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Il Dio Storpio: Una storia tratta dal Libro Malazan dei Caduti
Il Dio Storpio: Una storia tratta dal Libro Malazan dei Caduti
Il Dio Storpio: Una storia tratta dal Libro Malazan dei Caduti
E-book1.565 pagine26 ore

Il Dio Storpio: Una storia tratta dal Libro Malazan dei Caduti

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Info su questo ebook

I Cacciatori di Ossa marciano alla volta di Kolanse, guidati dall’Aggiunto Tavore. Là quest’ultima, priva di doti magiche o di carisma, e incapace d’instillare fedeltà nel suo esercito, sfiderà i Forkrul Assail, che vogliono simporre al mondo una purificazione devastante. Sempre che le sue truppe ribelli non la uccidono prima…
Nel regno di Kurald Galain, in cui si nasconde la città perduta di Kharkanas, i rifugiati guidati da Yedan Derryg attendono la caduta della Cascata di Luce e l’avvento di Tiste Liosan. In questa guerra che non possono vincere, moriranno in nome di una città deserta e di una regina senza sudditi?
Altrove tre Dei Antichi tramano per spezzare le catene che vincolano Korabas, il Drago Otataral. Contro la sua forza distruttrice, nessun mortale potrà opporre resistenza. Nel frattempo, alle porte di Starvald Demelain, la Casa degli Azath che sigilla il portale sta morendo. Presto giungeranno gli Eleint, la stirpe dei draghi e il cataclisma finale...
LinguaItaliano
EditoreArmenia
Data di uscita9 nov 2016
ISBN9788834435373
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    Anteprima del libro

    Il Dio Storpio - Steven Erikson

    Il libro malazan dei caduti
    Il Dio Storpio

    Il libro malazan dei caduti

    I Giardini della Luna

    La Dimora Fantasma

    Memorie di Ghiaccio

    La Casa delle Catene

    Maree di Mezzanotte

    I Cacciatori di Ossa

    Venti di Morte

    I Segugi dell’Ombra

    La Polvere dei Sogni

    Il Dio Storpio

    Il Dio Storpio

    Una storia tratta dal

    Libro Malazan dei Caduti

    Armenia

    Titolo originale dell’opera: The Crippled God

    Traduzione dall’inglese di Lucia Panelli e Paola Pavesi

    Copyright © Steven Erikson 2011

    Maps drawn by Neil Gower

    First published asTransworld Publishers,

    a division of The Random House Group Limited

    Prima edizione digitale 2016

    978-88-344-3537-3

    Copyright © 2016 Armenia S.r.l.

    Via Milano 73/75 - 20010 Cornaredo (MI)

    Tel. 02 99762433 - Fax 02 99762445

    www.armenia.it

    info@armenia.it

    Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore.

    È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

    Molti anni addietro un uomo decise di mettersi in gioco con uno scrittore sconosciuto e il suo primo romanzo fantasy – un romanzo che aveva già fatto il giro di numerose case editrici ma senza successo.

    Negli anni a seguire, senza di lui, senza la sua perseveranza, senza la sua fiducia non ci sarebbe stato alcun Libro Malazan dei Caduti.

    È stato per me un grande privilegio lavorare

    con lo stesso editore dall’inizio alla fine ed è per questo che dedico Il Dio Storpio al mio curatore

    e amico Simon Taylor.

    Ringraziamenti

    Un grazie dal profondo del cuore a tutti coloro che si sono prestati alla lettura del manoscritto, lettura che spesso ho imposto loro con breve preavviso e forse nei momenti meno opportuni: A. P. Canavan, William Hunter, Hazel Hunter, Baria Ahmed e Bowen Thomas-Lundin. E al personale di The Norway Inn di Perranarworthal, di Mango Tango e Costa Coffee a Falmouth, che a modo suo ha preso parte alla stesura di questo romanzo.

    E un enorme grazie a tutti i miei lettori, che (presumibilmente) sono rimasti con me fino a al decimo e conclusivo romanzo della saga del Libro Malazan dei Caduti. Ho apprezzato molto la nostra lunga conversazione. Che cosa sono tre milioni e mezzo di parole tra amici?

    Potrei porre la stessa domanda ai miei editori. Grazie per la vostra pazienza e il vostro sostegno. La bestia è stata domata e riesco a sentire i vostri sospiri di sollievo.

    Infine, un ringraziamento particolare a mia moglie, Clare Thomas, che ha penato non solo lungo il calvario che ha portato alla stesura di questo romanzo ma anche nel corso di tutti quelli che lo hanno preceduto. Se non sbaglio era stata tua madre a metterti in guardia dallo sposare uno scrittore…

    CARTINA

    ELENCO DEI PERSONAGGI

    In aggiunta ai personaggi di

    La Polvere dei Sogni

    I MALAZAN

    Himble Thrup

    Sergente Occhio-Smunto

    Caporale Rib

    Lap Twirl

    Afflitta

    Burnt Rope

    L’ARMATA

    Ganoes Paran, Gran Pugno e Signore del Mazzo

    Sommo Mago Noto Boil

    Ricognitore Hurlochel

    Pugno Rythe Bude

    Capitano Sweetcreek

    Ormulogun, Artista Imperiale

    Gumble, il suo critico

    Mathok, Signore della Guerra

    T’morol, la sua guardia del corpo

    I KHUNDRYL

    Vedova Jastara

    IL SERPENTE

    Sergente Cellows

    Caporale Nithe

    Sharl

    I T’LAN IMASS: I BATTITORI LIBERI

    Urugal l’Intessuto

    Thenik l’Infranto

    Beroke Voce Sommessa

    Kahlb il Cacciatore Silenzioso

    Halad il Gigante

    I TISTE ANDII

    Nimander Golit

    Spinnock Durav

    Korlat

    Skintick

    Desra

    Dathenar Gowl

    Nenanda

    GLI JAGHUT: I QUATTORDICI

    Gathras

    Sanad

    Varandas

    Haut

    Suvalas

    Aimanan

    Hood

    I FORKRUL ASSAIL: I LEGITTIMI INQUISITORI

    Reverenza

    Serenità

    Imparzialità

    Pacatezza

    Obbedienza

    Fedeltà

    Elevazione

    Quiete

    Rivelazione

    Libertà

    Austerità

    GLI ANNACQUATI: I LIVELLI DI ASSAIL INFERIORE

    Amiss

    Exigent

    Hestand

    Festian

    Kessgan

    Trissin

    Melest

    Haggraf

    I TISTE LIOSAN

    Kadagar Fant

    Aparal Forge

    Iparth Erule

    Gaelar Throe

    Eldat Pressan

    ALTRI

    Absi

    Spultatha

    K’rul

    Kaminsod

    Munug

    Silanah

    Apsal’ara

    Tulas Shorn

    D’rek

    Gallimada

    Korabas

    LIBRO PRIMO

    «ERA UN SOLDATO»

    Sono riconosciuto

    Nel culto dell’ira.

    Adoratemi come una pozza

    Di sangue nelle vostre mani.

    Bevete a sazietà.

    Rancore e odio

    Ribollono e bruciano.

    I vostri coltelli erano piccoli

    Ma numerosi.

    Vengo invocato

    Nel culto dell’ira.

    Adoratemi quando sarò morto

    Allungando quelle vostre mani

    Dai tagli profondi.

    È questa una canzone di sogni

    Ridotti in cenere.

    I vostri desideri sono straripati

    Ma ora restano immoti.

    Vengo affogato

    Nel culto dell’ira.

    Adoratemi nella morte

    E schiacciate

    Montagne d’ossa.

    Il libro più sincero

    È quello che non viene mai aperto

    Nessun desiderio resta insoddisfatto

    Nel gelido giorno consacrato.

    Cercatemi

    Nel culto dell’ira.

    Adoratemi in

    Un flusso di maledizioni.

    Questo stolto aveva fede

    E nei sogni ha pianto.

    Ma percorriamo un deserto

    Disseminato di accuse

    dove nessun uomo muore di fame

    con l’odio nelle ossa.

    Notte del poeta i.iv

    Il Libro Malazan dei Caduti

    Fisher kel Tath

    CAPITOLO UNO

    Se non conosceste

    I mondi nella mia mente

    Il vostro senso di perdita

    Sarebbe poca cosa

    Che perderemmo lungo il cammino.

    Prendete ciò che vi viene dato

    E celate quel volto accigliato.

    Non lo merito

    non importa quanto angusta sia

    la spiaggia della vostra costa segreta.

    Se farete del vostro meglio

    Incontrerò il vostro sguardo.

    È di quel pugno di frecce strette tra le mani

    Che ho paura

    E che si piegano a quel sorriso lungo il mio cammino.

    Non ci incontreremo nel dolore

    O per sanare

    Altre profonde ferite.

    Non abbiamo danzato sullo stesso

    Ghiaccio sottile

    E la mia compassione per i vostri dolori

    La dono liberamente senza pretesa

    Di reciprocità o pesi sulla bilancia.

    È giusto così, e nient’altro.

    Sebbene per molti

    Tutto ciò sia sconosciuto.

