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Madhar: Capitolo 24
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E-book386 pagine5 ore

Madhar: Capitolo 24

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Info su questo ebook

Quando, verso la metà degli anni settanta, la Legge Basaglia aprì le porte dei manicomi “liberando tutti quelli che c’erano dentro”, la gente del Quartiere 24 si trovò a convivere con i cosiddetti matti. Madhar è il resoconto di un percorso di degenerazione fisica e mentale che vede come scenario gli anni ’70 e ’80 e il senso di inadeguatezza dei quarantenni di oggi. Madhar, nello stesso tempo, è un racconto della follia tragicomica di un luogo e di un’epoca, che dà voce a personaggi stravaganti custodi di segreti straordinari e che indica la ricetta di una formula magica in grado di risolvere i problemi dell’esistenza attraverso la presenza mentale, i rituali, i numeri vincenti, l’osservazione della sofferenza e l’amore. La musica dei Pink Floyd è il sottofondo musicale che conduce i tre protagonisti della storia verso la perdita di se stessi e la successiva, tentata, rinascita. Affascinante gioco sui linguaggi e sulle persone che questi linguaggi rivelano, Madhar è un affresco sonoro, una fotografia caleidoscopica, un viaggio salvifico.
LinguaItaliano
EditoreIl Prato
Data di uscita11 nov 2011
ISBN9788863361391
Madhar: Capitolo 24

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    Anteprima del libro

    Madhar - Nicola Artuso

    CAPITOLO 24

    La prima volta che ho saputo dell’esistenza della Grande Paura è stata a Villa Maria, vicino a Campo Marte, zona di treni alla deriva.

    Akasha a parte me lo ricordo bene, come se fosse ora.

    Ho meno di sette anni, ma in questo momento non mi è chiaro di preciso quanti perché sto migrando dalla bambagia dell’Innocente alla frustrazione dell’Orfano e mi trovo nella confusione più totale. L’unica cosa che so è che dobbiamo ancora trasferirci dal centro alla periferia.

    Dagli occhi della mamma vedo uscire vampate di quella cosa nello stesso istante in cui un medico novizio mi strappa via con forza dalle sue braccia per trasportarmi verso l’ambulatorio d’emergenza.

    «Viavviavvia!» urla all’infermiera che gli ostacola la corsa lungo il corridoio.

    Verso cascate di lacrime e sangue sulle piastrine della clinica, mentre lo spazio si riempie del suono della mia voce che piange il terrore di una separazione mai conosciuta prima.

    Gli occhi della mamma sono due plafoniere colme di pianto che occupano lo sfondo del quadro. Mi sporgo con le braccia oltre le spalle del dottore urlandole di non abbandonarmi a quel destino di paura. Poi però la distanza si fa così ampia da non distinguere i profili delle sagome. Porte che sbattono, voci di infermiere che gridano di fare presto, fare presto, fare presto.

    Una voce dentro la testa mi dice che non c’è niente di vero in tutto questo.

    «È solo un brutto sogno che adesso sta finendo, che sta finendo, che sta finendo…»

    Vedo un catino di acciaio luccicante che si riempie del mio sangue e un’astina di metallo che si avvicina per entrarmi in gola. Dal naso traboccano caraffe di liquido rosso con dentro pezzetti di roba più scura. Vedo la parola emorragia uscire dalle labbra del medico per entrare nell’orecchio dell’infermiera.

    È tutto troppo tanto.

    Il gusto di ferro del sangue mi nausea e il panico mi accelera la vita. Un disagio dentro che non sapevo di meritare.

    «È adesso che dovrebbe apparirmi Dio in Persona, mamma?»

    No, i tempi sono quelli che sono e le mamme non si lasciano entrare negli ambulatori di emergenza coi bambini malati che sputano sangue sui grembiuli degli infermieri. Eh no, le mamme devono tenere fuori i tentacoli della loro Grande Paura, perché lì dentro potrebbero spargere infezioni sugli strumenti e fare confusione nei pensieri dei dottori.

