione, superiore persino a quella degli antichi.

    Nello schema storiografico di Vasari questo apice viene a coincidere con la terza età: la Maniera moderna, lo stile sublime di Michelangelo e Raffaello vede la definizione di un nuovo codice formale, teso a esaltare – sia in pittura che in scultura – la perfezione ideale delle proporzioni umane, riproposte – sul fondamento del disegno – nell’infinita gamma delle loro possibili articolazioni.

    Le nuove forme classiche, modellate sugli esempi della statuaria antica, fissano i canoni di una bellezza ideale che diviene specchio della dignità e della grandezza dell’uomo al centro dell’universo e della storia.

    Abitare all’antica: la ripresa degli ideali classici nella progettazione architettonica

    In campo architettonico la ripresa dei modelli classici si alimenta di quel mito della renovatio urbis che intende restituire alla città dei papi la grandezza monumentale della Roma imperiale, quale presupposto per la sua rinascita anche politica. Il confronto con la grandezza degli antichi avvia lo studio sistematico delle rovine, la rilettura dei trattati (in particolare Vitruvio, e la lettura appassionata delle fonti letterarie. Si tratta tuttavia di un rapporto articolato e dialettico che lascia largo spazio all’invenzione, e che si esprime soprattutto nel tema del palazzo e della villa, uno dei più creativi dell’architettura romana di quegli anni.

    Soprattutto la tipologia della villa diviene un momento nodale nel più ampio dibattito sulla conformazione dei nuovi edifici d’abitazione all’antica.

    Le soluzioni spaziali e le suggestioni antiquarie proposte in quegli anni da Bramante (villa di Genazzano e cortile del Belvedere), Peruzzi (Villa Chigi) e Raffaello (Villa Madama) fissano dei prototipi che diventano paradigma di riferimento per i grandi architetti del Cinquecento, da Giulio Romano a Gerolamo Genga, da Vignola a Sansovino, a Palladio.

    Esemplare il caso di Villa Madama, dove le esigenze di rappresentanza espresse dal committente, il cardinale Giulio de’ Medici, offrono a Raffaello l’occasione di realizzare in piena libertà l’ideale di un suburbanum all’antica, con logge, ippodromo, teatro, ninfeo, terme, peschiera e ampi giardini terrazzati. Nella loggia, che funge da diaframma tra architettura e natura, Giovanni da Udine realizza il più straordinario esempio di decorazione a grottesche, un genere che la passione antiquaria di Raffaello ha rivitalizzato in una felice sintesi di citazioni archeologiche, invenzioni estrose e spunti naturalistici.

    Venezia: una via autonoma al Cinquecento

    Vasari privilegia l’asse tosco-romano e la componente del disegno, considerato fondamento di tutte le arti. Ma esistono aree in cui la Maniera moderna si manifesta per altre vie che presuppongono una diversa condizione culturale e, per così dire, sentimentale.

    Nell’Italia del Nord, ad esempio, il corso autonomo dell’arte veneziana è determinato in parte dal suo isolamento geografico, in parte dai più stretti rapporti con l’arte nordica, presente a Venezia nei quadri dei pittori fiamminghi e nelle stampe dei maestri tedeschi, in parte da una cultura più incline alle divagazioni poetiche e letterarie che alla speculazione filosofica.

    Questi fattori incidono sull’orientamento degli artisti, favorendo un rapporto meno intellettualistico con la natura e quindi il superamento del sistema geometrico-prospettico di matrice quattrocentesca a vantaggio di una spazialità nuova, più fusa e avvolgente, basata sull’unità tonale delle variazioni cromatiche e luminose.

    Ciò che contraddistingue le opere di Giorgione, che inaugurano la splendida stagione della pittura veneziana, è un nuovo sentimento della bellezza, nato dalla contemplazione dello spettacolo naturale percepito nei suoi valori di colore, luce e atmosfera. Un sentimento vitale che si esprime nella calma assorta di paesaggi colmi di magia, e nella fragrante carnalità di corpi modellati non più attraverso una definizione plastico-disegnativa delle forme, ma direttamente con il colore, sfumando dolcemente i contorni.

    Dal punto di vista tecnico, la prassi di dipingere senza disegno, usando nondimeno di cacciarsi avanti le cose vive e naturali, e di contrafarle quanto sapeva il meglio con i colori (Vasari), costituisce il lascito più fecondo di Giorgione alla tradizione veneziana che fonda su di esso il segreto della sua floridezza cromatica, della morbidezza delle sue superfici, della sostanza materica dei suoi impasti.