    Ma ci saranno segreti

    Che non scoprirete mai

    E non cambierò niente di tutto ciò.

    Tutte le mie frecce sono sepolte e

    La spiaggia sabbiosa è ampia

    E ciò che è segreto

    Si placa inchiodato sull’altare.

    Persino le gocce sono scomparse,

    quel bambino dai molti desideri

    dalla mente colma di mondi

    e di lacrime versate.

    Quanto odio i giorni in cui mi sento mortale.

    I giorni nei miei mondi

    sono dove vivo per sempre

    e se mai dovesse giungere l’alba

    mi risveglierò alla sua luce

    come un essere rinato.

    Notte del poeta iii.iv

    Il Libro Malazan dei Caduti

    Fisher kel Tath

    Cotillion estrasse due pugnali. Lo sguardo si posò sulle lame. Le superfici di ferro annerito sembrarono mulinare, due fiumi di peltro che filtravano attraverso buchi e fessure, il filo delle lame tormentato dove armatura e osso avevano rallentato l’affondo. Tornò a osservare gli spaventosi riflessi di quel cielo malato e infine disse: «Non intendo spiegare un accidenti di niente». Sollevò lo sguardo, duro, freddo. «Mi hai capito?».

    La figura innanzi a lui restò impassibile, incapace di mostrare alcuna emozione. I brandelli di tendini imputriditi e di strisce di pelle erano immobili sulle ossa di tempie, guance e mascella. Gli occhi erano vuoti, totalmente vuoti.

    Be’, decise Cotillion, meglio di un impassibile scetticismo. Oh, quello non lo sopportava proprio più. «Dimmi», riprese, «che cosa pensi di vedere qua? Disperazione? Panico? Una carenza di volontà, un inevitabile declino sintomo di incompetenza? Credi nell’insuccesso, Edgewalker?».

    L’apparizione restò alcuni istanti in silenzio, infine parlò con voce rotta, stridula: «Non puoi essere tanto… temerario».

    «Ti ho chiesto se credi nell’insuccesso, perché io non ci credo».

    «Anche se dovessi farcela, Cotillion. Al di là di qualsiasi aspettativa, persino al di là del desiderio. Loro parleranno della tua sconfitta».

    L’altro rinfoderò i pugnali. «tu sai quello che possono fare a loro stessi».

    La testa s’inclinò, ciuffi di capelli pendenti e molli. «Arroganza?».

    «Competenza», sbottò Cotillion. «Se dubitate di me lo fate a vostro rischio e pericolo».

    «Non ti crederanno».

    «Non m’importa, Edgewalker. Sia come sia».

    Quando si mosse, non restò sorpreso di essere seguito dal guardiano immortale. Lo abbiamo già fatto. Polvere e cenere si sollevavano a ogni passo. Il vento gemeva come intrappolato in una cripta. «È quasi ora, Edgewalker».

    «Lo so. Non puoi vincere».

    Cotillion si fermò, girò appena la testa. Sul volto un sorriso perverso. «Ma non significa che io debba perdere, no?».

    La polvere si sollevò, turbinando nella sua scia. Dalle spalle si trascinavano dozzine di catene spettrali: ossa piegate e ripiegate in anelli irregolari, ossa antiche in sfumature tra il bianco e il marrone scuro. Moltitudini di individui formavano ciascuna catena, crani deformi picchiettati da capelli, spine dorsali fuse, femori che sbatacchiavano e cozzavano. Si trascinavano dietro di lei come il lascito di un tiranno e lasciavano nella terra avvizzita, grovigli di solchi che si allungavano per leghe intere.

    Il suo passo non conosceva tentennamenti e lei proseguiva sicura e imperterrita come la discesa del sole all’orizzonte, inesorabile come l’oscurità che lentamente avanzava. Era indifferente ai concetti di ironia e al sapore amaro della derisione irriverente che tanto poteva bruciare il palato. In tutto ciò c’era solo necessità, la più famelica di tutti gli dei. Lei aveva conosciuto la prigionia. E quei ricordi erano ancora vividi, ma non erano ricordi di mura di cripte e di tombe buie. Certo, c’era oscurità, ma anche pressione. Pressione terribile, insopportabile.

    La pazzia era un demone che viveva in un mondo di necessità impotenti, di desideri inappagati, un mondo senza risoluzione. La pazzia, sì, lei aveva conosciuto quel demone. Avevano mercanteggiato con monete di dolore, e quelle monete provenivano da una camera segreta che non si svuotava mai. Un tempo lei aveva conosciuto una simile ricchezza.

    Eppure l’oscurità la inseguiva ancora.

    Continuò a camminare, una cosa dalla testa pelata, la pelle color del papiro scolorito, lunghe gambe e braccia che si muovevano con inaspettata grazia. La terra intorno a lei era vuota, piatta ovunque tranne davanti a lei, dove una catena di colline erose e incolori disegnava un ondeggiante artiglio lungo l’orizzonte.

    Aveva portato con sé i suoi antenati, che producevano un coro sbatacchiante e caotico. Non ne aveva lasciato uno dietro di sé. Ogni tomba della sua stirpe ora era vuota, svuotata come i teschi che aveva razziato dai loro sarcofagi. Il silenzio parlava sempre di assenza. Il silenzio era il nemico della vita e lei non sarebbe stata circondata dal silenzio. No, quelli parlavano con raschi e borbottii, avi perfetti, ed erano le voci della sua canzone personale, voci che tenevano a bada il demone. Negoziazioni e contrattazione non facevano più per lei. Vi aveva messo la parola fine.

    Sapeva che i mondi – isole pallide nell’Abisso – tanto tempo fa brulicavano di creature. I pensieri di queste ultime erano semplici e schietti e dietro di essi non c’erano altro che tenebre, abissi di ignoranza e paura. Quando i primi baluginii si erano risvegliati in quell’oscurità confusa, avevano tremolato fino ad accendersi e a bruciare come piccoli fuochi. Ma la mente non si era risvegliata a se stessa sulle note della gloria. Né della bellezza e nemmeno dell’amore. Non si era risvegliata nella gioia o nel trionfo. Quei fuochi nati alla vita appartenevano a una e una cosa sola.

    La prima parola della mente senziente era stata giustizia. Una parola per alimentare l’indignazione. Una parola per dare alla volontà il potere di cambiare il mondo e le sue condizioni crudeli, una parola per portare rettitudine all’infamia brutale. Giustizia, che era esplosa alla vita nel suolo oscuro della natura indifferente. Giustizia, per legare famiglie, per costruire città, per ideare e per proteggere, per dare vita a leggi e proibizioni, per instillare nelle religioni il turbolento temperamento degli dei. Tutte le convenzioni stabilite erano emerse contorcendosi e diramandosi da quell’unica radice, disperdendosi nel cielo abbagliante.

    Ma lei e quelli della sua specie erano rimasti avviluppati alla base di quell’albero enorme, dimenticati, schiacciati; e da quel luogo, sotto pietre, legati alle radici e alla terra oscura, erano stati testimoni della corruzione della giustizia, della sua perdita di significato, del suo tradimento.

    Dei e mortali, nel distorcere le verità, con le loro azioni avevano macchiato ciò che un tempo era puro.

    Be’, la fine si avvicinava. La fine, miei cari, si avvicina. Non ci sarebbero più stati bambini che sarebbero sorti dalle ossa e dai detriti per ricostruire ciò che era andato perduto. Dopotutto, tra di loro ce n’era forse almeno uno che non avesse succhiato al seno della corruzione? Oh, avevano nutrito il loro fuoco interiore, ma avevano accumulato la luce, il calore, come se la giustizia appartenesse solo a loro.

    Era sconvolta. Fremeva di sdegno. La giustizia divampava in lei ed era un fuoco che cresceva di giorno in giorno, mentre dal cuore meschino dell’Incatenato scorrevano fiumi inarrestabili di sangue. Restavano dodici Puri, che se ne alimentavano. Dodici. Forse ve n’erano altri, persi in luoghi remoti, ma a lei sconosciuti. No, quei dodici sarebbero stati il volto della tempesta finale e lei sarebbe emersa su tutti loro, sarebbe stata al centro di quella tempesta.

    Proprio a quello scopo, tanto tempo addietro, le era stato imposto il suo nome. I Forkrul Assail erano un popolo indubbiamente paziente, sebbene ormai anche la pazienza fosse una virtù perduta.

    Uno strascico di catene d’ossa, Quiete avanzò nella pianura, mentre la luce del giorno si spegneva alle sue spalle.

    «Dio ci ha abbandonato».

    Tremante, in preda alla nausea, mentre qualcosa di gelido e sconosciuto gli scorreva nelle vene, Aparal Forge si morse la lingua per soffocare una risposta piccata. Questa vendetta è più antica di qualsiasi causa tu ti prenda la briga di inventare, e per quante volte tu possa pronunciare quelle parole, Figlio della Luce, le menzogne e la pazzia si schiudono come fiori sotto il sole. E davanti a me non vedo altro se non chiassosi campi rossi, che si estendono in tutte le direzioni.