    Ricordo il fastidio delle cannucce che mi entrano dal naso e che scendono lungo la gola fino a bucare il cuore, la mano dell’anestesista che si avvicina con la mascherina parlando di giochi che non conosco per distrarmi da quello che sta per fare, il carosello di spirali gialle e viola che s’inghiotte tutto quello che vedo e il sipario nero dell’universo che mi chiude per sempre gli occhi.

    ADDIO MONDO CRUDELE…

    Del risveglio invece ricordo il vomito che mi viene da fare, il gusto di medicinale che m’impregna la lingua, i colori dei ghiaccioli che devo succhiare se voglio guarire e le parole adenoidi, complicazioni, emorragia, piastrine basse…

    Ricordo anche di aver saputo di non essere morto di sangue in gola. O almeno credo.

    Poi sono seduto sul letto con le gambe distese tra le cannucce che mi salgono nel naso e la voce del papà che mi dice di non starnutire. Cascasse il mondo, afferma.

    Nemmeno a farlo apposta, proprio in quel momento, il mondo inizia a cascarmi addosso e mi viene da starnutire così tanto da non riuscire a trattenermi.

    È come un rapimento estatico che sale dal centro del petto facendomi sentire il dolore delle cannucce dentro il cuore. Gli occhi che mi si chiudono al pensiero della luce, la bocca che si spalanca senza controllo e la Forza Interna che rimuove con violenza cannucce, sangue rappreso, tamponi e mucose, trasformando la camicia bianca e il volto del papà in un’opera d’arte contemporanea che nessuno ha mai visto prima d’ora. Ricordo i suoi occhi colmi di disperazione mista a paura rivolgersi al cielo e scavare nell’intonaco delle nuvole in cerca di pazienza et protezione, guarigione et benedizione, direttamente dalla Fonte, l’Excelsis Dei. Amen.

    Dei giorni seguenti invece ricordo il volto delicato di una bambina più grande che mi viene a trovare. Si chiama Caterina e dorme otto stanze più avanti. Ha la voce dolce come il rosòlio mentre mi racconta fiabe di paesi lontani e di antichi cavalieri del Signore. I suoi occhi fatti a stellina, che mi guardano dal bordo del letto, mi ricordano il Paradiso che ho appena perduto.

    Caterina ha i capelli dorati che sono lunghi come l’arcobaleno. E mi vuole tanto bene.

    L’unica cosa che non ricordo di quei giorni è proprio Lui, nonostante le mie aspettative di vederLo fossero grandi.

    È dura ammetterlo, ma credo sia stato proprio lì che ha iniziato a farsi strada il dubbio. Il primo vero dubbio della mia esistenza su come ci avevano raccontato male la parte più bella della storia.

    È partito tutto da lì, ne sono certo. Al quarto piano di Villa Maria, clinica convenzionata. Un paio di isolati a nord rispetto all’aeroporto.

    Adenoidi, emorragia, piastrine basse…

    Le menti semplici fanno collegamenti semplici. E l’unica spiegazione possibile erano due. Che se Dio non era sceso dall’alto dei cieli per visitarmi di persona era perché aveva un intervento più importante da fare con qualche bambino del Biafra che stava morendo per davvero, la prima. La seconda che non ero in grado di capire perché non fosse venuto. E siccome da ogni parte mi girassi si trattava di dolore decisi di scegliere il minor male offerto dalla casa, e iniziai a succhiare il ghiacciolo rosso pieno di E123 dolcissima che, a sentire la mamma, il papà, le infermiere e i dottori pieni di occhiali, era l’unica medicina che poteva farmi guarire nel più breve tempo possibile.

    Adenoidi, emorragia, piastrine basse…

    In quei giorni di convalescenza, in stretta osservazione e con l’obbligo di sciogliere in gola innumerevoli stalagmiti di Sammontana, osservai per ore e ore il pavimento di Villa Maria cercando di capire cosa ci fosse di tanto strano in me visto che la stanza dove mi tenevano intubato, quella di Caterina, il corridoio lungo due chilometri, l’ambulatorio e anche i bagni avevano il pavimento tempestato di piastrine basse.

    «Si chiamano piastrelle» aveva detto Caterina prima di essere dimessa e di sparire per sempre dalla mia vita.