    Su queste premesse si sviluppa l’arte di Tiziano, che saprà coniugare le nuove forme della Maniera moderna con le suggestioni del colore, indagato in tutte le sue valenze luminose ed espressive.

    La sua pittura basata su effetti cromatici farà scuola ai più grandi artisti italiani e stranieri, dai Carracci a Rubens, da Delacroix a Renoir.

    In area lombarda, l’aggiornamento della cultura artistica locale sulle novità tosco-romane passa certamente per Roma, dove – già sul finire del 1518 – si reca il giovane Correggio, il primo che seguita in Lombardia la Maniera moderna (Vasari).

    Tuttavia, innestandosi su una tradizione contrassegnata da forti interessi naturalistici, quelle novità si affermano in una variante particolarissima che riesce ad accordare l’ideale classico con il senso fisico delle cose e la tenera grazia dei sentimenti. Una variante tutta lombarda, più affabile e domestica, che dà i suoi esiti più fecondi a fine secolo, nel recupero appassionato del primo tempo dei Carracci.

    Una cresta sottile

    Quella fervida stagione, che appare ai contemporanei come una nuova età dell’oro, non è tuttavia destinata a durare a lungo. Si protrae ancora durante il pontificato di Leone X, ma già alla morte di Raffaello (1520) entra in crisi.

    Nella pienezza dei suoi valori, il classicismo rinascimentale è una cresta sottile che appena raggiunta è subito travalicata, complice la grave crisi delle coscienze prodotta dallo scisma di Lutero che spezza l’unità dei cristiani e infrange il sogno universalistico della Chiesa cattolica, il mito della renovatio, la fiducia nella razionalità della natura e della storia. Segue un clima d’incertezza e smarrimento che ha contraccolpi immediati sul piano artistico, dove si manifesta precocemente un’attitudine generalizzata alla licenza e alla trasgressione delle regole che apre il campo, nella pittura come nella scultura e nell’architettura, a nuove avventure e a nuove sperimentazioni.

    Manierismo e Maniera

    Tra la fondazione della Maniera moderna e l’avvio al naturalismo seicentesco, la passata storiografia collocava la lunga stagione del manierismo, facendoci rientrare tutte le alterazioni, variazioni e codificazioni del classicismo rinascimentale che contrassegnano le manifestazioni artistiche succedutesi nell’arco di quei sessant’anni.

    Il tentativo di verificare la validità storica della categoria del manierismo ha avviato, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, una riflessione che ha consentito di ridefinire i limiti cronologici e gli aspetti caratterizzanti di quella che oggi si preferisce chiamare la civiltà della Maniera, assumendo il termine nell’accezione che le ha attribuito il Vasari.

    Escludendo la breve ma significativa stagione dell’anticlassicismo, sbocciata dall’inquietudine di artisti eccentrici, tormentati e solitari – Rosso Fiorentino e Pontormo giovani, Berruguete e Domenico Beccafumi, Lorenzo Lotto) –, più in sintonia con l’espressionismo dell’arte nordica che con le regole del nuovo classicismo, la nuova periodizzazione fa slittare gli inizi della Maniera al terzo decennio del Cinquecento, non più a Firenze ma a Roma, nei primi anni del pontificato di Clemente VII.

    Nell’atmosfera colta, tollerante e raffinata che contraddistingue la corte del nuovo papa, i giovani allievi di Raffaello – Giulio Romano, Polidoro da Caravaggio e Perin del Vaga), subito affiancati da Rosso Fiorentino, Benvenuto Cellini e Parmigianino –, danno vita alla prima vera stagione della Maniera (lo stile clementino), trovando un comune terreno d’intesa nell’aspirazione a una suprema ricercatezza stilistica e nel gusto per la citazione archeologica, il concettismo letterario e l’eleganza decorativa (Pinelli).

    Alla corte di papa Clemente VII nasce quell’attitudine mentale che sarà comune a tutti gli artisti legati per vari tramiti alla Maniera, un’attitudine a forzare le proporzioni, i ritmi, le cadenze, gli equilibri spaziali e compositivi, a esasperare in senso plastico o decorativo i modelli classici di Raffaello e Michelangelo, a far ricorso a uno stilismo astratto e a un ossessivo citazionismo che subordina la creazione artistica all’impiego costante di norme, canoni, modelli, figure retoriche (la figura serpentinata). Se ne colgono le conseguenze in tutte quelle manifestazioni di raffaellismo e michelangiolismo che trasformano i testi fondamentali della Maniera moderna in un modello normativo, codificato in regole formali.