    Quella non era la loro battaglia, non era la loro guerra. Chi ha inventato la legge secondo la quale il figlio deve raccogliere la spada del padre? E caro Padre, volevi davvero andasse così? Lei non ha forse abbandonato il suo compagno e ha preso te per sé? Non ci hai ordinato di giungere alla pace? Non ci hai detto che noi figli dobbiamo essere una cosa sola sotto il neonato cielo della vostra unione?

    Quale crimine ci ha risvegliato?

    Non riesco nemmeno a ricordare.

    «Lo senti, Aparal? Il potere?».

    «Lo sento, Kadagar». Si erano allontanati dagli altri, ma non tanto da sottrarsi alle grida angosciose, al ringhio dei Segugi o, trasportato in spettrali fiumi, al respiro feroce del gelo sulle loro schiene. Innanzi a loro si ergeva la barriera infernale. Un muro di anime intrappolate. Un’onda di disperazione che cresceva e si abbatteva senza sosta. Attraverso il velo screziato, fissò i volti a bocca spalancata, vide il terrore nei loro occhi. Non eravate diversi, vero? A disagio con la vostra eredità, la lama pesante che si rigirava tra le vostre mani.

    Perché dovremmo pagare per l’odio di qualcun altro?

    «Che cosa ti inquieta, Aparal?».

    «Non possiamo conoscere il motivo dell’assenza del nostro dio, Signore. Temo sia presuntuoso da parte nostra parlare di un suo insuccesso».

    Kadagar Fant non replicò.

    Aparal chiuse gli occhi. Non avrebbe dovuto parlare. Non imparo mai. Lui ha percorso un sentiero lastricato di sangue per regnare e le pozze nel fango luccicano ancora di rosso. L’aria intorno a Kadagar resta pungente. Questo fiore trema sfiorato da venti segreti. Lui è pericoloso, terribilmente pericoloso.

    «I Sacerdoti hanno parlato di impostori e imbroglioni, Aparal». Il tono di Kadagar era piatto, privo di intonazione. Era la voce che usava quando era furibondo. «Quale dio lo permetterebbe? Siamo stati abbandonati. Il cammino innanzi a noi ora non appartiene a nessun altro; spetta a noi scegliere».

    A noi. Sì, tu parli per tutti noi, anche mentre ci facciamo piccoli per le nostre confessioni. «Perdonate le mie parole, Signore. Sono sofferente. Il sapore…».

    «Non avevamo scelta, Aparal. Ciò che ti nausea è il sapore amaro del suo dolore. Passerà». Kadagar sorrise e gli diede una pacca sulla spalla. «Comprendo la tua momentanea debolezza. Ma dimenticheremo i tuoi dubbi, va bene? E non parlarne mai più. Dopotutto, siamo amici e mi addolorerebbe molto doverti marchiare come un traditore. Aggredito al Muro Bianco… m’inginocchierei e piangerei, amico mio. È quello che farei».

    Un moto di rabbia attraversò Aparal, facendolo tremare. Per tutti gli Abissi! Criniera del caos, ti sento! «Ai vostri ordini, Signore».

    «Signore della Luce!».

    Aparal si girò, imitato da Kadagar.

    Il sangue che scorreva dalla bocca, Iparth Erule si avvicinò barcollando, gli occhi spalancati e fissi su Kadagar. «Mio signore, Uhandahl, l’ultimo a bere, è appena morto. Lui… si è strappato la gola!».

    «Allora è finita», commentò Kadagar. «Quanti?».

    Iparth si leccò le labbra, trasalendo per il sapore, e poi disse: «Voi siete il Primo di Tredici, Signore».

    Sorridendo, Kadagar avanzò oltre Iparth. «Kessobahn respira ancora?».

    «Sì. Si dice che possa sanguinare per secoli…».

    «Ma il sangue ora è veleno», replicò Kadagar, annuendo. «La ferita deve essere fresca, il potere puro. Tredici, hai detto. Ottimo».

    Aparal guardò il drago inchiodato al declivio dietro Iparth Erule. Le enormi lance che lo immobilizzavano a terra erano ricoperte di sangue rappreso. Avvertiva il dolore dell’Eleint sgorgare in ondate continue. Il drago cercò più volte di sollevare la testa, gli occhi in fiamme, le fauci spalancate, ma la trappola non cedette. I quattro Segugi della Luce sopravvissuti lo circondavano tenendosi a distanza, il pelo sollevato mentre guardavano il drago. Nel vederli, Aparal avvolse le braccia intorno a sé. Un altro folle azzardo. Un altro amaro fallimento. Signore della Luce, Kadagar Fant, non ti sei comportato bene nel mondo dell’aldilà.

    Oltre quel terribile panorama, e davanti a quell’oceano verticale di anime immortali immerse in una derisoria follia, si ergeva il Muro Bianco, che nascondeva i decrepiti resti della città Liosan di Saranas. Le lunghe strisce scure e indistinte che lo delimitavano, estendendosi subito sotto il parapetto merlato, erano tutto quello che riusciva a distinguere dei fratelli e delle sorelle che erano stati condannati come traditori della causa. Sotto i loro cadaveri avvizziti si allungavano le macchie di ciò che i loro corpi avevano prosciugato dal rivestimento di alabastro. Ti inginocchieresti a piangere, vero, amico mio?

    «Signore, intendete lasciare l’Eleint così?», domandò Iparth.

    «No. Propongo qualcosa di più appropriato. Riunisci gli altri. Ci trasformeremo».

    Aparal trasalì ma non si girò. «Signore…».

    «Ora siamo i figli di Kessobahn, Aparal. Abbiamo un nuovo padre, in sostituzione a quello che ci ha abbandonati. Ai nostri occhi, Osserc è morto e così resterà. Persino Padre Luce s’inginocchia spezzato, inerme e cieco».

    Gli occhi di Aparal restarono su Kessobahn. Pronuncia simili blasfemie sufficientemente spesso e diverranno banali, usuali, incapaci di sconvolgerti. Gli dei perdono il loro potere e noi ci eleviamo al loro posto. Il drago antico piangeva sangue e in quei grandi occhi sconosciuti non c’era altro che ira. Nostro padre. Il tuo dolore, il tuo sangue, il nostro dono a te. Ahimè, è l’unico dono che conosciamo. «E una volta che ci saremo trasformati?».

    «Ma è ovvio, Aparal, distruggeremo l’Eleint».

    Sapeva quella che sarebbe stata la risposta e annuì. Nostro padre.

    Il tuo dolore, il tuo sangue, il nostro dono. O Padre Kessobahn, onora la nostra rinascita con la tua morte. E per te, non vi sarà ritorno.

    «Non ho niente con cui contrattare. Che cosa ti porta da me? No, questo lo so. Il mio servo spezzato non può spingersi lontano, nemmeno nei sogni. Storpio, sì, è così che sono ridotto in questo mondo maledetto. Hai visto il suo gregge? Quali doni potrà mai elargire, lui? Nient’altro che miseria e sofferenza, eppure le orde continuano a riunirsi, orde urlanti, supplicanti. Oh, un tempo le guardavo con sdegno. Un tempo godevo per la loro sofferenza, le loro scelte sbagliate e la loro sfortuna. Per la loro stupidità.

    «Ma nessuno sceglie la portata del proprio acume. Possiedono ciò con cui sono nati e niente più. Attraverso il mio servo vedo nei loro occhi – quando oso fino a quel punto – e loro mi guardano, con uno strano sguardo, uno sguardo che per molto tempo non sono riuscito a comprendere. Famelico, traboccante di miseria, di povertà. Ma io sono il Dio Straniero. L’Incatenato. Il Caduto. E la mia parola sacra è Dolore.

    «Eppure quegli occhi imploravano.

    «Ora capisco. Che cosa mi chiedono? Quegli stupidi ottusi colmi di paure, i volti terrorizzati e orribili al punto da fare indietreggiare un testimone. Che cosa vogliono? Te lo dico io. Vogliono la mia pietà.

    «Vedi, sanno quanto insignificante ed esiguo sia il loro bagaglio intellettivo. Sanno di mancare di intelligenza e che tale mancanza è una maledizione per loro e la loro vita. Hanno lottato e urlato fin dall’inizio. No, non mi guardare in quel modo, tu che possiedi un intelletto sottile e lineare, tu doni la tua compassione troppo velocemente ed è lì che si cela la convinzione della tua superiorità. Non nego la tua intelligenza, ma mi interrogo sulla tua compassione.

    «Loro volevano la mia pietà. Ce l’hanno. Io sono il dio che risponde alle preghiere; tu o qualsiasi altro dio potete dire lo stesso? Vedi come sono cambiato. Il mio dolore, che stringevo egoisticamente a me, ora si diffonde per sfiorare come una mano spezzata. Noi tocchiamo comprensivi e trasaliamo a quella carezza. Ora sono un tutt’uno con loro.

