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Fratelli di sangue
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E-book264 pagine3 ore

Fratelli di sangue

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Info su questo ebook

Un'avventura fantasiosa e una riflessione filosofica la storia del capitano Goretti, trovatosi, durante la Seconda Guerra Mondiale, a contendere ai partigiani di Tito un ponte sul confine fra Trieste e la Jugoslavia. Il militare riuscirà rocambolescamente a sfuggire all'orrore delle foibe, ma non così i suoi commilitoni. I fatti sono raccontati dal figlio, nella Napoli di oggi, ma niente è come appare e la verità si cela tra interpretazioni inquietanti, reticenze e silenzi colpevoli.


Nando Vitali, scrittore, editor, docente di scrittura e lettura creativa. Ha collaborato con «Il Mattino» di Napoli e «Il Manifesto». Attualmente collabora con il quotidiano «la Repubblica». Conduce il laboratorio di scrittura e lettura creativa «L’isola delle voci». Principali pubblicazioni: Chiodi Storti. Da Ponticelli a Napoli Centrale (Compagnia dei Trovatori, 2009 e nuova edizione Iod. ed. 2020); I morti non serbano rancore. L'avventurosa storia del Capitano Goretti (Gaffi, 2011); Bosseide. La fascinazione del male (Gaffi, 2015); Ferropoli (Castelvecchi, 2017); Polvere per scarafaggi (Ad est dell'equatore, 2019). Ha fondato e dirige la rivista letteraria internazionale di narrativa e illustrazione «Achab».
 
LinguaItaliano
Data di uscita13 ott 2022
ISBN9791222011783
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    Fratelli di sangue - Nando Vitali

    1

    Mi chiamo Lorenzo Goretti, e il mio primo ricordo è stato la neve a Napoli. Quella del ’56. Avevo tre anni.

    Ricordo la balconata che dava nell’ampia corte del palazzo dei nonni materni. Ai quartieri spagnoli. La Speranzella. Quella febbre da neve, le punture sulla faccia, e mio zio che sporgeva il bicchiere dove raccoglieva il ghiaccio farinoso, e lo addensava col limone e lo zucchero.

    Rammento la puntura acida sulla lingua, l’allegria, e un forte tanfo di umido che proveniva dal cortile, che si mischiava a quello di gatto.

    A pensarci ora, mi pare di avere assistito a una messa in scena.

    Le scenografie dall’odore colloso, i profumi mielati, lo sbocciare davanti a misteriosi specchi aureolati di lampadine. Camerini misteriosi, e tutto un presepe di biacche, vasetti, dentifrici, tubetti, rossetti, e foto infilzate negli interstizi fra la cornice e lo specchio. Proprio come in una recita teatrale.

    E i décolleté. Generosi, lattei. Le facce che dallo specchio guardavano alle spalle in un misto di vanità e indifferenza. Ogni cosa, col tempo, è diventata come un quadro di Balthus, o di Hopper. Freddo e caldo. Bianco e nero.

    Quando posso spio nei camerini. È più forte di me. A volte è perfino imbarazzante. Quando non ci sono amici da omaggiare, me li invento, magari mi fingo un giornalista. Un ammiratore capitato un poco per caso. La verità è che avrei voluto fare l’attore. La cartapesta mi seduce.

    È tra i fondali e le finterie che si nasconde la vita vera. Nelle acque torbide il suo riflesso sanguigno.

    I primi colori della mia vita sono stati il bianco e il nero.

    Il bianco della neve. Il nero cupo e silenzioso del palazzo dei nonni.

    Un nero tragico e luttuoso, che scendeva in funerali maestosi di cavalli impennacchiati e solenni. Altissime carrozze, paurose salite sulle quali si arrampicavano cocchieri vecchi e malinconici, in marsine nere con in testa oblunghi cilindri lucidi e lisi, con fruste lunghissime che sfioravano i fianchi panciuti degli animali, e le loro code sensuali e potenti. Quelle improvvise scorregge. Gli escrementi che lasciavano scie odorose che diventavano paglia, ed emanavano una fragranza dolciastra.

    Sembrava impossibile che riuscissero a passare nei budelli stretti dei vicoli, nel loro reticolo venoso. Con quelle impennate tragiche degli zoccoli che scivolavano sui basoli pietrosi, sulle pietre laviche scure, che mettevano a dura prova le pertiche nere e nervose delle bestie.