    Ecco, quello fu un dolore grande come mille dolori.

    Mille volte più grande del Biafra.

    Mille volte più triste di un bambino che muore.

    Mille volte più pauroso di una mamma che piange.

    Mille volte più cattivo di un dio che non viene.

    Mille e non più mille e poi fino a quando lo dirò io.

    Però quella era già un’altra storia…

    Tirando le somme, di quell’esperienza mi è rimasto il fremito lungo la colonna vertebrale al solo pensiero del sangue e il gusto nauseante di ferro in gola. Ferrocromo per essere precisi.

    Gli occhi terrorizzati della mamma, anche, anzi soprattutto.

    Quelli che aveva addosso il giorno in cui mi hanno ricoverato. Due plafoniere colme di pianto che occupano lo sfondo del quadro di arte contemporanea con dentro la camicia sporca di spruzzi di sangue del papà per via del fatto che il mondo mi è cascato addosso. La prova dell’esistenza della Grande Paura.

    E quella Caterina dagli occhi a stellina che, dopo più di trent’anni, sto ancora continuando a cercare.

    Omaum tre volte.

    Era un aeroporto piccolo.

    L’entrata dei militari era sempre piantonata da uomini armati che a volte fermavano le auto della provinciale per far entrare e uscire questo o quell’altro ufficiale.

    L’entrata dei civili invece era un poco più avanti, ai piedi del cavalcavia che separava il mondo dei comuni normali da quello del Quartiere 24. Un cancello azzurro gestito da una guardiola.

    La torre di controllo era una costruzione tozza, dipinta a scacchi, che dava le spalle alla strada. Gli elicotteri dell’Aeronautica venivano parcheggiati fuori degli hangar, verso metà pista, brillanti e intoccabili come soprammobili da salotto, in perenne attesa di un ordine di decollo da parte dell’Alto Comando.

    All’estremità opposta della pista invece c’era un argine sempre verde dove di domenica i genitori portavano i bambini a vedere i Cessna trainare gli alianti e decollare radenti la rete di confine.

    Gli aerei si staccavano dal suolo uno dopo l’altro sfiorandoci i capelli con le ruote del carrello, mostrando i loro numeri segreti, dipinti sul fondo, fluttuare nell’aria.

    Di domenica era bello perché l’argine diventava uno scivolo su cui lasciarsi rotolare fino alla riva del fiume.

    Nei momenti di pausa tra i decolli e gli atterraggi, dando le spalle alla pista, si potevano ammirare le barche dei canottieri scivolare sull’acqua del fiume per poi passare sotto il ponte ferrato sopra il quale, ogni quarto d’ora, un rumore assordante di ferraglia accompagnava lo sfrecciare del treno.

    Aerei, barche e treni.

    Poi c’erano le moto da cross dei ragazzotti che correvano su e giù per l’argine zigzagando attorno alle auto degli adulti parcheggiate alla rinfusa sul bordo della recinzione vicino al cartello giallo, zona militare, limite invalicabile, vietato oltrepassare.

    A completare la lista di veicoli in grado di scivolare su superfici di diverse densità c’erano le biciclette dei papà con i figli montati sul tubo. Uno spazio di pochi metri quadrati dove buona parte dei mezzi di locomozione inventati dall’uomo sembravano essersi dati appuntamento per sfidarsi in abilità e prestazioni.

    Un posto davvero magico per un bambino se si aggiunge il fatto che tutto quell’ambaradam di movimenti fluttuanti accadeva solo di domenica, cioè di festa.

    Oltre il cavalcavia invece c’era il Manicomio.

    Era il primo stabile che uno incontrava entrando nel nostro quartiere. Un’imponente costruzione di colore bianco sporco dai cui partiva il muro di mattoni oltre il quale non si sapeva cosa ci fosse.

    A scuola e al catechismo ci insegnavano a chiamarlo Ospedale Psichiatrico, ma noi ragazzini, una volta fuori di quei luoghi sganciati dalla realtà, continuavamo a chiamarlo Manicomio.