    «Tu mi sorprendi. Non credevo che tutto questo avesse valore. Quanto vale la compassione? Quante pile di monete equilibrano la bilancia? Il mio servo un tempo sognava la ricchezza. Un tesoro sepolto nelle colline. Seduto sulle gambe avvizzite, implorava i passanti. Ora tu mi guardi; sono troppo affranto per riuscire a muovermi e sto qui, avvolto nel fumo, il vento che sferza senza sosta le pareti di questa tenda. Non c’è bisogno di contrattare. Io e il mio servo abbiamo perso entrambi il desiderio di implorare. Vuoi la mia pietà? Te la dono. Gratuitamente.

    «C’è bisogno che ti parli del mio dolore? Guardo nei tuoi occhi e trovo la risposta.

    «È la mia ultima recita. L’ultima. Qualora dovessi fallire…

    «Molto bene. Non ci sono segreti. Allora, prenderò il veleno. Nel fragore del mio dolore, sì. Dove se no?

    «La morte? Da quando la morte è un fallimento?

    «Perdona la tosse. Avrebbe dovuto essere una risata. Vai, allora, stringi patti con quei parvenu.

    «La fede è tutto ciò, lo sai. Pietà per le nostre anime. Chiedilo al mio servo e te lo dirà. Dio guarda nei tuoi occhi, e si fa piccolo».

    Tre draghi incatenati per i loro peccati. A quel pensiero Cotillion sospirò, a un tratto cupo. Se ne stava a una ventina di passi, immerso nella morbida cenere fino alle caviglie. L’ascendenza, rifletté, non era così lontana dal quotidiano come gli sarebbe piaciuto. Aveva la gola chiusa, come se i canali di passaggio per l’aria si fossero ristretti. I muscoli delle spalle gli dolevano e un rombo sordo lo martellava dietro agli occhi. Fissò gli Eleint imprigionati, sdraiati, scarni e cadaverici tra nugoli di polvere, e si sentì… mortale. Che l’Abisso mi prenda, sono stanco.

    Edgewalker lo raggiunse, silenzioso e spettrale.

    «Ossa e poco altro», mormorò Cotillion.

    «Non lasciarti ingannare», affermò Edgewalker. «Pelle, carne, sono solo abiti. Indossati o gettati via a piacimento. Vedi le catene? Sono state messe alla prova. Teste che si alzano… l’odore della libertà».

    «Come ti sei sentito, Edgewalker, quando tutto quello che possedevi ti si è sbriciolato tra le mani? Il fallimento ti ha travolto come un muro di fuoco?». Si girò verso l’apparizione. «Pensandoci bene, quegli stracci che indossi sembrano bruciati. Ricordi il momento in cui hai perso tutto? Il mondo ha echeggiato al tuo ululato?».

    «Se stai cercando di tormentarmi, Cotillion…».

    «No, non lo farei mai. Perdonami».

    «Tuttavia, se queste sono le tue paure…».

    «No, non sono le mie paure. Per niente. Sono le mie armi».

    Edgewalker sembrò tremare, o forse le ceneri sotto i mocassini marci gli provocarono un brivido, un breve squilibrio. Ripresosi, l’Antico fissò Cotillion con vuoti occhi bui. «Tu, Signore dei Sicari, non sei un guaritore».

    No. Qualcuno sconfigga il mio malessere, vi prego. Pulisca il taglio, estirpi ciò che c’è di malato e me ne liberi. L’ignoto ci perseguita e ci rende malati, ma la conoscenza può risultare velenosa. E vagare persi tra i due non è meglio. «Esiste più di un cammino verso la salvezza».

    «È strano».

    «Che cosa?».

    «Le tue parole… con un’altra voce, provenienti da… qualcun altro, sarebbero di conforto e rassicurazione per chi ti ascolta. Dette da te, ahimè, possono solo gelare un’anima mortale».

    «Questo è ciò che sono», replicò Cotillion.

    L’altro annuì. «Sì, è ciò che sei».

    Cotillion avanzò altri sei passi, gli occhi sul drago più vicino, le ossa scintillanti del cranio visibili tra strisce di pelle imputridita. «Eloth», disse, «vorrei sentire la tua voce».

    «Ricontrattiamo, Usurpatore?».

    La voce era maschile, ma era un dettaglio che poteva cambiare in un baleno. Immobile, si rabbuiò, cercando di ricordare l’ultima volta. «Kalse, Ampelas, verrà il vostro turno. Ora parlo con Eloth?».

    «Io sono Eloth. Che cosa c’è nella mia voce che ti agita tanto, Usurpatore? Avverto il tuo sospetto».

    «Avevo bisogno di certezze», replicò Cotillion. «E ora ce le ho. Tu sei indubbiamente Mockra».

    Un’altra voce draconica risuonò ridendo nella mente di Cotillion. «Sta’ attento, Sicario, lei è la signora dell’inganno».

    Cotillion aggrottò la fronte. «Inganno? Spero di no, ti prego. Sono troppo ingenuo per cose simili. Eloth, qui ti vedo in catene, eppure nei regni mortali si sente la tua voce. Non sembra tu sia la prigioniera che eri un tempo».

    «Il sonno fa scivolare via le catene più crudeli, Usurpatore. I miei sogni si sollevano su ali leggere e io volo libera. Mi stai forse dicendo che quella libertà non era mera illusione? Sono scioccata e incredula».

    Cotillion contorse il volto in una smorfia. «Kalse, tu che cosa sogni?».

    «Ghiaccio».

    Ne sono sorpreso? «Ampelas?».

    «La pioggia che brucia, Signore dei Sicari, nella profondità dell’ombra. Un’ombra repellente. Dobbiamo sussurrare parole di divinazione? Tutte le mie verità sono incatenate qui, solo le menzogne volano via libere. Eppure c’era un sogno, un sogno che è ancora fresco nella mia mente. Vuoi ascoltare la mia confessione?».

    «La mia fune non è così logora come pensi, Ampelas. Faresti meglio a descrivere il tuo sogno a Kalse. Considera questo consiglio il mio dono». Si fermò, lanciò un’occhiata a Edgewalker e poi riprese a parlare ai draghi. «Bene, adesso vediamo di contrattare per davvero».

    «Non ha molto senso», affermò Ampelas. «Tu non hai niente da darci».

    «Vi sbagliate».

    Edgewalker a un tratto parlò dietro di lui. «Cotillion…».

    «Libertà», disse Cotillion.

    Silenzio.

    Sorrise. «Un buon inizio. Eloth, sognerai per me?».

    «Kalse e Ampelas hanno condiviso il tuo dono. Si guardavano l’un l’altro con volti di pietra. C’era dolore. C’era fuoco. Un occhio si è aperto e ha guardato l’Abisso. Signore dei Coltelli, i miei simili in catene sono… sgomenti. Signore, sognerò per te. Parla».

    «Ascolta attentamente», ordinò Cotillion. «Ecco come dev’essere».

    Le profondità del canyon erano nell’ombra, inghiottite nella notte eterna sotto la superficie dell’oceano. Crepacci si aprivano nell’oscurità, la morte e il declino di un mondo che si abbattevano in una pioggia incessante, e le correnti sferzavano in violenti torrenti che trascinavano i sedimenti in vortici turbinanti, che si sollevavano come trombe d’aria. Fiancheggiata dalle rupi sommerse delle scarpate devastate del canyon, si estendeva una pianura e al suo centro, un’impressionante fiamma rossa prese vita, in solitudine, un punto in quella vastità.

    Spostato il leggero fardello che portava su una spalla, Mael si fermò a guardare quell’inverosimile fuoco. Poi riprese a camminare, dirigendosi verso la fiamma.

    Una pioggia priva di vita cadeva nelle profondità, correnti selvagge la respingevano verso la luce, dove creature viventi si nutrivano di quel corroborante brodo, solo per poi morire e tornare ad affondare. Uno scambio di tale eleganza, i vivi e i morti, la luce e l’oscurità, il mondo soprastante e quello sottostante. Quasi come se qualcuno lo avesse progettato.

    Finalmente distinse la figura ricurva accanto alle fiamme, le mani allungate verso quel misterioso calore. Come falene, minuscole creature marine sciamarono nell’esplosione rossastra di luce. Il fuoco emergeva pulsante da una fessura nel pavimento del canyon, alimentato da gas che salivano verso la superficie.

    Mael si fermò davanti alla figura, liberandosi del cadavere deposto sulla sua spalla. Quando rotolò a terra, animaletti saprofagi si lanciarono verso di esso, solo per poi riallontanarsi senza essersi posati. Nuvole indistinte si sollevarono quando il corpo avvolto affondò nel fango.

    La voce di K’rul, Dio Antico dei Canali, emerse da sotto il cappuccio. «Se l’esistenza è un dialogo, come mai esistono ancora molte parole non dette?».

    Mael si grattò il velo di barba sulle guance. «Io con le mie parole, tu con le tue, lui con le sue, eppure ancora non riusciamo a convincere il mondo della sua intrinseca assurdità».

    K’rul si strinse nelle spalle. «Lui con le sue. Sì. Strano che tra tutti gli dei, solo lui abbia scoperto questo segreto esasperato, ed esasperante. L’alba che verrà… dobbiamo lasciare tutto in mano sua?».

    «Be’», borbottò Mael, «prima di tutto dobbiamo sopravvivere alla notte. Ho portato quello che cercavi».