    Il grido del cocchiere diventava bestemmia, e si rovesciava, sul tumulto di folla che si faceva attorno. Tutto sotto gli occhi abbassati delle Madonne, che dai tabernacoli, dalle edicole votive, in certi momenti, parevano sentirsi a disagio, e si calavano nella penombra come a volersi nascondere.

    Ma il bianco della neve non lo avrei più dimenticato, perché pareva contraddire il nero sulla città, i suoi avvoltoi che volavano nel cielo guasto.

    Come non avrei dimenticato il concime che per giorni restava a seccare, fino a diventare paglia giallina e polverosa. Il sole la risucchiava, un sole acuto di artiglio che asciugava panni stesi e ritirati prima di sera con lunghi bastoni. Un sole che somigliava a un sommario benefattore che scioglieva il candore della neve, facendola acqua fangosa.

    2

    Non avrei dimenticato lo studio del nonno. Uno studio scuro e misteriosissimo, seppellito all’interno della casacastello, un cupo intestino, stanza segreta nella quale lui trascorreva l’intera giornata a lavorare. Consultando libri, testi, girando in tondo a quel teschio bianco, luccicante, che sostava sulla grande scrivania ricoperta da un vetro opaco, sotto al quale erano infilate carte giallognole e fotografie che lo ritraevano maestoso e solenne. Gigantesco, circondato da fedeli come un santone.

    Il nonno era a Napoli un medico importante. Dalla mascella forte e le labbra carnose, come il Duce. Quasi interamente calvo e col segreto di braccia sempre incrociate dietro la schiena.

    Ricordo quella volta che fui portato nello studio in visita solenne, come si visita un dio. In adorazione.

    Lo vidi dal basso, enorme, con una vestaglia di un rosso cupo e un cordone bianco annodato sul davanti.

    Restò in piedi accanto a una sedia anch’essa scura dalla spalliera altissima.

    Mia madre mi spingeva: «Da’ un bacio al nonno…».

    Lui si abbassò. Sentivo voglia di scappare, ma la paura mi teneva legato. E il contatto col corpo del viso, un odore di muffa e di vecchiaia, un profumo intenso e penetrante, mescolati, mi disgustavano. La mia pelle vergine di bambino e quella rasposa di barba mal fatta, lo sfregare e un leggero odore di urina che proveniva da sotto.

    Tutto così, insieme in quella stanza. Negromanzia, un mezzobusto che ritraeva un guerriero romano con elmo e il collo taurino. Il tagliacarte brunito disposto verso l’esterno, come a colpire.

    Un senso di morte emanava da quello studio. Poi il pollice grosso e le dita di nicotina. Il puzzo di tabacco e una moneta di dieci lire insieme a un pizzicotto sulla guancia che ancora avverto. Infine un fiammifero acceso nel buio. Una fiammella che fece risaltare il bianco del teschio amletico da esercitazione del grande nonno, e mi pizzicò il naso con l’odore acido dello zolfo.

    Dopo, un lunghissimo silenzio. E la mano bianca e filiforme, da pianista come diceva lei con orgoglio, di mia madre, che con delicatezza mi spingeva fuori dalla stanza.

    Per un attimo mi voltai. Il mio sguardo vagò dalle pesantissime tende rosse di broccato, all’ultima immagine del nonno già distratto e lontano, duramente chiuso in sé. Una immagine che non avrei più rivisto e dimenticato. I pantaloni larghi e sformati, il suo respiro pesante, ansimante, fra i libri polverosi ordinati, di colori allineati sui quali predominava il rosso cupo.

    Ricordo di un misterioso dolore dentro e una sete improvvisa, come se per tutto quel tempo avessi smesso di respirare.

    Il secondo ricordo che avevo era di mio padre che picchiava mia madre.

    Vicino al lavello di pietra della cucina. Dove l’acqua schizzava sul fondo con un rumore metallico. Lei che indietreggiava fino all’impossibile. Di notte l’ho sognata per anni scivolare lungo il tubo, nello scarico, come un insetto, in quel vortice liquido che tutto ingoia.

    Lui la colpiva sulle spalle, sulla testa, nei capelli che diventavano serpenti brulicanti di Medusa. La faccia spaventata. Bianca. Le lacrime che scendevano sulle guance secche.

    Una immagine che ho visto per sempre come in un quadro della passione, di un dolore dentro, del cuore.

