Le leggende del tennis. Game, set, match
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Anteprima del libro
Le leggende del tennis. Game, set, match - Angelo Mangiante
Introduzione
Non può esserci un presente senza custodire il ricordo del passato. Quello che oggi siamo è il frutto degli insegnamenti dei nostri genitori e dei nostri nonni.
Così anche nel tennis. Quello che oggi viene rappresentato nei grandi tornei del circuito mondiale è il patrimonio ereditato dalla crescita tecnica e mediatica acquisita attraverso lo spettacolo offerto dai campioni del passato.
Per questo ho pensato fosse doveroso intraprendere un viaggio a ritroso nel tempo, affondando le radici di questo libro fino a mezzo secolo fa, quando il tennis sancì la storica nascita dell’Era Open, ovvero il passaggio al professionismo. Quei mitici anni Sessanta, da Rod Laver a Nicola Pietrangeli, con cui cominciare il racconto fino ai giorni nostri.
La scelta delle leggende tiene conto non solo del numero delle vittorie nelle prove dello Slam, ovvero i quattro più prestigiosi tornei al mondo, ma anche dell’evoluzione tennistica di Darwin. Perché non ci sarebbe stata la perfezione di Federer, se prima non fosse emersa la purezza dei gesti tecnici di Sampras che, a sua volta, si ispirava alla classe immensa di Rod Laver.
Così come la scelta delle leggende non può prescindere dagli epici duelli degli anni Settanta, da Evert-Navrátilová a Borg-McEnroe. Rivalità che hanno segnato un’epoca. Dalle racchette in legno ai micidiali attrezzi tecnologici di oggi. Mezzo secolo per rivoluzionare tutto.
Da un fighter come Connors all’ossessione della vittoria di Lendl. Da un kid ribelle di Las Vegas come Agassi all’urlo di Becker per trionfare a diciassette anni a Wimbledon. Dal dominio della Graf all’accoltellamento della Seles in campo. Dal mito Borg, apripista anche di due numeri uno svedesi come Wilander e Edberg, alla bellezza che stendeva della Sharapova. Includendo la meraviglia delle vittorie a Parigi e New York di due ragazze italiane, Pennetta e Schiavone, che hanno scaldato il cuore.
Non solo vittorie, ma anche il sacrificio per arrivarci, fin dall’infanzia. Una strada lunga, tortuosa. Sudore e rinunce, in cui la carriera e, di conseguenza la vita, si decide in pochi punti che fanno l’abissale differenza.
Non solo diritto e rovescio, molto di più: una componente mentale che gioca il ruolo predominante. Solo chi è passato in quel percorso può conoscerne il peso schiacciante.
Storie di gioia e sofferenza, alimentate sempre da una spinta: la passione, imprescindibile per accompagnare ogni diversa epoca del tennis.
Un lasso di tempo cristallizzato nei ricordi, con legami profondissimi con le storiche vittorie.
Fino ai giorni nostri, con le leggende che ho avuto la possibilità di commentare in tv nelle mie tantissime telecronache su Sky Sport in giro per il mondo: da Federer e Nadal, dalle sorelle Williams fino Djokovic.
Un viaggio tra gesti tecnici e l’eredità indelebile di campioni in campo e fuori, capaci di affascinare diverse generazioni. Lo specchio di un pezzo di vita che si gioca con una rete in mezzo. Tra l’amore per il gioco, l’umana debolezza e demoni sempre diversi da superare. Con lealtà, regole e una stretta di mano finale: come dovrebbe sempre essere.
Un circuito tennistico in cui sono cresciuto e ho frequentato anche da giocatore.
Ho avuto il privilegio di entrare in classifica mondiale Atp in singolo e in doppio, giocando i tornei nel circuito professionistico. Un periodo bellissimo della mia vita, come le successive esperienze da coach. Grazie a questo percorso sono riuscito poi a diventare giornalista professionista e a raccontare lo sport in tv: un sogno realizzato.
Anche per questo, il libro è il mio personale ringraziamento al tennis.