    Gli adulti del Quartiere 24 invece sapevano fin troppo bene cosa ci fosse dentro il Manicomio, ma facevano finta di niente, come se quel luogo non fosse mai esistito. E a confermarlo era il fatto che di domenica nessuno andava mai da quella parte dell’aeroporto a vedere i ricchi col Cessna uscire dagli hangar e immettersi in pista a passo d’uomo, ma venivano tutti dove stavamo noi, sull’argine del fiume.

    La scusa era che il bello degli aerei è vedere quando si staccano da terra e sfiorano la rete di confine facendoti rizzare i capelli sulla zucca, ma il vero motivo era perché da quell’altra parte ci stava l’entrata del Manicomio. Fine della storia.

    Una domenica di quelle successe però una cosa incredibile che lasciò tutti di stucco.

    La sera precedente, al telegiornale del primo canale, avevano annunciato che dalla mattina successiva sarebbe stata resa operativa una Legge dello Stato firmata da un certo Basaglia che apriva le porte dei Manicomi liberando tutti quelli che c’erano dentro.

    E il giorno dopo infatti, proprio come diceva la Legge, le porte del Manicomio si aprirono e i matti uscirono in processione lungo la strada principale.

    Ce n’erano di tutti i colori, donne e uomini, giovani e vecchi, magri e grassi. Erano spettinati, zoppi, agitati e ridenti. Camminavano in gruppo, da soli o a coppie, ognuno con un’andatura diversa. E parlavano tutti. Parlavano, cantavano e gridavano.

    Il Piaaave mormoraaava calmo e pla cidò al passaggiooo…

    Dicevano cose da matti, ovviamente, stramberie indecenti che nessuno di noi ragazzini capiva e che nessuno degli adulti voleva capire. Ma la cosa più divertente erano i vestiti che indossavano. C’erano pigiami colorati, calzettoni a righe gialle e rosse, berretti di lana grossa, cappottoni di cento anni prima, sandali, ciabatte e stivali di gomma. Alcuni di questi, dal modo in cui indossavano quei vestiti, sembravano essere dei commendatori, altri parevano famosi pianisti, altri ancora dei geni incompresi e forse lo erano davvero. Davanti agli occhi stupefatti degli abitanti del Quartiere 24 stava accadendo quello che nessuno degli adulti avrebbe mai voluto accadesse. Avevano aperto le gabbie del circo e gli animali stavano uscendo!

    «Ciao bocia, gheto do paanche pa na ombra de bianco?»

    L’uomo che mi tendeva la mano si masticava le labbra con la lingua, marciando sul posto. Indossava un cappello da alpino da cui si partiva una lunga penna nera. Sul davanti della giacca di panno pendeva un ago di sicurezza molto più grande di quelli che vedevo maneggiare da mia nonna, al quale si agganciava un gargliardetto tricolore con sopra scritto Viva l’Italia!

    «So un cavaliero de Vitorio Veneto mì, seto?»

    Aveva lo sguardo supplichevole e la mano tremante.

    Dopo qualche istante di attesa, mentre i miei occhi allarmati tentavano di giustificarsi al mio posto, l’uomo si girò sui talloni con aria sconsolata e riprese a camminare al rallentatore lungo il bordo della provinciale. La stessa velocità con cui era arrivato.

    Quella famosa mattina la lunga processione di matti attraversò la strada principale del quartiere sotto gli occhi esterrefatti della popolazione. Gli adulti erano visibilmente turbati dalla situazione perché, dal giorno alla notte, si resero conto che quella notizia del telegiornale era vera e non riguardava qualcosa di lontano come accadeva di solito, ma riguardava noi, proprio noi: i comuni normali del Quartiere 24.

    Fu un momento terribile e glorioso nello stesso tempo.

    Gli sguardi dei matti in processione ci attraversarono come raggi X impressionando il negativo in bianco e nero della nostra memoria inesorabilmente e per sempre. Erano sguardi assenti, esaltati, pieni di vita e sofferenti. Erano occhi testimoni di paure indicibili, di luoghi bizzarri che avevano visto e di pensieri geniali che avevano avuto. Erano pupille luminose, intrise di sangue e di contenuti. Erano specchi di anime perdute, svuotate, recise e uccise dai colpi dell’elettrochoc, che fluttuavano nell’aria senza regole come gli alianti, passando sopra a tutto ed a tutti.