    È da allora che ho paura della violenza e della maschera di Medusa. E di quei capelli neri (mia madre) stravolti dagli schiaffi.

    «Parla, parla…», diceva mio padre con voce strozzata, come in un interrogatorio, con furia e disperazione.

    «Quant’è? Dimmi, quant’è? A quanti devi… a quanto ammontano i debiti?».

    Lei non rispondeva. In lacrime mute.

    Poi d’un tratto il silenzio, e il verde brulichio della cucina. La fòrmica di quel colore vivo dal quale lui prendeva, come placato, il barattolo dello zucchero, che scivolava, sciogliendosi, nel bicchiere col cucchiaino dorato.

    È difficile credere negli uomini quando si conosce troppo se stesso.

    Oggi lo penso, ma allora mio padre era un dio caduto in terra. Mia madre una donna serpente, dalla cui pancia ero uscito come il verme solitario, già peccatore.

    Poi anche lui piangeva e si guardava le mani. Era un momento di pausa alle botte. Lei ferma immobile. Le mani dietro la schiena appoggiata al lavello.

    Poi confessava la cifra. L’importo del debito.

    «E poi – diceva lui non soddisfatto. – Quanto c’è ancora?».

    Io nell’angolo, in piedi speravo che tutto finisse in fretta.

    Mio padre mi guardava come a dire: guarda cosa sono costretto a fare… ma tu sei dalla mia parte, no?

    Puttana. Ecco la parola che si ripeteva come degna chiusura della scena. Le facce stravolte e le mani scottate dal fuoco delle mazzate.

    Puttana. Fontana. Le due parole si confondevano. Oscure. Uno sciacquio nella mia mente. Una di quelle frasi incastrate nella memoria di cui non riuscivo a coglierne il significato. Come quando leggevo Topolino. Amalia, la fattucchiera che ammalia (io continuavo a pensare Amalia la fattucchiera che Amalia). Cosa poteva mai significare due volte Amalia?

    Le parole fanno senso nella nostra versione, nella nostra esperienza mentale.

    Mio padre che picchiava mia madre. Il primo tempo della mia vita rispetto a lui. Quando lui era Dio.

    Dopo, nella seconda parte, mio padre si nasconde, proprio come Dio, ciononostante è nella mia vita, nelle mie cose. Nella mia carne dolorosa. Di lui racconterò la storia. Del capitano Goretti, mio padre. Eroe di guerra, e fantasma inafferrabile di cui non sapevo niente del prima, se non l’avventurosa vita fra le macerie e i sogni dell’Italia fascista. Di lui fra il ’43 e il ’45.

    E la contesa di quel ponte nella terra di confine. Fra Gorizia e Trieste. Di quella ossessiva ferita dove la morte era un sangue misto italiano e slavo. Fu, alla fine, per molti, una pace di plastica. Finta e necessaria, ma che passò sopra i morti. Di molto odio e clamorose vigliaccherie. Una pace senza riconciliazione.

    La Speranzella.

    La Speranzella era un quartiere dove d’inverno si gelava.

    Il grande portone del palazzo del nonno aveva sul frontespizio, in alto, uno stemma gentilizio dove un fiore di narciso si intrecciava alle note di un pentagramma.

    C’era nel gigantesco salone un pianoforte a coda nero, che custodiva, come in una bocca, i tasti bianchi e neri, ingialliti. Io, come un ladro, dopo avere spalancato le fauci dello strumento, alzato la ribalta, li toccavo senza farli suonare. Col naso mi avvicinavo al legno. A quegli aromi per odorare e colmarmi fin dentro le tempie, la bocca, di quel profumo asprigno di resine, legno e trementina.

    Mi avvicinavo con circospezione.

    Sul pianoforte quella foto scura nella quale bianchissima, dolce e fantasmatica, in una grazia amorosa, e col viso sorridente, la cornice nella quale una bambina paffutella se ne stava in piedi. Sullo sfondo i riccioli increspati, scuri, di una tenda come di sipario.

    Quel ritratto mi avrebbe seguito per tutta la vita

    3

    Adesso ho più di cinquant’anni. Cinquantatré per la precisione. Sono nato nel 1953.

    E cinquantatré è la prima età che mi ricordo rispetto a mio padre, cioè nel 1961, quando avevo otto anni. Come se mio padre fosse nato a quella età.