    «Lo vedo. Grazie, amico mio. Adesso dimmi, che ne è stato della Vecchia Strega?».

    Il volto di Mael si contrasse in una smorfia. «Niente di nuovo. Lei ci riprova, ma quello che ha scelto… be’, diciamo che Onos T’oolan possiede profondità che Olar Ethil non può sperare di comprendere e temo che si pentirà della sua scelta».

    «Un uomo cavalca innanzi a lui».

    Mael annuì. «Un uomo cavalca innanzi a lui. È… straziante».

    «Davanti a un cuore infranto, persino l’inverosimile tentenna».

    «Perché il mondo svanisce».

    Dita si agitarono nel bagliore del fuoco. «Un dialogo di silenzio».

    «Che assorda». Mael volse lo sguardo nell’oscura lontananza. «Gallan il Cieco e le sue dannate poesie». Sul terreno incolore, eserciti di granchi ciechi marciavano, attirati dalla luce misteriosa e dal calore. Li guardò. «In molti sono morti».

    «Errastas aveva dei sospetti, ed è tutto ciò di cui ha bisogno l’Errante. Una disgrazia terribile, o una spintarella letale. Erano come lei avrebbe detto che sarebbero stati. Privi di testimoni». K’rul sollevò la testa, il cappuccio vuoto che si girò verso Mael. «Lui ha vinto, allora?».

    Un’espressione sorpresa apparve sul volto di Mael. «Non lo sai?».

    «Tutto ciò è vicino al cuore di Kaminsod, i canali sono un ammasso di ferite e violenza».

    Mael abbassò lo sguardo sul cadavere avvolto. «Brys è stato qua. Ho visto attraverso le sue lacrime». Restò in silenzio alcuni istanti, a rivivere i ricordi di un altro. A un tratto avvolse le braccia intorno a sé e sospirò. «Nel nome dell’Abisso, quei Cacciatori di Ossa erano da vedere!».

    Vaghe tracce di un volto sembrarono prendere forma nell’oscurità del cappuccio, un bagliore di denti. «Davvero? Mael… davvero?».

    La commozione ringhiò nelle sue parole. «Non è finita. Errastas ha commesso un errore terribile. Per tutti gli dei, tutti loro lo hanno commesso!».

    Dopo un lungo istante, K’rul sospirò, lo sguardo tornò sul fuoco. Le mani pallide si agitarono sul bagliore pulsante di pietre accese. «Non rimarrò cieco. Due bambini. Gemelli. Mael, mi sa che dovremo opporci al desiderio dell’Aggiunto Tavore Paran di restare per sempre sconosciuta a noi, e a tutti quanti. Che cosa significa questo desiderio di non avere testimoni? Non capisco».

    Mael scosse la testa. «C’è una tale sofferenza in lei… no, non oso avvicinarmi. Se ne stava davanti a noi, nella sala del trono, come una bambina custode di un terribile segreto, pervasa da vergogna e senso di colpa oltre ogni misura».

    «Forse questo mio ospite possiede la risposta».

    «È per questo che lo volevi? Per soddisfare una semplice curiosità? Sarà forse il gioco di un voyeur, K’rul? Nel cuore infranto di una donna?».

    «In parte», ammise K’rul. «Ma non dettato dalla crudeltà, o dal richiamo del proibito. Il suo cuore deve restare com’è, immune a qualsiasi assalto». Il dio abbassò lo sguardo sul corpo. «No, questa carne è morta, ma la sua anima resta forte, intrappolata nel suo stesso incubo di colpa. Farò in modo che se ne liberi».

    «Come?».

    «Sarò pronto ad agire, quando giungerà il momento. Pronto ad agire. Una vita per una morte, e dovrà bastare».

    Mael sospirò. «Allora ricadrà sulle sue spalle. Sulle spalle di una donna sola. Un esercito già straziato. Con alleati in preda alla febbre del combattimento, in spasmodica attesa della guerra imminente. Un nemico li attende, indomito, sicuro oltre ogni limite, smanioso di fare scattare la trappola perfetta». Si portò le mani al viso. «Una donna mortale che rifiuta di parlare».

    «Eppure loro la seguono».

    «Sì, la seguono».

    «Mael, hanno davvero qualche possibilità?».

    L’altro lo guardò. «L’Impero Malazan li ha tirati fuori dal nulla. La Prima Spada di Dassem, gli Arsori di Ponti, e adesso i Cacciatori di Ossa. Cosa posso dirti? È come se fossero giunti da un’altra epoca, un’età dorata dimentica del passato e la cosa pazzesca è che loro nemmeno lo sanno. Forse è per questo che lei desidera che siano senza testimoni in tutto quello che fanno».

    «Che cosa vuoi dire?».

    «Lei non vuole che il resto del mondo ricordi ciò che erano un tempo».

    K’rul sembrò studiare attentamente il fuoco. Infine disse: «In queste acque oscure, nessuno può avvertire le proprie lacrime».

    La risposta di Mael fu piccata. «Perché pensi che io viva qui?».

    «Se non mi fossi messo alla prova, se non avessi lottato per donare tutto quello che ho, allora starei con la testa bassa davanti al giudizio del mondo. Ma se devo essere accusato di essere più intelligente di quello che sono – ma come può essere possibile? – o, che gli dei non vogliano, troppo consapevole di qualsiasi eco emessa nella notte, per rimbalzare e volteggiare, per risuonare come il filo di una spada sul bordo di uno scudo, se, in altre parole, dovrò essere punito per avere dato ascolto alla mia sensibilità, be’, allora qualcosa divamperà come il fuoco dentro di me. Io sono, e utilizzo la parola più convincente, furibondo».

    Udinaas emise un grugnito. La pagina era strappata sotto quell’ultima riga, come se la rabbia dell’autore fosse esplosa in una frenesia distruttrice. Rifletté sui detrattori, reali o immaginari, di quello scrittore sconosciuto e ripensò a quando, molto tempo addietro, il pugno di alcuni aveva risposto al suo spirito troppo acuto, troppo veloce. I bambini erano particolarmente dotati nel percepire cose simili, nel sentire quando un ragazzino era troppo furbo per il suo stesso bene, e sapevano che cosa era necessario fare. Picchiatelo, ragazzi. Gli servirà di lezione. Perciò provò compassione per lo spirito dello scrittore defunto.

    «Ma dopotutto, vecchio stolto, loro ormai sono solo polvere mentre le tue parole continuano a vivere. E allora, chi ride per ultimo?».

    Il legno marcio intorno a lui non rispose. Sospirando, Udinaas gettò via il frammento e guardò i pezzetti di pergamena posarsi come cenere. «Oh, cosa m’importa? Non più, no, non più». La lampada a olio stava morendo, consumata, e il freddo era tornato. Non sentiva più le mani. Vecchie eredità, nessuno poteva stringerle.

    Ulshul Pral aveva previsto altra neve e ormai odiava la neve. «Come se il cielo stesso stesse morendo. Mi senti, Fear Sengar? Sono pressoché pronto per raccogliere la tua leggenda. Chi avrebbe mai immaginato un simile lascito?».

    Gemendo per la rigidità delle membra, si issò fuori dalla stiva della nave. «Mondo di bianco, che cosa stai dicendoci? Che non va tutto bene. Che il fato ci assedia».

    Aveva preso l’abitudine di parlare da solo. In quel modo, nessun altro doveva piangere, ed era stanco di lacrime luccicanti su volti avvizziti. Sì, avrebbe potuto farli sciogliere tutti quanti con una manciata di parole. Ma quel calore interiore, be’, non aveva un luogo in cui andare, no? Così aveva ceduto all’aria fredda, vuota. Ma non c’era una sola lacrima gelata in vista.

    Udinaas scavalcò il parapetto della nave e si lasciò andare nella neve affondando fino alle ginocchia, e infine tornò a incamminarsi verso l’accampamento al riparo tra le rocce, i mocassini rivestiti di pelo che lo obbligavano a un’andatura a papera mentre arava la neve. Sentì odore di legna bruciata.

    Scorse gli emlava a metà strada dall’accampamento. I due gatti enormi se ne stavano appollaiati in alto sulle rocce, le schiene argentee che si fondevano con il cielo bianco. E lo guardavano. «E così siete tornati. Non è un bene, vero?». Sentì i loro sguardi seguirlo mentre avanzava. Il tempo stava rallentando. Sapeva che era impossibile, ma riusciva a immaginare un mondo intero sepolto dalla neve, un luogo privo di animali, un luogo in cui le stagioni erano congelate in una sola stagione che non finiva mai. Riusciva a immaginare la lenta scomparsa di ogni scelta fino a quando non ne sarebbe rimasta nemmeno una.

    «Un uomo può farlo. Perché un mondo intero no?». La neve e il vento non offrirono alcuna risposta, al di là della replica brutale che era l’indifferenza.

    Giunto tra le rocce, il vento sferzante si placò, il fumo che gli solleticava le narici. C’era fame nell’accampamento, c’era bianco da tutte le altre parti. Eppure gli Imass continuavano a intonare le loro canzoni. «Non basta», borbottò Udinaas, uno sbuffo di vapore che si sollevò dalla sua bocca. «Non basta, amici miei. Guardate in faccia la realtà, lei sta morendo. La nostra piccola e cara bambina».