    Diffusione e sviluppi della Maniera

    Se entro queste nuove coordinate spaziali e temporali il termine Maniera riacquista una sua legittimità, individuando una cultura ben definita, esistono tuttavia alcune cesure cronologiche che vanno indicate per meglio scandire i tempi del suo sviluppo, a cominciare dal sacco di Roma, che determina il crollo delle libertà italiane e pone definitivamente fine a quella visione provvidenziale della storia su cui si fondavano le certezze rinascimentali.

    La diaspora degli artisti fuggiti da Roma invasa dai lanzichenecchi accelera infatti i tempi di diffusione del linguaggio manierista presso le corti italiane e straniere, avviando la formazione di un vero proprio stile internazionale che segna il trionfo del modello italiano in Europa: nella Firenze di Cosimo I, nelle corti padane, nel castello di Fontainebleau, nuova capitale della Maniera. A Roma, a Firenze, a Fontainebleau vengono a studiare i Fiamminghi e gli Olandesi che lavorano poi alle corti di Filippo II a Madrid e di Rodolfo II a Praga.

    Nella sua variante internazionale la Maniera si caratterizza come uno stile di corte, elitario, elegante e sofisticato, in perfetta sintonia con gli ideali di una società edonista ma colta, amante dei travestimenti mitologici e allegorici, spesso iniziata ai segreti dell’astrologia e dell’alchimia, sedotta dal gusto per la finzione e l’artificio.

    Un gusto che coinvolge tutti i campi dell’arte, dalla decorazione al teatro, dall’allestimento di apparati festivi al collezionismo di naturalia e mirabilia, fino alla progettazione di parchi e giardini. Questi ultimi, nel corso del secolo, diventano i luoghi deputati al libero manifestarsi del virtuosismo manierista, campo di applicazione della progettualità degli artisti e dell’estro dei committenti.

    Forti dell’esperienza maturata in ambito teatrale, nei giardini delle ville toscane e laziali, gli architetti manieristi – Buontalenti, Tribolo e Vignola – realizzano ampi spazi scenografici animati dalla presenza di scale, terrazze, labirinti, grotte, fontane, giochi d’acqua, automi, sculture, in una continua sfida tra arte e natura. La volontà di stupire e di creare situazioni impreviste raggiunge il suo culmine nel Sacro Bosco di Bomarzo, uno dei luoghi più ambigui e inquietanti che la cultura del secondo Cinquecento italiano abbia creato.

    La svolta del Giudizio e il tramonto della Maniera

    Lo scoprimento del Giudizio universale di Michelangelo (1541) segna una nuova svolta nella storia della Maniera, non solo perché la varietà dei moti e delle attitudini dei corpi giganteschi che ruotano attorno al Cristo -giudice porta nuova linfa alla volontà formalistica di un’altra generazione di artisti – Daniele da Volterra, Francesco Salviati, Giorgio Vasari, Pellegrino Tibaldi) –, ma anche perché le accuse di oscenità e di scarsa ortodossia iconografica rivolte in questa occasione a Michelangelo dalla Curia romana segnano l’inizio di un dibattito che rivela l’impegno della Chiesa a esercitare un controllo più diretto sulle immagini sacre.

    In questo tormentato clima spirituale e religioso, che coincide con la convocazione del concilio di Trento da parte del papa Paolo III, si colgono i primi germi di dissoluzione della Maniera e sarà proprio la questione delle immagini sacre a provocarne il lento, ma inesorabile esaurimento.

    L’offensiva della restaurazione cattolica nell’età della Controriforma ha immediate ripercussioni sul mondo artistico: per le sue caratteristiche intrinseche, la Maniera rappresenta uno stile profano, concettoso e sofisticato, inadeguato a soddisfare le esigenze di un’arte religiosa, nuovamente intesa come instrumentum fidei. Le generiche disposizioni contenute nel celebre decreto sulle immagini sacre, redatto nell’ultima seduta del concilio di Trento (dicembre 1563), pur senza tradursi in una normativa vincolante, finiscono per orientare gli artisti verso un’arte didascalica e popolare, accessibile e comunicativa, senza eccessi e senza stravaganze, in grado d’interpretare le esigenze di rinnovamento spirituale dell’epoca.

