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Il Popolo del Dono: trilogia completa
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E-book699 pagine10 ore

Il Popolo del Dono: trilogia completa

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Info su questo ebook

Prima parte: Siamo alla fine del secondo millennio, tempo Terrestre. Un’astronave appare nei cieli del pianeta. Solo due terrestri, un uomo e una donna, immuni alle onde antigravitazionali, riescono ad entrare in contatto con i visitatori alieni. Scopriranno in seguito che alieni non lo sono affatto e si troveranno immersi in un’avventura accaduta nel lontanissimo passato della Terra. I visitatori fanno una promessa che sarà esaudita solo se il popolo della Terra ne sarà degno. Seconda parte: alcuni secoli dopo la promessa viene mantenuta ed un segnale viene lanciato. Il segnale porterà un terrestre ad un viaggio nello spazio profondo fino a raggiungere la patria dei visitatori.Terza parte: siamo nel quarto millennio. Siamo alla sintesi, al compendio di quanto accaduto nelle prime due parti. La conclusione logica sarà una vera sorpresa, ci sarà un vero e proprio colpo di scena finale che ci farà sicuramente riflettere aggiungendo un tassello alle tante teorie sull’origine della vita nell’infinito universo.
LinguaItaliano
Data di uscita13 feb 2014
ISBN9788862599009
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    Anteprima del libro

    Il Popolo del Dono - Antonio De Sanctis

    IL POPOLO DEL DONO

    Il ciclo completo

    (Alle origini dell’Uomo)

    di

    Antonio De Sanctis

    EDIZIONI SIMPLE

    Via Weiden, 27

    62100, Macerata

    info@edizionisimple.it / www.edizionisimple.it

    ISBN: 978-88-6259-900-9

    Stampato da: WWW.STAMPALIBRI.IT - Book on Demand

    Via Weiden, 27 - 62100 Macerata

    Tutti i diritti sui testi presentati sono e restano dell’autore.

    Ogni riproduzione anche parziale non preventivamente autorizzata costituisce violazione del diritto d’autore.

    Prima edizione cartacea febbraio 2014

    Prima edizione digitale febbraio 2014

    Copyright © Antonio De Sanctis

    Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale

    o parziale e con qualsiasi mezzo, riservati per tutti i paesi.

    Briciole

    Come il sole, dopo un meriggio infuocato,

    mi sono incamminata lungo la via del tramonto.

    Vengo verso di Te o Signore, ma le mie mani sono vuote.

    Guardo indietro nella mia vita.

    Dove sono le preghiere di bimba innocente, le opere buone,

    gli ingenui fioretti?

    Briciole, non sono che briciole;

    piccole briciole nascoste tra spine,

    sepolte da cumuli di fango.

    Cercale Tu o Signore.

    Nella Tua mano diventeranno perle

    Come le lacrime con cui Ti chiedo Perdono.

    (Dicembre 1966 – Dalle poesie di mamma)

    Ai miei giorni felici

    A Cristina

    Sommario

    IL SEME DALLE STELLE

    Alcuni anni prima sulla Terra (Anno Domini 1995)

    Oggi, punto 10/24

    Alcune ore prima sulla Terra.

    Oggi, Terra, punto 8/24

    Oggi, Terra, punto 9/24

    Pianeta Terra, estrema periferia di Greentown, punto 11/24

    Pianeta Terra, anno Domini 1998, radura a sud di Greentown, punto 11.30/24

    Periodo: 200 anni AC tempo terrestre. Luogo: Pianeta a 10.000 anni luce dalla Terra.

    IL SEGNALE DALLE STELLE

    Anno Domini 2219, 15 Aprile. Volo di linea New York City – Boston.

    Boston, un mese dopo.

    (STACCO) Pianeta a diecimila anni luce dalla Terra.

    (STACCO) Pianeta a diecimila anni luce dalla Terra.

    Alcuni mesi prima sulla Terra.