    Si chiese se Silchas Ruin lo avesse sempre saputo. Fosse sempre stato consapevole di quel fallimento imminente. «Alla fine tutti i sogni muoiono. Tra tutti, io avrei dovuto saperlo. Sogni di sonno, sogni del futuro, prima o poi l’alba gelida, dura sopraggiunge». Avanzò accanto alle iurte coperte di neve, la fronte aggrottata nell’udire le litanie che si levavano, e raggiunse il sentiero che conduceva alla caverna.

    Ghiaccio sporco incrostava l’ingresso roccioso, come schiuma gelata. All’interno, l’aria era più calda, umida e salina. Batté i piedi per liberare i mocassini dalla neve e quindi si avviò lungo il sinuoso corridoio roccioso, le braccia aperte, la punta delle dita che sfiorava la pietra bagnata. «Oh», disse tra i denti, «ma tu sei un ventre freddo, non è vero?».

    Avanti a lui udì delle voci, o meglio, una voce. Ora presta attenzione al tuo istinto, Udinaas. Lei è indomita, e lo sarà per sempre. Immagino sia questo ciò che fa l’amore.

    Le vecchie macchie sul pavimento di pietra erano ancora là, a ricordare il sangue versato e le vite perdute in quella stanza maledetta. Gli sembrava quasi di sentire le eco, spada e lancia, gli ansiti di respiri disperati. Fear Sengar, giurerei che tuo fratello è ancora lì. Silchas Ruin indietreggia, barcollante, un passo dopo l’altro, l’incredulità sul suo volto una maschera che non ha mai indossato prima, e non gli sta forse male? Sì, indubbiamente è così. Onrack T’emlava era in piedi alla destra della moglie. Ulshul Pral si accovacciò a pochi passi alla sinistra di Kilava. Davanti a tutti loro si levava un edificio, fatiscente, orrido. Casa morente, il tuo calderone è spaccato. Lei era un seme imperfetto.

    Kilava si girò al suo arrivo, gli occhi scuri si strinsero come quelli di un gatto selvatico pronto a lanciarsi sulla preda. «Pensavo fossi salpato, Udinaas».

    «Le mappe non conducono da nessuna parte, Kilava Onass, come sono certo si sia accorto il timoniere nel giungere nel centro di una pianura. Esiste forse qualcosa di più triste di una nave naufragata?».

    Fu Onrack a parlare. «Amico Udinaas, sia benvenuta la tua saggezza. Kilava si riferisce al risveglio degli Jaghut, alla fame degli Eleint, e alla mano dei Forkrul Assail, che non trema mai. Rud Elalle e Silchas Ruin sono scomparsi; lei non riesce a percepirli e teme il peggio».

    «Mio figlio è vivo».

    Kilava si avvicinò. «Non puoi saperlo».

    Udinaas si strinse nelle spalle. «Ha preso da sua madre più di quanto Menandore immagini. Quando lei ha affrontato quel mago Malazan, quando pensava di attingere al proprio potere, be’, quella è stata solo una delle molte sorprese fatali di quel giorno». Il suo sguardo cadde sulle macchie nere. «Che cosa ne è stato del nostro risultato eroico, Fear? Della salvezza che hai offerto alla tua vita? Se non mi fossi messo alla prova, se non avessi lottato per dare tutto quello che ho, allora starei con la testa bassa davanti al giudizio del mondo. Ma il giudizio del mondo è crudele».

    «Meditiamo un viaggio da questo regno», disse Onrack.

    Udinaas lanciò un’occhiata a Ulshun Pral. «Sei d’accordo?».

    Il guerriero agitò una mano in un turbinio di gesti fluidi.

    Udinaas emise un grugnito. Prima della parola, prima dei canti, c’era quel linguaggio. Ma la mano parla in una lingua spezzata. Il codice appartiene alla sua postura, all’accovacciarsi di un nomade. Nessuno ha paura di camminare, o teme lo spiegarsi di un nuovo mondo. Che l’Errante mi prenda, quest’innocenza è una pugnalata al cuore. «Non vi piacerà ciò che troverete. Nemmeno la bestia più feroce del mondo può sperare di avere una speranza contro la mia specie». Guardò Onrack. «Che cosa pensi fosse il Rituale? Quello che ha rubato la morte alla tua gente?».

    «Per quanto le sue parole feriscano», ruggì Kilava, «Udinaas dice il vero». Tornò a girarsi verso l’Azath. «Possiamo difendere questo portale. Possiamo fermarli».

    «E morire», sbottò Udinaas.

    «No», ribatté lei, girandosi di scatto verso l’uomo. «Tu condurrai i miei figli da qui, Udinaas. Nel tuo mondo. Io rimarrò».

    «Pensavo avessi detto noi, Kilava».

    «Convoca tuo figlio».

    «No».

    Gli occhi di Kilava lanciarono scintille.

    «Trova qualcun altro che si unisca a te nella tua ultima battaglia».

    «Io resterò con lei», affermò Onrack.

    «Non lo farai», sibilò Kilava. «Sei mortale…».

    «E tu no, amore mio?».

    «Io sono una Divinatrice. Ho portato in grembo un Primo Eroe che è divenuto un dio». Contorse il viso in una smorfia e nei suoi occhi c’era sofferenza. «Marito, per questa battaglia chiamerò sicuramente gli alleati. Ma tu, tu devi andare con nostro figlio, e con Udinaas». Puntò un dito verso il Letherii. «Conducili nel tuo mondo. Trova un posto per loro».

    «Un posto? Kilava, loro sono come le bestie del mio mondo… non c’è più spazio!».

    «Devi trovarne».

    Hai sentito, Fear Sengar? Dopotutto non devo essere te. No, devo essere Hull Beddict, un altro fratello condannato. «Seguitemi! Ascoltate le mie promesse! Morite». «Non c’è alcun luogo», disse, la gola chiusa per il dolore. «In tutto il mondo… da nessuna parte. Noi non lasciamo niente deserto. Mai. Gli Imass possono reclamare terre vuote, sì, fino a quando qualcuno non vi poserà uno sguardo avido. E così cominceranno a uccidervi. A collezionare scalpi. Ad avvelenare il vostro cibo. A violentare le vostre figlie. Tutto nel nome della pacificazione, o del nuovo insediamento, o di qualsiasi altra merda di bhederin si inventino. E prima sarete morti e meglio sarà, così che possano dimenticarsi che siete esistiti. Il senso di colpa è la prima erbaccia che estirpiamo, per mantenere il giardino grazioso e profumato. Questo è ciò che facciamo e voi non potete fermarci. Non ci siete mai riusciti. Nessuno può».

    Il volto di Kilava era rimasto impassibile. «Potete essere fermati. E sarete fermati».

    Udinaas scosse la testa.

    «Portali nel tuo mondo, Udinaas. Combatti per loro. Io non intendo cadere qui e se pensi che non sia in grado di proteggere i miei figli, be’, allora non mi conosci».

    «Così mi condanni, Kilava».

    «Convoca tuo figlio».

    «No».

    «Allora sei tu a condannarti, Udinaas».

    «Sarai così distaccata quando il mio destino si estenderà anche ai tuoi figli?».

    Quando si rese conto che non avrebbe avuto risposta, Udinaas sospirò e, giratosi, si diresse verso l’uscita, verso il freddo e la neve, e il biancore e il congelamento del tempo stesso. Con suo sgomento, Onrack lo seguì.

    «Amico mio».

    «Mi spiace, Onrack, non posso dirti niente che possa alleviare la tua mente».

    «Eppure», replicò il guerriero, «tu credi di avere una risposta».

    «A malapena».

    «Ma ce l’hai».

    Accidenti, non c’è speranza. Oh, guardatemi avanzare con tanta sicurezza. Li condurrò tutti quanti, sì. L’audace Hull Beddict è tornato, per commettere ancora una volta tutti i suoi crimini.

    Ancora a caccia di eroi, Fear Sengar? Adesso farai meglio ad andartene.

    «Tu ci guiderai, Udinaas».

    «Così pare».

    Onrack sospirò.

    Al di là dell’ingresso della caverna, la neve cadeva fitta.

    Aveva cercato una via d’uscita. Era sfuggito alla conflagrazione. Ma nemmeno il potere dell’Azath poteva aprire una breccia in Akhrast Korvalain, e così era stato abbattuto, la mente in frantumi, i frammenti che affondavano in un mare di sangue sconosciuto. Si sarebbe ripreso? Quiete non ne aveva la certezza, ma non intendeva correre rischi. Inoltre, il potere latente in lui restava pericoloso, e pertanto inaccettabile. No, sarà meglio curvare quest’arma, sarà meglio che la prenda tra le mie mani e la brandisca contro i nemici che presto so che dovrò affrontare. O, se tutto ciò dovesse rivelarsi inutile, farò meglio a ucciderlo.