    Almeno fino agli anni Ottanta, la convivenza tra Maniera e Controriforma si rivela difficile, per la resistenza degli artisti a rinunciare a modelli e schemi compositivi già collaudati.Il loro superamento si attua tra compromessi e risultati contradditori. Solo quando le attese dei committenti (ordini religiosi, congregazioni, confraternite, laici) coincidono con le aspirazioni degli artisti, le istanze avanzate dalla Controriforma (sincerità, verosimiglianza e decoro) si traducono in un’arte nuova che si esprime in una pluralità di accenti, tra severità iconica, acceso spiritualismo e racconto popolare.

    Scavalcato il cadavere del manierismo , una nuova consapevolezza del reale aprirà la strada all’affettuoso naturalismo dei Carracci e a quello, ben più radicale e programmatico, di Caravaggio.

    L’altro Rinascimento: arte tedesca e arte fiamminga

    Nonostante la forza di attrazione esercitata in Europa dall’arte e dalle teorie artistiche italiane, in area nordica il superamento della tradizione tardogotica si attua all’interno di una concezione del mondo sostanzialmente antiumanistica, in netta contrapposizione con l’antropocentrismo della cultura classica.Come ha osservato Giuliano Briganti, gli umori e le propensioni della cultura nordica, ricca di straordinari fermenti espressivi, si manifestano in un realismo estraneo a ogni misurazione razionale dello spazio, sordo a ogni richiamo del classicismo, nemico di ogni idealizzazione della figura umana. Un realismo nato piuttosto da un rapporto vivissimo tra l’immaginazione più favolosa e l’attenta osservazione del mondo attraverso i sensi.

    La rinascita dell’arte tedesca passa per le ricche città imperiali (Norimberga, Augusta, Basilea), i centri di vita spirituale (Wittenberg), le città danubiane (Vienna, Ratisbona e Passau), punti nevralgici di una produzione artistica che trova nell’illustrazione grafica, nell’arte sacra e nella pittura di paesaggio gli ambiti più congeniali a esprimere una diversa concezione estetica che solo nell’opera di Dürer si attua in una continua e consapevole dialettica con l’arte italiana e, attraverso questa, perfino con l’antico.

    Già presso i contemporanei la fama e il prestigio di Albrecht Dürer, pittore, incisore e trattatista, si legano alla sua attività nel campo della grafica che, grazie alle sue innovazioni tecniche e iconografiche, raggiunge una dignità artistica pari a quella della pittura. Le stampe di Dürer, caratterizzate ora da un grafismo teso e vibrante, ora da un delicato pittoricismo, riflettono la molteplicità dei suoi interessi, inferiore solo a quella di Leonardo, la vastità della sua cultura, maturata a contatto con i cenacoli umanisti di Norimberga, e l’alta tensione spirituale di una ricerca a tutto campo sull’uomo e sulla natura.

    L’aggiornamento di Dürer sulle novità dell’arte italiana – ampiamente documentato dagli studi sulle proporzioni umane e sulla prospettiva – non giunge mai ad alterare le radici nordiche del suo stile, saldamente ancorate a un realismo narrativo ed espressionistico di straordinaria forza e suggestione.

    Ma il vertice dell’espressionismo tedesco è raggiunto da Mathias Grünewald, artista grandissimo e solitario, che nell’altare di Isenheim, in Alsazia, realizza una fra le più atroci e crude rappresentazioni dell’arte occidentale, condensando nel dramma cupo e folgorante della Crocifissione tutto il travaglio spirituale di un’epoca e di un popolo.

    Uno degli aspetti più tipici dell’arte tedesca del Cinquecento è rappresentato dall’interesse per la pittura di paesaggio, di cui si rintracciano le origini nelle opere giovanili di Lucas Cranach, ma che solo la vena mirabilmente fantastica di Albrecht Altdorfer saprà elevare a livello di forma artistica autonoma, capovolgendo il tradizionale rapporto tra uomo e natura, e rendendo quest’ultima protagonista assoluta della rappresentazione.

