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Aura Furens
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E-book147 pagine1 ora

Aura Furens

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Info su questo ebook

In un remoto passato, Sibilla, una strega malvagia e bellissima, fu trucidata dal capitano di una nave a causa dei suoi malefici. Decisa a vendicarsi, profetizza che sarà una sua discendente a riscrivere la storia e a eliminare il virus umano. Il suo nome è Pioggia.
Ritrovata in fasce ai piedi del Massiccio dello Sciliar, in Trentino, da un montanaro selvaggio, violento e ubriacone, viene cresciuta dall’uomo che stante il suo carattere prova per la bambina un affetto sincero. Durante la notte, in sogno, Sibilla istruisce Pioggia, intenzionata a trasformare l’allieva nella più grande strega mai vissuta. Perché la profezia si avveri Pioggia deve imparare a odiare e a bramare esclusivamente la solitudine, per questo la sottopone a prove strazianti e tenta con ogni mezzo di soffocarne gli istinti di ribellione.
Costretta a vagare tra orfanotrofi e famiglie affidatarie che dapprima la accolgono soggiogati dalla sua bellezza, per poi cacciarla alla prima manifestazione concreta del suo animo malvagio, Pioggia fa tesoro delle lezioni che la sua Maestra le impartisce.
Finché un giorno, Sibilla la sprona a intraprendere il viaggio che finalmente la avvicinerà al compimento della profezia. Così, in una Milano notturna e libertina, la giovane strega troverà il proprio destino e con lei l’umanità intera.
Coinvolgente e anomalo romanzo di formazione in stile fantasy.
LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2021
ISBN9788832929317
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    Anteprima del libro

    Aura Furens - Giampiero Curti

    Prologo

    Quel vento rabbioso lo sento ancora sulla pelle, mi eccita come allora. La pioggia gelida mi sferza il volto, la sua bocca spalancata in un urlo ammutolito dal frastuono della natura. L’uragano incombente.

    La responsabilità è mia, e chi se ne frega.

    Se il suo nome non si ripetesse trapanandomi il cervello in un loop eterno, me ne sarei dimenticata, invece no! Sono condannata a sentirlo per sempre, nel mio cuore di pietra, ma la cosa non mi tocca più.

    Quando ti trovi nell’oscurità più impenetrabile, intorno a te non hai altro che il buio, il nulla, e non hai un cazzo di niente da fare, rivivi la tua vita all’infinito fino alla noia, fino a conoscere anche il più microscopico movimento del più piccolo muscolo facciale.

    Conosci a memoria le frasi che dirai una dopo l’altra, valuti ogni tua scelta e concludi che va benissimo così, perché sai che non eri abbastanza forte e, quindi, finalmente, sei serena.

    Eccolo, un pezzetto di quella vita, il capitolo più importante, quello che mi ha resa chi sono.

    Buona visione (l’avessi avuta io una buona visione).

    Pioggia

    0

    Ogni tanto qualche porno lo guardavo. Così, come si guarda un video di ginnastica. Prediligevo gli amatoriali dove, un uomo, il più delle volte brutto, provava a fare il macho con una sgualdrina impenitente che, di sicuro, prima di lui, ne aveva avuti altri centosessanta facendo puntualmente finta di raggiungere l’orgasmo. Li vedevo di nascosto nel capanno degli attrezzi dell’orfanotrofio dove facevo finta di vivere. Ogni tanto, presa dall’eccitazione del momento, mi scappava una risata mentre giudicavo con austerità gli schifosi partecipanti a quei video obbrobriosi. A volte, quelle risate erano la ragione per cui venivo stanata. La suora di turno entrava gridando e partivano gli schiaffi che alimentavano le mie risate e la rabbia omicida. Mi strappava di mano il portatile con sdegno e se ne andava. Ovviamente non vi era masturbazione alcuna, sarebbe stata un’ammissione di debolezza; avevo il controllo delle mie pulsioni fisiche, allora. Da quel punto di vista, ero di sicuro molto più immacolata e cattolica di qualsiasi suora o prete orbitasse nel mio orfanotrofio maledetto. Uno dei tanti, dopo essere stata cacciata da tutti quelli precedenti. Che soddisfazione sentire le donne di Dio urlare il mio nome scandalizzate: Pioggia! Cosa stai facendo?