    Ma prima che fosse accaduta qualsiasi cosa, lei avrebbe dovuto comunque tornare lì. E fare ciò che deve essere fatto. Lo farei adesso, se non fosse rischioso. Se si svegliasse, se dovesse forzare la mia mano… no, è troppo presto. Non siamo ancora pronti.

    Quiete era in piedi sopra il corpo; osservò i lineamenti spigolosi del volto, le zanne, il rossore che indicava la febbre. Poi, si rivolse ai suoi antenati. «Prendetelo. Legatelo. Intessete la vostra magia; lui non deve riprendere conoscenza. Il rischio che si risvegli è troppo grande. Non tornerò tra molto. Prendetelo. Legatelo». Le catene d’ossa strisciarono come serpenti, tuffandosi nel terreno compatto, intrappolando braccia e gambe, attorcigliandosi intorno al collo, al torace, inchiodandolo a gambe spalancate alla sommità della collina.

    Lei vide le ossa tremare. «Sì, capisco. Il suo potere è immenso; per questo deve restare svenuto. Ma posso fare qualcosa di più». Si avvicinò e si abbassò. La mano destra sfrecciò fuori, le dita rigide come lame, che affondarono nel fianco dell’uomo. Lei trasalì e vacillò; aveva esagerato? Lo aveva svegliato?

    Il sangue colò dalla ferita.

    Ma Icarium non si mosse.

    Quiete si lasciò andare a un lungo sospiro. «Continuate a fare scorrere il sangue», ordinò agli antenati. «Nutritevi del suo potere».

    Sollevatasi, si guardò intorno, osservò l’orizzonte. Le antiche terre degli Elan. Ma le avevano abbandonate, lasciando dietro di loro solo i massi ellittici che un tempo bloccavano i fianchi delle tende, e vecchi recinti di un tempo ancora più antico; dei grandi animali che un tempo abitavano in quella pianura non era rimasta una sola mandria, domestica o selvatica. Si rese conto che c’era una perfezione ammirevole in quel nuovo stato delle cose. Senza criminali, non poteva esservi crimine. Senza crimini, non vi erano vittime. Il vento gemette e niente si levò in risposta.

    Una sentenza perfetta, sapeva di paradiso.

    Rinato. Un paradiso rinato. Da questa pianura desolata, il mondo. Da questa promessa, il futuro.

    Presto.

    S’incamminò, lasciando la collina dietro di sé, e con essa il corpo di Icarium, legato alla terra con catene d’ossa. Quando fosse tornata in quel luogo, sarebbe stata trionfante, o disperata. In quest’ultimo caso, lo avrebbe svegliato. Al contrario, gli avrebbe preso la testa tra le mani e con un movimento secco e deciso gli avrebbe spezzato il collo.

    E qualunque fosse stata la decisione che l’attendeva, quel giorno i suoi antenati avrebbero cantato di gioia.

    Sbilenco sulla montagna di rifiuti, il trono della fortezza bruciava nel cortile sottostante. Colonne di fumo, nero e grigio, salivano fino ai bastioni, dove il vento le assaliva e i brandelli sventolavano come bandiere sopra la valle devastata.

    Bambini semi nudi scorrazzavano sulle merlature, le loro voci che risuonavano squillanti al di sopra del clangore e dei gemiti provenienti dalla porta principale, dove i muratori riparavano i danni del giorno precedente. Era in corso un cambio della guardia e il Gran Pugno ascoltò gli ordini che schioccarono come bandiere dietro di lui. Si asciugò polvere e sudore dagli occhi e si appoggiò, con cautela, sulla merlatura erosa, lo sguardo che scrutava l’ordinato accampamento nemico che si estendeva nella valle.

    Dalla piattaforma sul tetto della torre quadrata alla sua destra, un bambino di non più di nove o dieci anni combatteva con quello che un tempo era stato un aquilone segnaletico, cercando di tenerlo sopra la testa, fino a quando con un improvviso sbattere di ali, il lacero drago di seta si sollevò in aria, roteando e ondeggiando. Ganoes Paran lo seguì con lo sguardo. La lunga coda del drago mandò bagliori argentei sotto il sole di mezzogiorno. La stessa coda, ricordò l’uomo, che era stata nel cielo sopra la roccaforte il giorno della conquista.

    Che cosa stavano segnalando all’epoca i difensori?

    Pericolo. Emergenza. Aiuto.

    Continuò a guardare l’aquilone, lo osservò salire sempre più in alto. Fino a quando i vortici di fumo sospinti dal vento lo inghiottirono.

    Nell’udire un’imprecazione familiare, si girò e vide il Sommo Mago dell’Armata cercare di farsi largo per passare tra un nugolo di bambini in cima alle scale, il volto distorto in un’espressione di disgusto come se si fosse trovato tra un’orda di lebbrosi. La spina di pesce stretta tra i denti che andava su e giù, si diresse verso il Gran Pugno.

    «Giurerei che ce ne siano più di ieri, ma com’è possibile? Non saltano fuori dalla pancia già semi cresciuti, vero?».

    «Strisciano fuori dalle caverne», spiegò Ganoes Paran, riportando l’attenzione sui ranghi nemici.

    Noto Boil emise un grugnito. «E quello è un altro mistero. Chi avrebbe mai pensato che una caverna fosse un luogo decente in cui vivere? Fetido, umido, infestato da animali. Scoppieranno delle epidemie. Ricordate le mie parole, Gran Pugno, e l’Armata ne ha già avute abbastanza».

    «Ordina al Pugno Bude di radunare una truppa per le pulizie», disse Paran. «Quali squadre si sono introdotte nel magazzino del rum?».

    «La Settima, la Decima, la Terza e la Seconda Compagnia».

    «I genieri del capitano Sweetcreek».

    Noto Boil estrasse la spina dalla bocca e ne esaminò la punta rosea. Quindi si sporse oltre il parapetto e sputò qualcosa di rosso. «Già, proprio lei».

    Paran sorrise. «Bene, allora».

    «Servirà loro di lezione. Ma se dovessero risvegliare altri animali nocivi…».

    «Sono bambini, mago, non ratti. Bambini orfani».

    «Davvero? Quelli pallidi come cadaveri mi fanno accapponare la pelle, signore. Tutto qua». Tornò a infilarsi in bocca la spina, spingendola avanti e indietro. «Spiegatemi ancora come questo posto possa essere migliore di Aren, signore».

    «Noto Boil, come Gran Pugno io rispondo solo all’Imperatrice».

    Il mago emise un grugnito. «Peccato che sia morta».

    «Il che significa che non rispondo a nessuno, nemmeno a te».

    «Ed è questo il problema. È chiaro come il sole». Apparentemente soddisfatto delle proprie parole, indicò con il capo e con un lieve spostamento della spina di pesce in bocca. «C’è grande agitazione laggiù. Si avvicina un altro attacco?».

    Paran si strinse nelle spalle. «Sono ancora… irritati».

    «Sapete, se mai decidessero di venire a verificare il nostro bluff…».

    «Chi ha mai detto che sto bleffando?».

    L’altro morse qualcosa che lo fece trasalire. «Ciò che voglio dire è, signore, nessuno nega i vostri mille talenti e via dicendo, ma quando quei due comandanti laggiù si stancheranno di mandarci contro Annacquati e Assolti, e verranno loro di persona, be’… ecco cosa voglio dire, signore».

    «Se non sbaglio ti ho appena dato un ordine».

    Noto si rabbuiò. «Il Pugno Bude, sì. Le caverne». Si girò per andarsene. Poi si fermò e tornò a voltarsi. «Loro vi vedono, sapete. Lì in piedi, giorno dopo giorno. A schernirli».

    «Chissà», mormorò Paran riportando l’attenzione sull’accampamento nemico.

    «Signore?».

    «L’Assedio di Pale. La Progenie della Luna era sopra la città. Ed è rimasta là per mesi, anni. Il suo signore non si faceva mai vedere, fino al giorno in cui Tayschrenn decise che era pronto ad affrontarlo. Ma la questione è, e se lo avesse fatto? Se ogni dannatissimo giorno fosse uscito su quella terrazza? Così che il Monco e tutti gli altri avessero potuto fermarsi, sollevare lo sguardo e vederlo lassù? Capelli argentei al vento, Dragnipur che come un dio oscuro si allungava dietro di lui».

    Noto Boil restò in silenzio alcuni istanti, poi chiese: «Che cosa sarebbe successo, signore?».

    «La paura, Sommo Mago, ha bisogno di tempo. La vera paura, quella che ti divora il coraggio, quella che ti lascia le gambe molli». Scosse la testa e lanciò un’occhiata a Noto Boil. «Comunque, non è mai stato nel suo stile, no? Mi manca, sai». Emise un grugnito. «Pensa un po’».

    «Chi, Tayschrenn?».

    «Noto, capisci mai quello che dico?».

    «Cerco di non capire, signore. Senza offesa. È per quella faccenda della paura di cui parlavate».

    «Non calpestare i bambini mentre scendi».

    «Dipende solo da loro, Gran Pugno. E comunque, sono talmente tanti che un piccolo sfoltimento non farebbe male».

    «Noto».