    Nella nuova pittura di paesaggio, nata a contatto con gli straordinari scenari delle foreste danubiane, ogni rigore prospettico si scioglie per dar luogo a un sentimento della natura che sommerge l’uomo e quasi ne annulla la presenza. La stretta aderenza al vero, riflessa nella moltiplicazione dei particolari, si salda miracolosamente con lo slancio visionario di una fantasia fervidissima che dilata gli spazi oltre ogni limite e accende i colori d’improvvisi bagliori e misteriose luminescenze. Ne discende una visione favolosa e inquietante della natura, di timbro già romantico, che troverà ampio seguito negli artisti della scuola danubiana.

    La tradizione nordica del paesaggio si afferma anche nei Paesi Bassi, dove opera Bruegel, il più grande pittore di paesaggio del Cinquecento. Nelle sue vedute a volo d’uccello, la rappresentazione della natura, indagata e descritta con precisione topografica, assume una dimensione epica e una vastità cosmica al di fuori da ogni logica spaziale. La maestà della natura diviene teatro della commedia umana, del vano affacendarsi di un microcosmo popolare e contadino vittima della propria stoltezza e della propria follia e incapace di costruirsi il proprio destino, sottomesso alle leggi della natura. Bruegel rappresenta l’altra faccia del Rinascimento, la sfiducia, il pessimismo di chi osserva il mondo con disincanto e rassegnazione.

    Un destino segnato

    Visto in prospettiva, il Cinquecento risulta fatale per le sorti dell’Italia, dove l’arte ufficiale, quella al servizio del potere, rimane legata al linguaggio aulico e illustre del classicismo almeno fino alla metà dell’Ottocento. L’eredità rinascimentale, accolta e gelosamente custodita, continuerà ad alimentare anche nel Seicento il mito di una bellezza antica e ideale, garantendo all’arte italiana un assoluto prestigio artistico e culturale. Tuttavia la dittatura del classicismo, e parallelamente del barocco, impedirà all’Italia di percorrere le strade più moderne del naturalismo che, dopo la parentesi caravaggesca, troveranno straordinari sviluppi nell’Olanda borghese e calvinista di Rembrandt e Vermeer.

    Rimandi

    Volume 53: Introduzione alle arti visive del Seicento

    Volume 59: Introduzione alle arti visive del Settecento

    Volume 65: Introduzione alle arti visive dell’Ottocento

    Il Rinascimento maturo

    Il Rinascimento al suo apice

    Irene Graziani

    È da tempo tramontata l’idea di un Cinquecento teso a evolvere verso un equilibrio classico, verso un disciplinato controllo dello stile. Accanto a fenomeni di dissidenza di artisti che, con modi irriguardosi e affannati (Longhi), si oppongono a un Rinascimento composto e armonico, si registrano segni di crisi da parte degli stessi protagonisti – Leonardo, Michelangelo, Raffaello – eletti da Giorgio Vasari (Proemio alla Parte Terza delle Vite) a modello della perfezione raggiunta dalla maniera moderna. Di questa nuova consapevolezza critica ha dimostrato di accorgersi per primo Heinrich Wölfflin (1888) quando, in una frase divenuta ormai celebre, ha paragonato ciò che per convenzione si chiama il pieno Rinascimento a una cresta sottile che, non appena raggiunta, viene subito valicata.

    La perfezzione dell’arte: Leonardo, Michelangelo e Raffaello

    L’individuazione di un apogeo culturale di cui sono primi interpreti Leonardo, Michelangelo e Raffaello attraverso le esperienze vissute a Firenze, negli anni della Repubblica, e a Roma, lungo il pontificato di Giulio II (1443-1513, papa dal 15039 fino all’età dell’oro di Leone X, è dunque il portato della visione critica e della concezione progressiva della storia dell’arte di Vasari.