    Pianeta Alphard

    QUARTO MILLENNIO – L’AGGUATO DEL MALE

    Pianeta Alphard, anno galattico 3.218.

    Pianeta Terra, tre anni prima.

    Pianeta Alphard, il giorno del Grande Evento.

    PARTE PRIMA

    IL SEME DALLE STELLE

    L’oggetto, appena al di sopra della stratosfera, circumnavigava lentamente il Pianeta sottostante, mantenendosi sulla linea dell’alba.

    Dopo 24 ore giunse nuovamente al punto di partenza, un giro completo era stato effettuato. All’interno, due esseri visibilmente di sesso diverso, erano seduti su alte sedie, gli occhi puntati davanti a scrutare attentamente gli strumenti.

    Sui loro monitor il Mondo al di sotto appariva come una splendida gemma azzurra con sfumature verdastre. Un po’ distante un bianco satellite accompagnava il suo cammino nell’universo.

    L’essere di sesso femminile alzò gli occhi dal video e guardò il compagno. Un attimo d’esitazione, poi con voce piena d’emozione disse:

    E’ giunta l’ora di scendere.

    L’essere maschio, percependo l’ansia, sorrise rassicurante:

    "Vedrai, questa volta avremo fortuna e potremo tornare a casa con la buona novella".

    La donna alzò il braccio a sfiorare gentilmente il volto del compagno, l’ansia di poco prima svanita. Velocemente si apprestò alla consolle per programmare la rotta d’avvicinamento:

    Altezza: un chilometro dalla superficie

    Punto: 10/24

    La navicella cominciò ad abbassarsi e alcuni minuti dopo raggiunse il settore programmato.

    Il cuore dei due esseri aumentò sensibilmente i battiti. Dopo mille anni una nuova ricerca aveva inizio.

    Alcuni anni prima sulla Terra (Anno Domini 1995)

    Il trillo del telefono mi svegliò bruscamente. Per un attimo pensai di averlo sognato, ma un nuovo lacerante trillo mi destò completamente. Guardai l’orologio sul comodino, le cinque del mattino.

    Chi diavolo era a quell’ora? Qualcuno ha sbagliato numero, pensai. Al terzo rimbombante trillo afferrai il telefono:

    Pronto!! Chi è?

    Pronto! Il signor Delano?

    Sì, sono io, chi parla? Diavolo sono appena le cinque, chi siete?.

    Qui è l’ospedale di Greentown, sono il dottor Monroe e ….

    L’ospedale!! Che cosa volete da me? E chi vi ha dato il mio numero? Perché mi chiamate a quest’ora?

    Signor Delano si calmi, mi faccia parlare, è urgente ... vede è accaduto un grave incidente e abbiamo trovato il suo numero di telefono sul …..

    Il resto lo persi, un nome era esploso nella mia mente: ANGELA!!

    Ma Angela era andata a trovare i genitori e si sarebbe trattenuta per alcuni giorni. Ci saremmo sposati il mese prossimo e gli ultimi preparativi avevano richiesto più tempo. C’eravamo sentiti per telefono proprio la sera prima.

    Pronto! Pronto! Signor Delano, è ancora all’apparecchio? Pronto!!

    Sì, sì sono qui, scusate non ho capito bene, come mai mi avete chiamato?

    La voce dall’altro capo divenne improvvisamente triste, le parole venivano fuori a fatica:

    Signor Delano, circa un’ora fa è stata portata al pronto soccorso una giovane donna gravemente ferita a seguito di un brutto incidente stradale. Tra i documenti abbiamo rintracciato il suo numero di telefono. Mi dispiace ma dovrebbe venire subito, la situazione è molto grave.

    In quel momento fu come se il mondo mi crollasse addosso per poi sparire. Nulla più esisteva, il telefono che stupidamente mi ciondolava in mano, la camera da letto, i mobili. I miei occhi erano aperti ma non vedevano. Solo un nome fiammeggiava nella mia testa: ANGELA! ANGELA!