    «Siamo un esercito, non un asilo infantile. Un esercito sotto assedio. Inferiore in numero, sovraffollato, confuso, annoiato. Tranne quando siamo terrorizzati». Ritirò fuori la spina dalla bocca, e aspirò fischiando tra i denti. «Caverne piene di bambini. Che cosa se ne facevano? Dove sono i genitori?».

    «Noto».

    «Sto solo dicendo che dovremmo restituirli ai legittimi proprietari, signore».

    «Non ti sei accorto che oggi è il primo giorno che si comportano finalmente da bambini? Che cosa ti dice tutto questo?».

    «Non mi dice proprio un bel niente, signore».

    «Il Pugno Rythe Bude. Subito».

    Ganoes Paran concentrò l’attenzione sull’esercito assediante, sulle file ordinate di tende, sulle figurine che si muovevano come mosche sopra i trabucchi e i Grandi Carri. Il puzzo della battaglia sembrava non lasciare mai quella valle. Sembrano pronti per metterci di nuovo alla prova. Valiamo un’altra sortita? Mathok continua a infilzarmi con quello sguardo furibondo. Li vuole. Si passò una mano sul viso. Ancora una volta trasalì per lo stupore di sentire la barba. A nessuno piacciano i cambiamenti, eh? Ma è proprio ciò su cui conto.

    Il drago di seta sfrecciò sotto i suoi occhi, tuffandosi fuori dal regno del fumo. Lanciò un’occhiata al ragazzino sulla torre, lo vide combattere per mantenere l’equilibrio. Una cosina striminzita, uno di quelli del sud. Un Assolto. Quando non ce la farai più, ragazzo, lascialo andare.

    Agitazione e movimento nell’accampamento lontano. Il luccichio di picche, gli schiavi incatenati che marciavano verso i gioghi dei Grandi Carri, gli Annacquati Superiori che emergevano circondati da messaggeri. La polvere che lentamente si sollevava in cielo oltre i trabucchi, mentre questi ultimi venivano spinti avanti.

    Già, sono ancora irritati.

    «Un tempo conoscevo un guerriero. Risvegliatosi dopo aver riportato una ferita alla testa, era convinto di essere un cane e che cosa sono i cani se non esseri colmi di lealtà? E così eccomi qua, donna, e i miei occhi traboccano lacrime. Per quel guerriero, che era un amico, che è morto credendo di essere un cane. Troppo leale per essere mandato a casa, troppo colmo di fede per andarsene. Quelli sono i caduti del mondo. Quando sogno, li vedo a migliaia, a leccarsi le ferite. Perciò non parlarmi di libertà. Lui aveva ragione. Viviamo in catene. Crediamo nelle catene, soffochiamo la nostra stessa voce, e andiamo avanti nella gabbia di una vita mortale. Questo è il nostro destino. E vuoi sapere chi biasimo? Gli dei. E li maledico con il fuoco nel cuore.

    «Quando lei verrà da me, quando dirà che è giunto il momento, prenderò in mano la spada. Tu sostieni che sono un uomo di poche parole, di troppo poche parole, ma contro il mare delle necessità, le parole sono deboli come sabbia. E adesso, donna, parlami ancora della tua noia, di quel trascinarsi di giorni e notti fuori da una città ossessionata dal lutto. Sono davanti a te, gli occhi colmi del dolore di un amico morto, e tutto quello che ottengo da te è l’assedio del silenzio».

    Lei disse: «Hai trovato un modo davvero pietoso per aprirti un varco verso il mio letto, Karsa Orlong. Ma va bene, accomodati. Solo non mi spezzare».

    «Spezzo solo ciò che non voglio».

    «E se i giorni di questa relazione fossero contati?».

    «Lo sono», replicò, e poi sorrise. «Ma non le notti».

    In lontananza, le campane della città diedero voce al loro dolore al calare dell’oscurità, e nelle strade e nei vicoli illuminati di azzurro, i cani ulularono.

    ***

    Nella stanza più profonda del palazzo del signore della città, lei stava nell’ombra e lo guardò allontanarsi dal camino e sfregarsi le mani per togliere la cenere. Non c’erano dubbi sui suoi legami di sangue e sembrava che il peso che il padre aveva portato si fosse adagiato come un vecchio mantello sulle spalle incredibilmente larghe del figlio. Lei non riusciva mai a capire creature simili. La loro inclinazione al martirio. I fardelli con i quali misuravano il valore personale. Quella devozione al dovere.

    Lui si accomodò sulla sedia dall’alto schienale, allungò le gambe, la luce tremolante del fuoco che lambiva le borchie sugli stivali alti fino al ginocchio. La testa appoggiata indietro, gli occhi chiusi, disse: «Hood solo sa come tu sia riuscita a entrare qua dentro e immagino che, in questo momento, Silanah abbia i peli dritti, ma se non sei qui per uccidermi, c’è del vino sul tavolo alla tua sinistra. Serviti».

    Il volto rabbuiato, lei uscì dall’ombra. A un tratto la stanza sembrò troppo piccola, le pareti che minacciavano di chiudersi su di lei. Abbandonare di buon grado il cielo per quella pietra pesante e quelle travi annerite, no, non riusciva proprio a capirlo. «Solo vino?». La voce s’incrinò, ricordandole che era passato parecchio tempo dall’ultima volta che l’aveva usata.

    Gli occhi a mandorla si aprirono e la osservarono con aperta curiosità. «Cosa preferisci?».

    «Birra».

    «Mi spiace. Per quella dovrai andare nelle cucine».

    «Allora, latte di giumenta».

    Lui inarcò le sopracciglia. «Raggiungi l’ingresso del palazzo, esci, gira a sinistra e vai avanti per cinquecento leghe circa. Credo, per lo meno».

    Scrollando le spalle, lei si avvicinò al camino. «Il dono combatte».

    «Dono? Non capisco».

    Lei indicò le fiamme.

    «Ah», mormorò lui, annuendo. «Be’, sei nell’ombra di Madre Oscurità…», e poi trasalì. «Lei lo sa che sei qui? Ma dopotutto», e tornò a lasciarsi andare contro lo schienale, «come potrebbe non saperlo?».

    «Sapete chi sono?».

    «Una Imass».

    «Sono Apsal’ara. Nella sua unica notte nella Spada, lui mi ha liberata. Ha avuto tempo. Per me». Si accorse di tremare.

    Lui la stava ancora osservando. «E così sei venuta qua».

    Lei annuì.

    «Non te lo aspettavi da lui, vero?».

    «No. Vostro padre… non aveva nessun motivo di rimpianto».

    Lui si alzò, si avvicinò al tavolo e si riempì un calice di vino. Restò immobile con il bicchiere in mano, gli occhi fissi su di esso. «Sai», mormorò, «Io nemmeno voglio tutto questo. Il bisogno… di fare qualcosa». Sbuffò. «Nessun motivo di rimpianto, be’…».

    «Loro lo cercano… in voi. Vero?».

    Lui emise un grugnito. «Lo trovi persino nel mio nome. Nimander. No, non sono il suo unico figlio. Nemmeno il suo preferito. A pensarci bene, non credo ne avesse uno. Eppure», e indicò con il calice, «io mi siedo là, sulla sua sedia, davanti al suo fuoco. Questo palazzo è come se… è come se…».

    «Fosse formato dalle sue ossa?».

    Nimander trasalì, distolse lo sguardo. «Ha troppe stanze vuote, tutto qua».

    «Ho bisogno di vestiti».

    Lui annuì con fare distratto. «Me ne sono accorto».

    «Pellicce. Tessuti».

    «Intendi restare, Apsal’ara?».

    «Al vostro fianco, sì».

    A quelle parole lui si girò, la cercò con gli occhi.

    «Ma», aggiunse la donna, «non sarò il suo fardello».

    Un sorriso sarcastico. «Il mio, allora?».

    «Elencatemi i vostri consiglieri più fidati, Signore».

    Lui svuotò metà bicchiere, poi lo posò sul tavolo. «La Somma Sacerdotessa. Ora casta, e temo non le faccia affatto bene. Skintick, un fratello. Desra, una sorella. Korlat, Spinnock, i servi più fidati di mio padre».

    «Tiste Andii».

    «Naturalmente».

    «E quello sotto?».

    «Quello sotto?».

    «Un tempo vi consigliava? Ve ne state dietro le sbarre della finestrella alla porta a guardarlo borbottare e agitarsi? Lo tormentate? Vorrei conoscere l’uomo che servirò».

    Vide la rabbia sul volto di Nimander. «Intendi diventare il mio giullare? Pare che nelle corti umane esistano simili personaggi. Mi taglierai i tendini e riderai mentre io cadrò?». Scoprì i denti. «Se il tuo volto sarà quello della mia coscienza, Apsal’ara, non dovresti essere più carina?».

    Lei inclinò la testa, non rispose.

    L’ira di Nimander si spense di colpo e lo sguardo si abbassò. «Lui stesso ha scelto l’esilio. La porta è chiusa dall’interno. Ma noi non abbiamo problemi a perdonarlo. Consigliami, forza. Io sono un signore e il mio potere mi consente di fare cose simili. Di perdonare i condannati. Ma tu hai visto le cripte sotto

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