Angelo Mangiante
Rod Laver
L’origine del mito
Il viaggio parte dalle selvagge terre del Queensland dove un piccolo ragazzino lentigginoso dai capelli rossi conquistò il mondo partendo dalla lontana Australia. Rod Laver è stato il mito e il modello di altre leggende del tennis come Pete Sampras e Roger Federer, lo svizzero non ha esitato a definire Laver il più grande campione del nostro sport che ho conosciuto
.
L’australiano ha dominato la scena del tennis mondiale negli anni Cinquanta e Sessanta. Ogni sport ha i suoi Michael Jordan, Ayrton Senna, Cassius Clay, Carl Lewis, Ingemar Stenmark o Mark Spitz. Nel tennis è la figura di Rod Laver a essere il simbolo della perfezione, raggiunta tantissimi anni dopo anche da Federer.
Figlio di un allevatore di bestiame, nasce l’8 Agosto del 1938 a Rockhampton, nello splendido Queensland. Nelle diverse tenute del padre c’è sempre un campo da tennis ed è lì, da ragazzino con i fratelli, che inizia a usare con naturalezza una pesantissima racchetta di legno. Diventerà il più dominante di tutti e vera leggenda nel 1969 dopo aver completato per la seconda volta il Grande Slam.
La sua grandezza sta proprio nell’aver conquistato il primato di unico tennista ad aver dominato nei quattro tornei di tennis più importanti per ben due volte: la prima nel 1962 da dilettante, poi sette anni dopo da professionista a seguito di un lungo esilio forzato. All’inizio della sua carriera era stato protagonista in un circuito ancora diviso tra professionisti e dilettanti e alla fine del 1962 scelse di diventare Pro unendosi al gruppo formato da Jack Kramer. Una scelta che per cinque anni gli precluse la partecipazione ai tornei dello Slam perché solo nel 1968 cambiarono finalmente le regole del circuito e cominciò l’Era Open
in cui tutti i tornei furono aperti sia ai dilettanti sia ai professionisti.
Rod Laver è considerato uno dei più grandi tennisti di tutti i tempi, per molti il più grande, per vittorie, spessore tecnico e per essere diventato un punto di riferimento per le generazioni dopo di lui. Laver, mancino dal talento purissimo, undici Slam vinti in totale, segna il passaggio al tennis professionistico.
Quando la rivoluzione del ’68 tocca il circuito, si apre un nuovo scenario per i trionfi dell’australiano che, solo un anno dopo, ci regala quattro diamanti purissimi nella stessa stagione: trionfa agli Open d’Australia, allora a Brisbane, battendo in finale Andres Gimeno 6-3, 6-4, 7-5; è la volta poi del Roland Garros, battendo in una finale onirica sul rosso Ken Rosewall 6-4, 6-3, 6-4; conquista il tempio di Wimbledon in finale sulla potenza raffinata di Newcombe, 6-4, 5-7, 6-4, 6-4; chiude il cerchio magico con la leggenda negli Open degli Stati Uniti dove a farne le spese in finale (7-9, 6-1, 6-2, 6-2) era stato Tony Roche, uno dei più grandi signori del tennis aussie.
Tutte le volte che ho avuto occasione di incontrare Rod Laver in Australia, avrei voluto inginocchiarmi di fronte a lui per quello che ha rappresentato nella storia del tennis. Ho avuto la fortuna di essere stato in Australia una decina di volte come telecronista e inviato dei giornali seguendo diverse edizioni degli Open di Australia a Melbourne e anche il Master di Sydney, nel 2001, nel nuovo complesso Olimpico, dove ero in telecronaca in coppia con Paolo Bertolucci. Raccontammo sul posto il Master con i migliori otto giocatori al mondo. Chi ama il tennis sa che l’Australia è il paese che ha saputo tenere a battesimo i più grandi campioni, custodendo la tradizione con cura e rispetto ispirando, come ha fatto Laver, le ere successive. La prima volta che andai in Australia come inviato era il 1996. Il torneo si svolgeva nel quartiere di Paddington, immerso nel verde, a Sidney. Il circolo era il White City, uno dei più suggestivi al mondo. La club house, tutta in legno, permetteva un viaggio tra i miti australiani. Come ti muovevi, trovavi i quadri con le foto in bianco e nero dei campioni australiani. C’era il diritto di Laver, il rovescio di Rosewall, il servizio di Lew Hoad, i muscoli di Emerson, passando per Stolle e Fraser fino al baffo di Newcombe o la volée di rovescio di roccia
Roche. Rimanevo lì, in religioso silenzio, ad ammirarli. Era il tempo delle racchette di legno e i completini bianchi. Classe e passione. Avevo letto e sentito talmente tante storie leggendarie su di loro che mi sentivo di essere nell’Olimpo del tennis.