    Pur essendo riuscito nell’intento di contraffare […] tutte le minuzie della natura fino a infondere alle sue figure il moto e il fiato, il linguaggio sperimentale di Leonardo rientra tuttavia a fatica nell’idea di perfezzione formulata da Vasari. L’inquietudine e l’insaziabilità della ricerca son tratti distintivi della sua biografia: vario e instabile negli interessi, Leonardo si mette ad imparare molte cose, ma una volta cominciate spesso le abbandona; non accetta senza discutere le certezze consolidate dall’autorità del sapere, ma muove continuamente dubbi e difficultà al maestro che gli insegna l’abaco; il suo cervello mai cessa di ghiribizzare. Disseminati nel testo vasariano, molteplici sono gli indizi di una nuova attitudine assunta da Leonardo nello studio della natura che vuole contraffare, pur seguendo anche buona regola, miglior ordine, retta misura. Le sperimentazioni scientifiche lo portano infatti a scoprire la qualità mutevole, sempre sfuggente della natura, che continuamente fluisce, si trasforma e si manifesta in nuovi fenomeni. Ne è riflesso la rappresentazione delle forme articolate in uno spazio biologico, concatenate in gesti e sguardi che non solo costruiscono relazioni fisiche, ma esprimono anche stati d’animo, moti interiori, come documenta il cartone londinese della Sant’Anna (National Gallery). Il sistema oggettivo della scienza prospettica, basato sui rapporti proporzionali e matematici, sembra perdere saldezza e nitore per effetto della nuova visione di Leonardo, scientifica perché fondata su un’osservazione diretta della realtà naturale, sull’esperienza sensibile: le linee non contengono più rigorosamente le forme, ma si moltiplicano, incrociandosi e sovrapponendosi per rincorrere la mobilità della figura nello spazio, e si sfumano nei contorni per restituire il senso dell’immersione delle cose nei fluidi atmosferici. In scultura Michelangelo perviene invece a una resa plastica degli effetti dinamici: il David (Firenze, Gallerie dell’Accademia), richiesto nel 1501 dai consoli dell’Arte della Lana, fa emergere la personale lettura dei suggerimenti leonardeschi nell’attenzione alla definizione psicologica del personaggio, condensata nel volto pensoso e concentrato, e nella vitalità del corpo del giovane, nonostante la posizione a riposo degli arti. L’imitazione della natura tiene conto della tradizione antica e del principio di una bellezza ritmica e regolata: atteggiato secondo il contrapposto della statuaria antica, sulla quale Michelangelo si esercita fin dalla prima giovinezza, il marmo si anima per la tensione elastica dei muscoli, il gonfiarsi delle vene, il tendersi dei nervi, l’infossarsi della gola alla base del collo a causa del respiro. David incarna l’immagine atletica dell’eroe e diventa il civis-miles (cittadino-soldato), figura esemplare di difensore dello Stato auspicata da Niccolò Machiavelli, segretario della Repubblica fiorentina, e da lui teorizzata anche nel Principe del 1513. Nella sua interpretazione del’eroe biblico Michelangelo fa confluire l’affermazione orgogliosa di una autonomia e di una libertà repubblicana, conciliando valori civili e religiosi, civiltà umanistica e cristiana. La perfezione formale, espressa dalla rappresentazione del corpo umano attraverso le proporzioni corrette e la potenza vitale dell’anatomia, non è però esente da infrazioni volute: spesso Michelangelo tende a valicare la misura classica con un dinamismo esaltato nei volumi, che forza i limiti della regola prospettica e dell’armonia della statuaria antica, aprendo fenditure nella fiducia rinascimentale di un possibile ordine, naturale e razionale. Il giovane Raffaello entra nel vivo di questa cultura e si misura con l’attività di Leonardo e Michelangelo rafforzando il proprio linguaggio individuale, già avviato verso l’assimilazione della dolcezza nei colori unita – di Pietro Perugino e Francesco Francia) – come superamento della maniera secca, cruda e tagliente della civiltà prospettica quattrocentesca (Vasari). Davanti alle sollecitazioni fiorentine resiste in Raffaello l’impianto compositivo strutturato secondo proporzioni matematiche di radice urbinate che rendono omogenea la costruzione spaziale; l’indagine sui turbamenti dell’anima, spinta da Leonardo fino alle inquietudini più istintive e irrazionali, è ricondotta entro un ordito sorvegliatissimo, e le ricerche sui valori plastici e dinamici di Michelangelo divengono funzionali a una costruzione tridimensionale delle figure.