    Sì, mi chiamo Pioggia. Non chiedetemi chi me lo abbia affibbiato, questo stupido nome. Tutto sommato, mi rappresenta bene: la pioggia lava, nutre, purifica e tante, tantissime volte, rompe i coglioni.

    All’epoca avevo quattordici anni. Era il mio quarto orfanotrofio. Ricordo ancora quando arrivai lì: quella mattina la famiglia che mi aveva scelta dall’istituto precedente – abbindolata della mia pelle di porcellana, dai miei occhi verdi, dai miei capelli neri lucenti – finì la pazienza nei miei confronti. Il motivo scatenante? Volevo vedere se le automobili esplodevano come nei film, quando venivano incendiate. Dunque, posso dirvi che non è vero, appositi sistemi di sicurezza non fanno arrivare le fiamme al serbatoio del carburante. Fino all’estinzione del fuoco però, le auto bruciano proprio bene, una bella fiammata alta e caldissima, così famigliare per me da sempre (strano); con i SUV, poi, funziona ancora meglio. Provate, ve lo consiglio.

    Insomma, il mio patrigno, dopo avermi strigliata per bene, chiamò i servizi sociali urlando che non ero umana, che ero indemoniata, ingestibile, cattiva fin nel profondo dell’anima. Tutte cose vere, devo ammettere. Bravo, papino, avevi proprio capito tutto.

    Laura, un’assistente sociale che già conoscevo, mi venne a prendere a casa. Trovò la mia matrigna in lacrime per la grave perdita (il suo affettuosissimo fuoristrada). Il marito, intanto, mi curava a vista con uno sguardo incattivito e severo; io ero seduta su una sedia di vimini, ancora vestita del pigiama. Era bello quel pigiama, con le stampe di unicorni, pegaso e arcobaleni. I miei occhi, invece, erano d’inferno, un’espressione talmente corrucciata da farmi temere di non riuscire più a tornare alle mie fattezze di dolce bambina.

    Eccolo, un vero sguardo cattivo, povero omuncolo quarantenne in carriera. Tienimi ancora qualche mese e vedrai come farò finire la tua vita mediocre. Non aspetto altro!

    Questi i miei progetti per il futuro, quando invece Laura era venuta per portarmi via, come quando si riporta un cane al canile perché morde. Si avvicinò con riverenza, quasi con paura.

    Sghignazzai dentro di me questo pensiero: Brava la mia sfigata, hai capito chi comanda, vero? Avrò dieci anni, ma posso trasformare la tua vita nell’inferno più devastante che tu possa immaginare. La tua faccia, con quegli occhiali e i brufoli pieni di pus, mi ispira torture infinite.

    Mi prese per mano tenendo lo sguardo basso, chiedendo mille volte scusa agli ennesimi genitori adottivi che, soltanto dopo pochi mesi di convivenza, mi cacciavano via. Mi portò fuori da quella casa senza nemmeno tentare di convincerli a tenermi ancora con loro. Poco male, tanto quei fighetti mi volevano solamente per mettere tutti i tasselli della famiglia perfetta al loro posto, per avere un’immagine immacolata. Invece si tradivano a vicenda e si stavano pure sul cazzo.

    Danni in ordine sparso: un SUV incenerito, la cagnolina (uno yorkshire terrier costosissimo) fatta accoppiare con un meticcio randagio trovato per strada, un toupet intriso di candeggina quando era ancora appiccicato al crapone unto di Bernardo Selvi, direttore della banca dove lavorava (al passato) il mio patrigno, due infarti alla madre di mia madre, procurati con delle deflagrazioni da me programmate nel cuore della notte mentre la vecchia dormiva. Senza contare i capricci finemente orchestrati per non farli vivere sereni e le fughe da casa. Tutto in cinque mesi.

    Non male come media, direi.

    Io e Laura uscimmo mano nella mano, il suo arto sudava un liquido freddo (uno schifo). Mi fece salire in macchina, una piccola utilitaria alimentata a gpl. Il falò, in questo caso, sarebbe stato più piccolo ma, stavolta, sarei probabilmente riuscita a ottenere la tanto agognata esplosione. Ci avviammo in silenzio fuori città; due o tre volte, durante il viaggio, Laura provò ad accendere l’autoradio per smorzare l’aria pesante e silenziosa; bastarono un paio di mie occhiatacce per farle cambiare subito idea. Non avevo la minima voglia di ascoltare quei cazzo di gruppi metal che tanto piacevano alla mia assistente sociale oratoriana preferita. Brutti stronzi che fingono durezza soltanto perché maneggiano una chitarra, o perché urlano in un microfono la loro stupida rabbia milionaria.