Mi trovavo nello stesso White City Stadium di Sydney dove, nel 1954, la finale di Coppa Davis tra Australia e Stati Uniti portò al record di pubblico rimasto imbattuto per mezzo secolo: 25.568 spettatori. Si giocò dal 27 al 29 dicembre e Bud Collins, mitico inviato del «Boston Globe», mi raccontò che quel giorno, se l’impianto avesse potuto ospitare 90 mila spettatori, sarebbero entrati tutti dentro pagando qualsiasi prezzo per un biglietto. Per la cronaca, vinsero 3 a 2 gli Stati Uniti. Una sfida stellare sull’erba. Gli States avevano Tony Trabert e Vic Seixas. L’Australia Lew Hoad e Ken Rosewall. Una finale leggendaria.
Lo stesso impianto dove, sempre sull’erba, l’Italia affrontò l’Australia nella finale di Davis del 1977. Mezza Italia mise la sveglia la notte per seguire quelle partite da brividi, compreso il sottoscritto che allora aveva dodici anni e sognava davanti alla tv. Avevamo trionfato nella Davis l’anno prima in Cile. Stavolta l’Italia veniva dalla semifinale stravinta 4 a 1 sulla Francia. L’Australia aveva beffato invece 3 a 2 l’Argentina.
Sempre al White City Roche batté in tre set Adriano Panatta e Alexander sconfisse in quattro set Barazzutti. Nel doppio la partita perfetta di Panatta-Bertolucci per battere 6-4 6-4 7-5 Alexander-Dent, una delle coppie più affiatate del circuito, prima del punto decisivo di Alexander contro Panatta dopo una maratona pazzesca.
Proprio in quell’impianto Rod Laver impose la sua legge nel 1960. Era il Challenge Round della Coppa Davis e sull’erba Laver vinse 3 set a 0 i suoi due singolari. Nella prima giornata contro Nicola Pietrangeli e nella terza giornata contro Orlando Sirola. Finì 4-1 per l’Australia che aveva in Rod Laver la punta di diamante e, in più, l’esperienza di Neale Fraser e Roy Emerson.
L’ondata dei grandi campioni australiani degli anni Cinquanta e Sessanta ha lasciato un’impronta indelebile nel tennis: oltre a Laver, Roy Emerson è salito a dodici Slam vinti, Ken Rosewall a otto, Newcombe a sette, Crawford sei, Sedgman cinque, Hoad e Cooper quattro, Neal Fraser tre e scendendo tanti altri. Un percorso così fertile che poi ha prodotto nell’era moderna l’impossibilità di ripetere risultati così straordinari, ma comunque aprendo la via anche a successi più vicini al nostro tempo da parte di Rafter fino a Hewitt, entrambi vincitori di due Slam ed entrambi saliti al numero uno del ranking mondiale.
In totale Laver è andato in finale diciassette volte nelle prove dello Slam. La prima volta nel 1959 a Wimbledon perdendo contro Alex Olmedo. Pochi mesi dopo però arrivò a ventidue anni la sua prima vittoria in uno Slam battendo 8-6 al quinto Neale Fraser, nella finale sull’erba degli Open d’Australia.