    Erano robe da matti.

    Dopo un’ora buona dall’apertura delle porte, quando anche l’ultimo malato ebbe percorso la strada principale fino all’altezza della chiesa, la colonna iniziò a smembrarsi. E chi solo, chi a coppie, chi mano nella mano, si inoltrarono per le strade secondarie spogliandosi dalla paura.

    Gironzolarono per il quartiere per tutto il santo giorno, esplorando le vie più sperdute e scoprendo l’esistenza del patronato e dei bar. Fecero a modo loro festa perché di festa si trattava. Come per tutti gli altri.

    Era la loro prima domenica di libertà oltre il muro dopo chissà quanto tempo e si sentivano in diritto di viverla pienamente.

    Quel giorno, nessuno degli adulti trascorse il pomeriggio sull’argine a guardare i decolli. Dopo la scena stupefacente della processione i grandi preferirono chiudersi in casa sotto una specie di coprifuoco auto indotto, con la scusa della partita di pallone. Solo noi ragazzini rimanemmo per strada a giocare dove, nonostante le indicazioni di non avvicinare i poveretti che può essere pericoloso, tra un fischio, una sassata e più di una risata vivemmo un giorno intero di carnevale.

    Ma la cosa più sconvolgente successe prima del tramonto quando, senza che nessuno lo avesse ordinato, i matti ritornarono dalle vie secondarie fino alla principale. E come una marea lenta e coordinata ripresero la processione della mattina, però al contrario, fino a farsi inghiottire dalla stessa porta del Manicomio che li aveva fatti uscire.

    Fu un evento straordinario che non modificò l’assetto del creato del Signore ma che contribuì a renderlo speciale. Come lo spettacolo del sole che tramonta nelle sere d’estate oltre le colline.

    COSE CHE NON POSSONO ESSERE

    DISTRUTTE COSI FACILMENTE

    UNA VOLTA PER TUTTE

    Chapter 24.

    Riposa in pace Roger Syd Barrett.

    Grazie di tutto.

    Omaum tre volte.

    I matti di oggi però non sono più quelli di una volta, perché i tempi non sono più quelli di una volta.

    Nei tempi precedenti la Legge Basaglia in Manicomio ci finivano i perditempo che fratelli avidi e rissosi, protetti dalla fama di grandi lavoratori, non volevano avere sulle spalle da mantenere. Ci finivano pianisti dotati di dita lunghe come fuscelli e di menti ipersensibili malcapitate a nascere in case di rozzi contadini. Ci finivano dentro gli ubriaconi depressi, disagiati, incapaci in varie qualità di intendere e di volere, puttane e recchioni che avevano pestato i piedi a qualcuno di mezzo importante perdendo la strada di casa. Ci finivano i cosiddetti esauriti. Umani di vari segni che avevano relazioni strane con il sesso e col cibo. Uomini e donne con tutte le qualità funzionanti alle quali però, a un bel punto della vita, qualcosa era andato storto nelle rotelle delle tempie. La grande innovazione della Legge era stata proprio quella di aprire le porte dei Manicomi per permettere a quella povera gente di reintegrarsi con la società circostante. E in un qualche modo aveva funzionato, perché la tanto acclamata reintegrazione avveniva nei bar, dove questi bevevano caffè, cappucci e alcolici a spron battuto e in chiesa, dove il matto di turno cantava messa a squarciagola sbagliando preghiere e toni o si toglieva le scarpe durante la predica per sistemarsi i calzini o peggio ancora si infilava le dita nel naso durante la comunione.

    C’era da morire dal ridere a vedere quella gente all’opera. E noi bambini, frequentando le stesse strade giorno dopo giorno, avevamo finito per conoscerli personalmente uno a uno. Come fossero dei coetanei.