    La voce al telefono mi riscosse. Lanciai lontano l’apparecchio e mi precipitai a mettermi qualcosa addosso.

    Alcuni minuti dopo sfrecciavo in auto diretto verso l’ospedale. Ricordando quei momenti, non riesco ancora a credere come abbia fatto ad arrivare incolume. Alberi, case, auto, sfrecciavano ai miei lati senza avere alcuna consistenza. Il mondo aveva perso l’abituale concretezza.

    Parcheggiai con uno stridore di freni dietro un’ambulanza, incurante d’eventuali divieti. Corsi veloce tra lettighe e persone in attesa. Intravidi un’infermiera con un carrello di medicine. La bloccai e sordo alle sue proteste le urlai:

    Il dottor Monroe, ho bisogno di parlare con il dottor Monroe, dov’è?

    Mi guardò un attimo, parve spaventarsi, chissà che faccia avevo, ma in quel momento nulla aveva importanza, nella mente continuava a rimbombarmi il nome di Angela.

    Allora, mi vuol dire dove posso trovare il dottor Monroe.

    Distolse gli occhi dal mio viso, prese un cellulare dalla tasca e chiese informazioni.

    Vidi che cambiava espressione, il timore sostituito dalla pena, il tono con cui mi parlò fu un’ulteriore conferma:

    Lei è il signor Delano? – al mio cenno affermativo continuò – terzo piano stanza 143, l’ascensore è girato l’angolo.

    Le ultime parole le sentii mentre volavo lungo il corridoio.

    In ascensore la mia mente cercava inutilmente un’alternativa. Chi poteva avere il mio numero di telefono? Qualche amica o forse qualche collega. Ma in quel caso perché chiamare me in piena notte? Angela!! Oh Angela, Signore fa che sia a casa dai suoi, ti prego mio Dio!!

    Senza sapere come, mi ritrovai davanti alla stanza 143. Nel momento in cui afferrai la maniglia per entrare, il terrore s’impossessò di me e restai lì bloccato, immobile. Il cuore che pulsava impazzito. Durò solo qualche secondo, poi rabbiosamente abbassai la maniglia, ma la porta non si aprì.

    Freneticamente cominciai a bussare e nel frattempo gridavo il mio nome e quello del dottor Monroe.

    Tra un urlo e l’altro avvertii lo scatto della porta che si apriva. Spinsi forte e la spalancai. Un uomo in camice verde fermò la mia irruenza, ma riuscii lo stesso ad entrare.

    Da quel momento in poi i miei ricordi sono al rallentatore. Nonostante l’uomo in verde tentasse di fermarmi, lentamente riuscii ad avanzare quasi al centro della stanza.

    Un uomo e una donna, anche loro in camice verde, si voltarono un attimo a fissarmi, per poi tornare nuovamente ad occuparsi della persona distesa sul letto.

    Quando i miei occhi riuscirono a metterla a fuoco, una lama bruciante mi trapassò la testa ed ebbi la conferma della distruzione del mondo che conoscevo. Solo la testa spuntava dalle bianche lenzuola. Una fascia le copriva quasi interamente la fronte. Gli occhi chiusi. Ciuffi di capelli biondi spuntavano disordinati. Dal naso uscivano due cannule che si perdevano sotto le coperte. Altri tubicini erano collegati ad un monitor posto sopra al letto. Passarono alcuni secondi prima di riuscire ad avvertire i rumori. Le mie orecchie avevano ripreso a funzionare. Per prima avvertii la voce dell’uomo fermo vicino al letto:

    Mi dispiace signor Delano, ma siamo giunti troppo tardi. Stiamo facendo il possibile, ma è passato troppo tempo, solo un mir…..