Come tutti gli australiani era tecnicamente cresciuto sull’erba. I genitori, appassionati di tennis, lo fecero crescere con un maestro amico di famiglia, Charles Hollis. Il piccolo Rod aveva un tocco di palla favoloso e soprattutto una rapidità naturale a coprire tutto il campo, con riflessi straordinari nei pressi della rete. Doti che poi completò lavorando con una figura mitica come Henry Hopman che cominciò ad allenare Laver a diciotto anni. Rod viveva con una pallina da tennis sempre in mano, da stringere in continuazione per potenziare il polso e per irrobustire l’avanbraccio. Anni dopo venne in mente a qualcuno di misurare l’avanbraccio di Laver, non certo gigantesco, alto 1,73 centimetri per 68 chili e si scoprì che era come quello del pugile Rocky Marciano. Il polso era addirittura due centimetri più grande di quello di Floyd Patterson, campione del mondo dei pesi massimi. Con quella solidità, l’australiano perfezionò il miglior rovescio a una mano e affinò gli altri colpi del repertorio.
Il tennis di Laver è materiale da cineteca del tennis. Andrebbe esposto al Louvre, come il repertorio tecnico di Roger Federer: colpi eseguiti come un’opera d’arte alternando potenza a carezze sulla palla. Un tennis d’attacco vario. Mai una palla uguale all’altra, riusciva a disegnare il campo con una completezza tecnica in tutti i colpi e il diritto veniva accompagnato al di là della rete con la mano. Precisione unica. Il rovescio a una mano era musica tagliente, sicuro nella leggera rotazione per giocare il passante. Un backhand spesso arma debole dei mancini, micidiale sull’erba e nell’approccio a rete.
La rapidità di Laver nell’arrivare a un passo dal net e di coprire ogni zona del campo con una velocità impressionante hanno sempre giustificato il suo soprannome: "rocket", razzo. Fasce muscolari reattivissime. Pur non essendo alto, anche nello smash era insuperabile. Riuscendo a sfruttare le splendide rotazioni, slice e lift, nel servizio mancino per alternare il serve and volley a seconda della superficie. Fluidità dei colpi e mezzi atletici naturali gli hanno consentito di vincere e giocare nel circuito per quasi vent’anni. Memorabile il primo Grande Slam del 1962, a soli ventisei anni batte in finale in Australia Roy Emerson (8-6, 0-6, 6-4, 6-4), ancora Emerson per vincere il Roland Garros (3-6, 2-6, 6-3, 9-7, 6-2), Martin Mulligan (6-2, 6-2, 6-1) nella finale di Wimbledon e infine di nuovo Roy Emerson (6-2, 6-4, 5-7, 6-4) nella finale degli Open degli Stati Uniti. Quattro finali tutte australiane e un solo vincitore, il più forte e il più completo.
La passione, altra caratteristica che lo accomuna a Federer, lo ha spinto a giocare fino alla soglia dei quarant’anni salutando tutti nel 1976 e raccogliendo ovunque applausi per il suo stile, correttezza e fair play. Vederlo seduto nella Rod Laver Arena è sempre emozionante, evoca partite epiche: ho avuto la fortuna di essere in telecronaca nell’unica sfida disputata in carriera tra Federer e Sampras a Wimbledon, nel passaggio del testimone; entrambi hanno sempre detto di ispirarsi a Rod Laver. Purtroppo però il match tra Federer e Laver, per ere tennistiche diverse, non si è mai potuto disputare, ma questa partita l’ho sognata tante volte. È come se l’avessi raccontata in mille occasioni. Così come conoscere in Australia Rod Laver è stata per me la sensazione unica di trovarmi di fronte alla storia del tennis. Un meraviglioso viaggio a ritroso nel tempo.
Martina Navrátilová
Fuga per la vittoria
C’è una religiosa custodia del momento della vittoria e poi c’è un mondo che va oltre come ha marmorizzato Martina Navrátilová in questa sua frase: «il momento della vittoria è troppo breve per vivere solo di quello e niente altro». Lei è andata oltre, allargando le vittorie nelle battaglie sociali. Pensare, credere, sognare e osare. Non ha mai smesso di farlo nella sua vita Martina.