    C’era Massimiliano Mostra a Lingua che aveva una testa esageratamente grande rispetto al resto del corpo, orecchie comprese. Chiedeva a tutti i ragazzini che incontrava di mostrargli la lingua. E quando un bel giorno qualcuno ebbe il fegato di chiedergli perché domandasse sempre a tutti quella cosa, con l’ingenuità di un bambino di otto anni, in dialetto stretto, rispose: «Parchè co vao casa me fasso e seghe.»

    Massimiliano stravedeva per Lauro Rabelli e la cosa era reciproca. Si fermavano spesso a scambiare due chiacchiere davanti al bar Frison e si vedeva chiaramente che Lauro ci parlava assieme volentieri. E quando, dopo qualche anno, quei due si trovarono a condividere il refettorio dello stesso Focolare nessuno sembrò stupirsi più di tanto.

    Il Focolare fu un’altra invenzione rivoluzionaria della famosa Legge che venne messa in pratica qualche anno dopo la grande apertura. Qualcosa come la Fase Due.

    Erano luoghi tipo chiese sconsacrate fuori mano, suddivise in stanze, con tanto di refettorio e dormitori che avrebbero dovuto sostituire i Manicomi e contenere famiglie di matti di un numero non superiore a dieci.

    Il primo Focolare della città, forse per una questione di paternità, trovò posto nello stesso quartiere che aveva ospitato per tanti anni l’istituzione principale. A metà strada tra l’ex Manicomio, l’aeroporto e il Ponte Ferrato. Poco distante da quella che poi sarebbe diventata la Casa Rosa.

    Era un quartiere fatto così, il nostro. Bello strano. I matti si erano inseriti così bene nel tessuto sociale che non si capiva più bene chi lo fosse veramente, chi lo fosse stato e chi lo stesse diventando. Se ne vedevano davvero di tutti i colori in quegli anni. Robe da capottarsi dal ridere…

    E la pacchia finì guarda caso con l’avvento dei Focolari che videro uno smembramento repentino dell’esercito di folli del Quartiere 24 in favore di un decentramento satellitare in tutti i quartieri del Comune.

    Dalle nostre parti rimase solo una sparuta rappresentanza della legione, formata non tanto dai soggetti più pericolosi della compagnia quanto dai più caratteristici. Il nome sullo stendardo, piuttosto che gli arcieri, tanto per intenderci. Massimiliano Mostra a Lingua, Enfri detto Croste, Amanda Osiris, Enrico Numis e pochi altri.

    Enrico, per dirne uno, era sempre stato l’intellettuale della compagnia di matti, oltre che il più giovane. Era praticamente un coetaneo reale di noi ragazzini e come tale frequentava la parrocchia, le messe e il catechismo.

    La sua fissa era la numismatica in senso universale, da cui il soprannome.

    Collezionava di tutto, dai bossoli della prima guerra mondiale ai francobolli di Vittorio Emanuele, con una certa simpatia per gli articoli della prima metà del secolo passato. Non importava quali fossero.

    Enrico s’intendeva di astronomia, latino, matematica e corrente elettrica. Era piuttosto invadente e logorroico se gli si dava modo di esprimere apertamente le sue qualità e trovandosi ad essere costantemente schivato dal mondo col quale tentava di reintegrarsi aveva ben presto messo in atto la tecnica già in uso dai suoi colleghi: parlava da solo. Anzi sparlava.

    «…Caporetto grave disfatta, truppe recise ardendo in battaglia…»

    Ma oltre alla condizione di matti con cui la società li aveva etichettati, Enrico, Massimiliano e gli altri avevano tra di loro un altro denominatore comune: camminavano.

    Camminavano parlando, senza dare segni di stanchezza. Camminavano parlando al cielo, al suolo, alla gente che incrociavano strada facendo e ai semafori. Parlavano ai semafori come esseri, non come luoghi. E continuavano a camminare.

    L’intero quartiere era attraversato di continuo da gruppi itineranti di coppie e viandanti singoli che vagavano dal manicomio al bar e dal bar al manicomio, dal manicomio alla chiesa e dalla chiesa al bar, per finire sempre e in ogni caso al manicomio.