    Chissà perché quella cifra mi sembrava la prima percezione concreta di lui. Bloccato nel tempo. Ricordo di vergognarmi perché mi pareva che quell’uomo fosse troppo vecchio, impresentabile agli altri compagni, che invece avevano genitori giovani. E sempre più presenti dei miei. Fuori scuola a scambiarsi saluti, a soffocare i capricci, a piazzarsi col muso contro le vetrate della Vito Fornari, a Bagnoli, dove avevo fatto le elementari.

    I miei genitori, invece, erano striature bianche e nere della memoria. Solo il primo giorno di scuola venne mia madre. Come a piantarmi nella confusione generale, senza che opponessi rifiuto. L’impressione nitida dei baffi rossi di Marrese, il maestro con la Seicento bianca.

    Ora mi guardo allo specchio, cercando di raccogliere le tracce del loro passaggio nelle rughe del viso. Nello sguardo, nel sangue ostruito, sul punto di seccarsi. Dai sobborghi della memoria risalgono, domande che vogliono la luce.

    Un’ombra velenosa non basta a distogliere gli occhi dallo specchio.

    Gli specchi, si sa, vivono di vita propria e possono sputare nel piatto dove mangiano. Non c’è alcun dubbio che sulle nostre spalle ci sono angeli e demoni, appollaiati, che nessuno vede, ma quelle superfici riportano.

    Ho la passione per la scrittura e un sogno nel cassetto: quello di poter vivere di questi sogni di carta.

    Quando scrivo mi pare di suonare un pianoforte. Ogni parola, ogni frase è come se tanti piccoli animaletti si staccassero dalle dita vagando prima per la casa e poi per il mondo. A volte i sogni imperversano e devo soffocarli nella culla dove si sono formati.

    Non credo che i sogni siano messaggeri dell’aldilà. Ma mi piacerebbe. Quelli notturni quasi sempre li dimentico. Vorrei che fossero, perlomeno vagiti del destino, espressione che mi è molto piaciuta.

    Proprio in questi giorni ho cominciato a leggere i Salmi dal Nuovo Testamento, e lì è tutto un annunciare attraverso i sogni.

    Dio parlava con i suoi eletti in quel modo. Di certo molto efficace, visto che gli avvisi erano presi molto sul serio.

    E questa notte è accaduto qualcosa che mi ha profondamente turbato.

    Marianeve mi è comparsa in sogno (ma era veramente un sogno?), e mi ha parlato.

    Marianeve è la bimba paffutella della fotografia dell’infanzia, una mia sorellina prematuramente scomparsa. Quel quadro lo tengo con me, in casa, in un lato della libreria. I libri la stringono in una morsa di carte e copertine. Ma lei ha resistito a tutte le mie piccole rivoluzioni di autori che si ribellavano negli scaffali. Alle loro antipatie gli uni con gli altri. Alla fine Marianeve è lì.

    4

    Ma chi fosse veramente quella bambina lo avrei saputo solo più tardi, dai racconti dei miei genitori, mia madre in particolare. Di come la mia vita fosse ammanettata alla sua morte precoce. Di come quella morte era stretta al grande nonno, il favoloso medico che mia madre stentava a descrivere. Riusciva solo a dire che al suo studio c’era la fila, alimentando la maschera ieratica. Che la loro famiglia era l’unica alla Speranzella, a possedere l’automobile: una Fiat Balilla lucida e nera. Con lo chauffeur, Antonio. L’autista. E che una volta, il grande nonno volle guidare. Finì in una nuvola ignominiosa di fumo e tossi convulse. Era andato a incastrarsi in un bar ingannato, disse lui, da un barbaglio di luce, e dall’incontrollata bizza dei freni.

    Una macchina nera, ci teneva a precisare mia madre, perché il nero era un colore aristocratico che portava con sé un segno inconfondibile di nobiltà. Un colore dal quale provenivano sogni di grandezza, abbastanza remoto da restare celato a ogni spiegazione razionale sulla provenienza degli averi e degli improvvisi fallimenti che rendevano i guanciali della nonna materna impastati di lacrime e sospetti. E quelli del nonno guastati da eccessi di gloria superiori alle possibilità.

    Sparivano così, d’un tratto, vassoi dorati o trapunte finemente accessoriate. A volte mobiletti fiorati che lui, con sarcasmo, definiva superflui. Ciononostante i suoi passi risuonavano nei corridoi della casa nelle grandi scarpe scure deformate dall’uso. Un percorso fatto con le mani intrecciate dietro alla schiena, avanti e indietro, col respiro grosso che ricacciava rabbiosamente nei polmoni assieme al fumo delle sigarette Nazionali senza filtro. Aveva il volto di pietra, e la nonna diceva che dormisse in piedi come i cavalli, e come i cavalli fosse ancora focoso.