Su chi sia stata la più forte tennista di tutti i tempi si può sempre discutere. Il calcio ancora lo fa con Pelé o Maradona. Nel tennis femminile la disputa è tra Martina Navrátilová, Steffi Graf, Serena Williams, Margaret Court e aggiungerei Monica Seles, se il terribile accoltellamento in campo non avesse fermato a ventidue anni la sua straordinaria carriera.
C’è però una certezza, almeno nella mia graduatoria: Martina Navrátilová è stata la tennista più completa nella storia del tennis. Per il talento che l’ha portata a vincere tutto in singolare e in doppio. Per la passione e la forza fisica che l’ha spinta a giocare ben oltre i quarant’anni. E non certo ultimo aspetto, per il coraggio che ha avuto di fare outing, argomento allora ancora da cortina di ferro, dichiarando pubblicamente di essere lesbica, diventando il simbolo della lotta per i diritti civili e per la libertà sessuale.
Ha segnato un’epoca. Ha cambiato il tennis femminile, lo ha ribaltato. Esiste un circuito femminile prima e dopo Martina. È stata la prima donna a guadagnare in una sola stagione più di un milione di dollari, nel 1982. Allargò il confine di un tennis femminile prima di lei schiacciato dal circuito maschile e attirò l’attenzione mondiale di tutti, anche nelle sue battaglie civili, grazie a una carriera leggendaria in cui ha vinto una montagna di tornei: 167 in singolare e 177 in doppio, trionfa in diciotto Slam e rimane contemporaneamente numero uno del mondo in singolare e in doppio per oltre 200 settimane, con la bellezza di nove trofei a Wimbledon. Ma non è stato facile diventare Martina Navrátilová.
Nata a Praga il 18 ottobre del 1956 è segnata da una tragedia familiare. I genitori si separarono quando lei aveva tre anni e il padre, Mirec Šubert, ex maestro di sci, si suicidò quando Martina aveva appena sei anni. Una bambina allora divisa tra sci, hockey e calcio prima che il tennis si impossessasse della sua vita quando la mamma si risposò con Miroslav Navrátil, ex tennista che diventò il suo primo coach. A quindici anni comincia a giocare i suoi primi tornei internazionali e inizia anche la sua battaglia contro la Federazione ceca, come accadrà poi anche a Lendl nato quattro anni dopo di lei. La Federazione ceca, in pieno regime comunista, le imponeva trasferte limitate nel tempo concedendole il visto con l’obbligo di tornare nel suo paese e tratteneva buona parte dei suoi guadagni. Per questo, dopo aver fatto vincere la Federation Cup al suo paese, chiese la green card trasferendosi a Dallas.
La fuga dalla Cecoslovacchia, tra la rabbia delle autorità ceche che volevano farne il simbolo dell’atleta dell’Est, rappresentò una boccata di aria fresca per Martina che cercava un rifugio esattamente opposto sul piano della libertà. Divenne poi americana a tutti gli effetti nel 1981 acquisendo la cittadinanza Usa. La cortina di ferro ceca le fece pagare un prezzo altissimo: per rimettere piede a Praga dovette aspettare undici anni, ritornando in patria da giocatrice della Fed Cup Usa nella sfida contro la Cecoslovacchia. Solo quando ormai era negli States, Miroslav Navrátil le raccontò la verità: lui non era il padre naturale, ma quello vero era morto suicida quando lei era ancora piccola. «Per riprendermi dallo shock ho impiegato un anno» raccontò un giorno Martina.
Una vita in cui nessuno le ha regalato nulla, passando attraverso un sentiero durissimo che ha formato il suo carattere di donna coraggiosa disposta anche a metterci la faccia, sempre, senza nascondere la sua omosessualità e i suoi amori che a turno l’hanno accompagnata nella sua vita e nei tornei. Compreso quando volle come coach la transessuale Renée Richards, alta quasi due metri, che in carriera aveva