    E fu proprio questa transumanza giornaliera di esseri difettati che, nel tempo, contribuì a far conoscere in tutta la provincia il nostro quartiere. A renderci in qualche modo famosi.

    Quartiere 24. Dopo il cavalcavia dell’aeroporto.

    Quello del manicomio.

    La nostra caratteristica.

    Viaggiare nel tempo è possibile. Bisogna che si sappia.

    Le cose stanno così: il passato cristallizzato sulla matrice dell’Akasha continua a mostrarsi senza dare segni di degenerazione apparente. Secondo una certa scuola di pensiero l’Akasha è un sistema accessibile, interattivo e performante, dotato di altissima risoluzione e di una qualità superiore a quella di un plasma.

    Ci operano quelli che di notte proprio non se la sentono di perdere tempo prezioso nell’oblio del sonno e che, per questa ragione, addestrano a lungo la propria mente allo scopo di sostenere viaggi spazio-temporali o anche, più semplicemente, per consultare antichi testi esoterici senza dover passare per forza per le porte principali degli archivi segreti.

    Entrare nell’Akasha non è poi così difficile come potrebbe apparire, ma ci vuole in primo luogo una discreta dose di coraggio e soprattutto un serbatoio di meriti a disposizione. In caso contrario non è che non si possa fare, soltanto che i rischi che si corrono sono tali che il ritorno al corpo non è per nulla ovvio né tantomeno garantito. Entrare nella matrice con il serbatoio in riserva è come, di questi tempi, aprire un campo Rom di fronte a un bar di naziskin, una cosa altamente sconsigliata da tutti i veggenti dei tre tempi per il rischio di incappare in qualche forma di vita elementare che per ignoranza o difetto mentale potrebbe fare il pieno di tutta la nostra forza vitale. Danneggiandoci.

    Il metodo di accesso classico comunque è quello di istruire la propria mente durante le ore di veglia a considerare tutto ciò che appare ai nostri sensi come se fosse della stessa natura di un sogno. Dopo qualche anno di pratica ininterrotta, avendo condotto una vita esente da attività sessuali, digiunando la sera e con una dieta diurna priva di carne, aglio, cipolla e alcol, si tratta di addormentarsi con il corpo supino, visualizzando una lettera A maiuscola di colore rosso sgargiante posizionata al centro della gola, dopo aver pregato a lungo di avere protezione et benedizione alle divinità benefiche con le quali si è in connessione. Eseguiti questi semplici compiti il processo è praticamente naturale e non si incontra alcuna difficoltà a decollare dal corpo fisico ed entrare con quello eterico nell’ambiente di primo livello che la presente teoria identifica come Piano Astrale.

    Una volta dentro sembra che alcune attività fisicamente inaccettabili come l’attraversamento di pareti, il volo, la velocità della luce, eccetera, siano solamente gli optional di base.

    Il viaggio nel tempo invece, afferma la teoria, è un livello successivo al quale si dovrebbe accedere solo una volta presa confidenza con l’ambiente precedente e investito un monteore di tempo in public relation con i suoi abitanti. Fatto anche questo non dovrebbe essere difficile trovare l’entrata della matrice e tuffarsi ad angelo nel registratore temporale, chiamato appunto Akasha, utilizzandone il potenziale prima per il beneficio di tutti gli esseri e poi per vantaggio personale.

    Sposando per qualche minuto questa teoria del registratore temporale e immaginando di avere portato a termine tutto l’addestramento potremmo vedere i costruttori della grande piramide di Giza all’opera con quegli enormi sigari galleggianti di cui parlano i veggenti, mentre pongono con precisione millimetrica un pietrone sopra l’altro affidando la direzione dei lavori al Grande Architetto barbuto dotato di poteri straordinari tra cui la telepatia. Oppure potremmo spostarci dall’altra parte del mondo, ben più avanti nel tempo, osservando il momento preciso in cui l’ultimo Maya varca la soglia che ha condotto la sua gente al centro della Terra e chiude dietro di sé la porta. Sbam!