    Il viaggio si concluse ai piedi di una collina colma di fiori e piante. (La natura è sempre troppo magnanima.)

    Camminammo lungo un sentiero in salita. Laura annaspava e sudava e non parlava; io ero scocciata per i fatti miei, ma fresca come una rosa. L’orfanotrofio era in cima alla collina, una vista romantica e dolce per persone smidollate che continuano a sperare nell’amore. Per arrivare all’entrata si doveva passare sotto archi di viti con grappoli d’uva odorosa. Scommetto che le suore dell’orfanotrofio, prima si riempivano di vino, e poi sentivano la voce di Dio. Facile così!

    La struttura confinava con la tenuta estiva di un vecchio e ricco uomo d’affari, uno mi dissero poi, senza scrupoli, capace di qualsiasi cosa per un po’ di denaro e di potere in più, cattivo quasi quanto me, ma è in quel quasi, la differenza.

    Era solito lasciare aperto il cancello della tenuta, forte della ferocia dei suoi dobermann, Gelo e Veleno. Più di una volta quei cagnacci avevano azzannato i visitatori dell’istituto procurando anche conseguenze gravi. A ogni denuncia sporta alle forze dell’ordine, e a ogni loro uscita, Marco Esposito, il milionario, riusciva a venirne fuori più pulito di prima. Certo, con qualche migliaio di euro in meno, ma per lui erano solo solamente spiccioli.

    Quando passai di fronte al cancello, udii i latrati e il rumore della ghiaia che scricchiolava sotto le zampe potenti dei cani. Vidi le due grosse bestie correre verso di me, avvicinarsi con la bava alla bocca e le zanne in bella vista. Mi sembrava una scena al rallentatore.

    Laura urlò (non al rallentatore) e, coraggiosa com’era, si rifugiò piegata sulle ginocchia dietro di me. Mi venne un colpo. Ero una bambina sovrannaturale, non un robot. Mi sembrava di essere fuori dal corpo, di vivere un avvenimento non mio, e sentii il sudore affiorarmi sulla schiena e sulla fronte. Mi autodisciplinai in una frazione di secondo e fissai i cani nei loro occhi color fuoco. Si fermarono all’istante e indietreggiarono guaendo (parola a me sconosciuta, poi trovata sul vocabolario Treccani. O due, in questo caso).

    I dobermann scapparono via, come se il mio sguardo rappresentasse per loro un gravissimo pericolo.

    Solo allora mi accorsi che sul ramo di un albero, all’interno del giardino della villa, c’era un gatto (o gatta) piuttosto famigliare, completamente nero e con occhi verdi dalla forma del tutto simile a quella dei miei. Mi guardava fissandomi proprio nelle pupille.

    Poi si leccò una zampa, saltò dall’albero a un muretto lì vicino e si dileguò.

    Con il naso sanguinante, Laura si sollevò dalla posizione accucciata e, quasi fosse posseduta, sussurrò qualcosa che non riuscii ad afferrare. Infine, stramazzò a terra, svenuta. La lasciai lì, incurante della parola che aveva appena pronunciato, ignara di quanto sarebbe stata importante per me.

    Scoprii poi che disse: Sutica.

    Entrai da sola superando il cancello, mentre due suore correvano urlando spaventate verso il corpo dell’assistente sociale accasciato per terra.

    1

    Sono stata ritrovata a valle del massiccio dello Sciliar, in Trentino, da un eremita barbuto, silenzioso e grosso come una montagna, che beveva vino come fosse acqua e non disdegnava menare le mani all’osteria con chi, secondo lui, gli rompeva i coglioni.

    L’uomo stava tornando ubriaco fradicio verso la sua baita a quasi mille metri di altezza sul paese e, barcollando vicino a un abete maestoso, profumato e bellissimo, sentì il mio pianto rabbioso.

    Ero nata soltanto da qualche settimana ed ero in salute e bellissima come l’abete.

    L’uomo dimostrava molti più anni di quelli che aveva e, sfruttando la sua bruttezza, l’odore poco piacevole, la barba assolutamente non curata, la poca voglia

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