    Una lingua illustre

    Fin dal soggiorno fiorentino Raffaello va definendo il proprio linguaggio: vocaboli di etimologia classica, accostati secondo regole di eufonia ad altri di uso moderno, ma pur sempre colti; una sintassi sviluppata in ritmi che rendono scorrevole e logica la concatenazione degli accadimenti; una prosa elevata che sembra fondarsi sulla concordanza fra argomento e stile. Ne è esempio il Trasporto di Cristo morto (1507, Roma, Galleria Borghese) in cui, entro la narrazione a fregio, scandita in una successione armonica di verticali e diagonali, risaltano le tangenze con Michelangelo: la Maria inginocchiata che si volge a reggere la Vergine, ispirata al Tondo Doni (1503-1504, Firenze, Uffizi), e il corpo di Cristo con il braccio abbandonato come nella Pietà in San Pietro (Roma), invenzione a sua volta desunta da un antico sarcofago con la Morte di Meleagro. La civiltà classica, anche nelle scoperte recenti (il Laocoonte, rinvenuto nel 1506 sull’Esquilino, preso a modello per il volto di Nicodemo), e la tradizione contemporanea sono fonti per un’eloquenza che ha significative analogie con la discussione coeva sulla questione della lingua. La proposta di Raffaello ha molte affinità con l’ipotesi elaborata da Pietro Bembo, già entro il 1512, nei primi due libri delle Prose della volgar lingua (edite nel 1525). Si cerca un linguaggio letterario perfetto, cui attribuire dignità pari al latino: l’italiano fissato in norma da Bembo deve essere modellato sulla miglior tradizione del volgare illustre; non deve essere quello della lingua parlata, ma dei letterati; deve essere composto da parole scelte, disposte sapientemente secondo principi di eufonia, e da costrutti dotati di varietà, gravità, piacevolezza. Caratteristiche, queste, che appartengono da tempo alla parlata di Raffaello e che si specificano ancor meglio nelle opere della sua maturità per trasmettere senza limiti regionali i contenuti universali della Chiesa.

    Dipingere la vita perfetta: fra’ Bartolomeo

    Il domenicano fra’ Bartolomeo, monaco al convento di San Marco a Firenze, coglie subito le potenzialità dell’oratoria, solenne ma priva di ostentazione, ideata da Raffaello attraverso una sintesi delle proposte di Leonardo e Michelangelo. I suoi dipinti devono alimentare la devozione e promuovere un ideale morale e spirituale in linea con il messaggio di Girolamo Savonarola, morto sul rogo nel 1498, ma vivo nel ricordo dei suoi sostenitori. Il loro linguaggio, come quello dei monaci predicatori dell’ordine domenicano, che più s’affaticano [ …] di ridurre gli uomini, ostinati nel peccato, a la vita perfetta (Vasari), deve esser chiaro e convincente nel delineare esempi da seguire. Nella pala oggi al Louvre, realizzata nel 1511 per la chiesa di San Marco e acquistata l’anno successivo dal governo repubblicano per farne dono all’ambasciatore francese Jacques Hurault, la sacra conversazione include il tema del matrimonio mistico di santa Caterina da Siena. Il soggetto è adatto alla destinazione monastica poiché allusivo all’unione con Dio, meta del cammino contemplativo condotto dal religioso in convento. Stimolo alle meditazioni spirituali dei monaci, e alla devozione dei fedeli, la grande tavola dispone il gruppo dei santi secondo il modello di Raffaello, da cui proviene anche l’idea del baldacchino (Raffaello, Madonna del baldacchino, Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti). I santi dialogano con la gravitas degli oratori antichi, monumentali anche grazie al punto di vista leggermente ribassato, memori della lezione della prima stanza vaticana. Naturali nelle espressioni e nelle movenze, veri nel risalto dei volumi armonizzati nella gradazione dei chiaroscuri, incarnano l’ideale di vita perfetta auspicata da Savonarola. Al suo insegnamento si ispira la prosa di fra’ Bartolomeo, che evita di adornare lo sfondo architettonico della pala con marmi o macinghi […], o altre simili pietre dal mondo stimate (Vita del beato Jeronimo Savonarola di Fra’ Pacifico Burlamacchi), e colloca all’interno della scena figure semplici e devote. Pittura e predicazione sono in perfetta sintonia.