    Era evidente che quella bambina era una parte di me. Soltanto affondando dentro di lei avrei capito chi fossi veramente.

    Nel morire aveva lasciato una lunga scia chiara, un filo di Arianna, e un odore di mandorle che continuo ad avvertire, a rimpiangere.

    Camminavo con quella ombra al fianco, dalla quale non potevo separarmi.

    La fotografia di Marianeve era passata dalla casa dei miei genitori, dopo che erano morti, in casa mia. Dall’infanzia aveva attraversato l’intera mia vita, segretamente viva, sopravvivendo ai vari traslochi, ogni volta incerottata accuratamente, dondolando sul sedile posteriore delle mie utilitarie, fra scartoffie e un rumoroso bagaglio fatto prevalentemente di cose inutili alle quali ero ferocemente legato.

    Ricordo che fin da bambino, ogni volta che mi fissavo a guardare quel ritratto, mi prendeva la commozione. Come braccia spuntate dal nulla che mi afferravano alla gola.

    Mi consumavo in quello sguardo, e avrei voluto distendere le braccia verso di lei. Mi inventavo, talvolta storie, nelle quali giocavamo insieme. Così ingannavo l’invincibile noia di quella età di confusa sofferenza, di fratture da comporre fra me e il mondo. Di giocattoli solitari, di compagni immaginari, di piccoli assaggi al mondo dei sensi, guardandosi come esseri separati da sé.

    Dentro al mio corpo si formava una concrezione aliena, attorno alla quale si avviluppava un pezzo del Lorenzo di adesso, quello che era in corsa col capitano suo padre. Il guerriero delle foibe, il capitano Goretti. L’eroe. Quello al quale devo ancora dimostrare di essere degno, talvolta con astio, con odio. Altre volte con epica devozione. A volte come la ricerca di una radice perduta.

    Da bambino, quella di guardare Marianeve era un’abitudine alla quale nessuno faceva caso. Mi riempivo di quella immagine fino a stordirmi. Poi, senza chiedere permesso scendevo giù di fronte al vicolo, alla Speranzella, per fuggire, come se quel pezzo di strada fosse una breccia per il mondo e per la libertà. Ma mi mancava il coraggio di andare oltre. La voce di mia madre Margot, e della nonna arrivavano insieme dall’alto. Poi una mano ignota mi riportava fra le enormi mura domestiche, come le navate di una chiesa. Recalcitrante. Che senso avevano quelle mezze fughe? Mi pareva una beffa, e mi chinavo su me stesso per opporre una stolida resistenza. E tornavo a pensare a lei, la bimba del quadro.

    Marianeve. Le ali degli angeli diventeranno coltelli.

    Marianeve era mia sorella. Nata dieci anni prima di me, e morta di meningite.

    Sentivo come se un vento si fosse liberato. Ne avevo paura, ma adesso la vita correva veloce, e lei mi era apparsa in sogno come la ricordavo. Con la veste leggera e il sorriso mite e tranquillo.

    C’era in famiglia un’altra piccola fotografia dove lei, la bambina, scendendo lungo una strada, stringeva una mano di cui non si vedeva il corpo. La scritta in alto diceva di una confraternita religiosa.

    Avevo allora pensato che quell’opera pia fosse complice di un mistero.

    La bambina era stata ospite in un orfanotrofio? Addirittura proveniva da lì? Ma perché? Era stata forse adottata?

    Alla fine avevo scartato quella probabilità. Troppe somiglianze, e la sensazione di afflizione che provavo di fronte al quadro, riportava a una carne comune. Carne della stessa carne come con l’altra sorella Irene, che però aveva avuto una vita contigua alla mia, sebbene spartita per mezzo, con momenti di lunghe lontananze e improvvisi ritorni. E dalla quale, ogni tanto, borseggiavo memorie, a volte aspre e risentite. Altre volte dolci, liberatorie, che permettevano a lei di abbandonarsi a faticosi sussurri, e imprigionare immagini superstiti che, altrimenti, sarebbero naufragate senza nessuno che le ascoltasse.

    Di Marianeve «se n’è andata coi santi. Troppo

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