    L’unica regola dei viaggi di questa natura è che non si può intervenire in alcun modo negli eventi a cui si prende parte. Non vale fare gli dèi per sentirsi superiori agli altri e non vale spaccare alcunchè di quello che si trova. Guardare senza toccare. Se si accetta questa semplice regola allora si può procedere sereni e saltare come dei grilli da un millennio all’altro fino agli anni Ottanta del secolo passato, per esempio, dove vedremmo chiaramente come certe case, lasciate deperire dall’Istituzione per mancanza di fondi, venissero occupate da bande di giovinastri in lotta contro il Sistema.

    Zummando sul Quartiere 24 di quell’epoca, come se fossimo in una sessione di Google Maps, vedremmo che la casa di cui si racconta l’occupazione, a un certo punto, fu dipinta di rosa a simboleggiare il sogno di un gruppo di ex hippy che non volevano arrendersi al Cambio dei Tempi e, in sostanza, alla degenerazione del Kaly Yuga Time.

    Spostando il visore dell’Akasha ancora di qualche grado nello spazio-tempo potremmo vedere anche che, in un quartiere limitrofo, un diciottenne di nome Savio Tonezza, che di lì a poco si sarebbe legato a doppia mandata con il fragile Lauro Rabelli, non ha ancora scoperto il messaggio segreto nascosto tra le pieghe di The Wall, ma gli è appena sorta l’idea di presentarsi in questura chiedendo di essere inviato in Libano per risolvere il conflitto in Israele offrendo a loro, su di un piatto d’argento, l’opportunità di imputare un dato-chiave nell’archivio informatizzato che stanno finendo di compilare.

    Lauro Rabelli invece, dal canto suo, non si è ancora calato del tutto nel sogno di Dio e io devo ancora cambiare nome, passare l’esame della patente e fuggire attraverso la breccia del Muro portandomi dietro i frammenti di un Segreto che non sapevo nemmeno di custodire.

    Doveva ancora succedere veramente tutto, in quei giorni.

    Tredici anni dopo Caterina dagli occhi a stellina.

    Cinque anni dopo l’attuazione della Legge Basaglia.

    Otto mesi prima di compiere diciotto anni.

    Me lo ricordo bene, Akasha a parte.

    Come se fosse ora.

    5-8-13-18-19-83

    Era l’epoca in cui Piter Punk malati di bubboni s’infiltravano in questo o quell’altro gruppo di giovani idealisti spinti dall’ambizione di divulgare nuovi codici di vita e vecchie e nuove droghe.

    Nel caos fai quello che vuoi

    Nell’ordine fai quello che vogliono

    Occupavano chiese sconsacrate e ci scrivevano sui muri interni concetti che i comuni normali del mondo, secondo loro, nell’arco di una sola vita, non avrebbero mai pensato.

    Elvio, uno di quelli, che si faceva chiamare K.a.o.s., una mattina di nebbia urbana decise di fare una cosa più stravagante del solito: raggiungere il centro cittadino prendendo l’autobus numero 18. Era un ragazzo scarno dal naso aquilino, coi capelli rasati sulle tempie e una cresta da gallo cedrone. E quell’autobus lo prese in vari sensi nel senso che, trovandolo vuoto lì, al capolinea, con le chiavi belle in sede, non vide altra soluzione che salire al posto di guida, mettere in moto e partire a tutto gas verso la provinciale urlando «Madarfaaaaaaaak!!!!»

    Figa so mare.

    L’autista, che stava al bar in attesa scoccasse l’ora di ripartire, vedendo il mezzo arancione sfrecciargli davanti agli occhi, urlò caffè a spruzzo addosso a tutti gli astanti prima di uscire in strada sbraitando «Orcatroia, nooo…» con una o lunga due isolati.

    Cose da fracassarsi le mandibole dal ridere.

    Con aria volutamente diabolica, scalando la periferia in discesa lungo la provinciale, Elvio K.a.o.s non gioì nemmeno un istante nel vedere la gente alle fermate esultare per l’anticipo del mezzo sulla tabella di marcia. Al contrario, passò davanti a quella gente a tutta birra, tendendo il dito medio davanti al parabrezza e urlando a squarciagola brandelli di testi dei Sex

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