    Dipingere senza errori: Andrea del Sarto

    Va mutando dunque lo statuto dell’artista, che si affranca dalla condizione di artigiano per accedere a quella dell’intellettuale nella scelta di un linguaggio da adattare ai contenuti secondo convenienza. La naturale predisposizione all’arte pone Andrea del Sarto, pittore fiorentino senza errori nel disegnare, nel comporre e nel colorire (Vasari), in situazione di privilegio nel misurarsi con Leonardo, Michelangelo, Raffaello. Lo dimostra la Natività di Maria, affrescata fra il 1513 e il 1514, ultimo intervento nel ciclo del chiostrino dei voti della Santissima Annunziata a Firenze: nell’interno domestico, ampio e ornato, la storia si svolge in un componimento di figure benissimo misurate e accomodate con grazia (Vasari), che rende esplicito l’interesse dominante di Andrea del Sarto per la pittura di Raffaello, anche nei più moderni esempi romani, fatta di ordine fra pause e azioni, a cui si aggiungono i moti di Leonardo ad animare i volti e gli effetti scultorei di Michelangelo a rendere tangibili i personaggi. Il confronto con i modelli risponde all’esigenza di definire un canone. In parallelo con l’elaborazione teorica condotta di Pietro Bembo, il criterio privilegiato viene individuato nel principio di armonia e di equilibrio, da variare nei ritmi e nei toni per meglio riuscire a catturare l’attenzione e a emozionare i destinatari. Ma i tempi stanno rapidamente cambiando.

    È il 1517 e la Madonna delle arpie (Firenze, Galleria degli Uffizi) per le monache del convento fiorentino di San Francesco de’ Macci, densa di significati allegorici, stupisce per la sua bellezza – come sottolinea a più riprese Vasari –, annunciando la presenza nella bottega degli allievi Jacopo Pontormo e Rosso Fiorentino, attratti dal mondo nordico e dalla grafica di Albrecht Dürer, il cui influsso si coglie nel turbamento dei volti. Anche il panneggio e la gamma cromatica dissonante indicano una ricerca di eleganza che sorpassa l’ideale di bellezza nobile e naturale di Raffaello, presagendo gli sviluppi della Maniera.

    Rimandi

    Volume 46: La rinascita scientifica

    Volume 45: Leonardo scienziato

    Il ruolo delle arti grafiche nell’età moderna

    I percorsi della Maniera

    Anticlassici ed eccentrici

    Vasari e la nascita della storiografia artistica

    Volume 48: Manierismo e anticlassicismo

    Volume 48: Filologia ed erudizione

    Il ruolo delle arti grafiche nell’età moderna

    Emilia Calbi

    L’importanza assunta dal disegno nella pratica artistica delle botteghe quattrocentesche ottiene nel Cinquecento un riconoscimento anche in sede teorica. Non solo viene considerato il fondamento di tutte le arti ma acquista valenza intellettuale in quanto espressione dell’idea che è all’origine del processo creativo. Contestualmente si ampliano e si precisano le sue funzioni nell’ambito della formazione dell’artista, della progettazione delle opere d’arte, nella ricerca scientifica e, infine, nello studio del paesaggio e del ritratto dove raggiunge una piena autonomia estetica ed espressiva.

    Il primato del disegno

    La scelta di dedicare un intero capitolo al ruolo svolto dal disegno in età moderna appare ampiamente giustificata non solo dalla centralità assunta dall’attività grafica nel corso del Cinquecento e nei secoli successivi, ma anche dal primato che in sede teorica viene riconosciuto al disegno, considerato il fondamento di tutte le arti, il padre comune da cui traggono origine la pittura, la scultura e l’architettura. Se le prime formulazioni di questo concetto si rintracciano nella trattatistica quattrocentesca Cennini, Ghiberti, Filarete, è nel corso del Cinquecento che si assiste alla sua codificazione attraverso le reiterate dichiarazioni degli scrittori d’arte e degli artisti. E se Benedetto Varchi, intervenendo in merito alla famosa disputa sul paragone delle Arti (1546), sosteneva la parità tra scultura e pittura in quanto accomunate dallo stesso principio, cioè dal disegno origine, fonte e madre di amendue loro, nel contesto della stessa disputa Pontormo dichiarava esplicitamente che una sola cosa c’è che è nobile, che è el suo [dell’arte] fondamento, e questo si è il disegno (Lezzione..., 1549).

    Quando, nell’introduzione alla seconda edizione delle Vite (1568, cap. XV), Vasari definisce il disegno padre delle tre arti nostre, architettura, scultura e pittura, la consapevolezza del suo valore fondante ha ormai assunto il carattere di un topos. Di maggior peso si rivela invece la definizione di disegno che lo storiografo aretino fornisce all’interno dello stesso testo, in quanto i termini della sua formulazione riflettono una nuova concezione dell’arte in cui l’ideazione prevale sull’imitazione, la capacità inventiva sull’abilità manuale. Frutto

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1