    Un altro suono si sovrappose, lento, cadenzato, orribile a sentirsi. Alzai lo sguardo verso la fonte, mentre le parole del Dottor Monroe perdevano significato. Il ritmico agghiacciante pulsare proveniva dal monitor sopra la testa di.. di.. Angela, si era proprio la mia Angela. Attraverso un velo di nebbia lessi alcuni numeri: 35-65 e più in basso, sincronizzato con il suono ed evidenziato con linee ondulate, 28.

    Un battito di ciglia ed il numero cambiò: 25.

    Con passi malfermi mi avvicinai inginocchiandomi davanti al letto. Il viso a pochi centimetri dal bianco volto della mia vita, quella vita che lentamente andava spegnendosi.

    Angela, amore mio, perché, perché? Ti prego non lasciarmi.

    Non riuscii a dire più nulla, la voce non volle più uscire, mentre lacrime sempre più copiose scendevano dal mio viso per andare a bagnare il bianco lenzuolo che avvolgeva il corpo della mia amata, quel corpo che pochi giorni prima stringevo come la cosa più preziosa della mia esistenza.

    Avevo chiuso gli occhi, non volevo più guardare, allorché mi sentii sfiorare il volto bagnato. Angela aveva alzato la mano ad accarezzarmi, occhi quasi spenti mi guardavano, un filo di voce giunse alle mie orecchie:

    Perdonami, amore mio, non volevo restare ancora lontano da te … oh! Antony, ho freddo molto freddo.

    Un brivido attraversò il mio corpo, una sofferenza atroce arrivò al cervello, insopportabile, mai provata, sembrava quasi che stessi per morire. Per un attimo vidi me stesso steso su quel letto, il cuore che perdeva battiti velocemente.

    Scossi violentemente la testa per ritrovare la ragione. Il mio sguardo incrociò quello della giovane infermiera, nel suo volto vidi riflesso il mio tormento. Inaspettatamente si chinò su Angela, accostò l’orecchio alla sua bocca. Vidi il suo volto perdere un po’ di colore, mentre mi guardava, in quell’attimo il silenzio scese nella stanza. Ogni segnale si era spento e capii che tutto era finito.

    ***

    Oggi, punto 10/24

    La navicella continuava lentamente il suo giro attorno al pianeta. Aveva sorvolato continenti, deserti, oceani, immense metropoli, piccole borgate, villaggi alpestri, fattorie isolate, ma gli strumenti erano rimasti silenziosi, i led spenti.

    I due esseri all’interno si guardavano sempre più demoralizzati, ma la ricerca non era ancora finita, non volevano arrendersi e la speranza era ancora forte.

    I sensori di bordo erano al massimo della potenza. Il più lieve palpito sotto di essi non sarebbe sfuggito.

    La circumnavigazione completa era quasi al termine, la navicella stava raggiungendo il punto di partenza. Alcune ore prima aveva sorvolato un’estesa città, ed ora sotto di essa si stendeva una piccola cittadina circondata da verdi colline. A circa venti chilometri una catena montuosa degradava dolcemente verso est per terminare davanti ad un vasto oceano.

    Una luce prese vita sulla consolle principale, accompagnata da un segnale acustico. I due esseri erano già pronti. Misero in posizione le telecamere esterne. Lo schermo centrale si accese. Le immagini, nitide, mostravano le vie e i quartieri della cittadina che lentamente scorreva sotto di loro. Al momento nessun cambiamento visibile, ma i sensori non potevano aver sbagliato, qualcosa era in movimento. Infatti, alcuni secondi dopo, due indigeni sbucarono da una via.

    L’essere maschio parlò, una nota d‘entusiasmo nella voce:

    Scendiamo a quota 300 sulla loro verticale.

    La navicella scattò fulmineamente ed un secondo dopo era in posizione.

    L’essere femmina si strinse al compagno, senza staccare gli occhi dallo schermo centrale. Ora l’immagine dei due indigeni spiccava chiaramente, ma era evidente che non si erano ancora accorti di quanto stava accadendo sopra le loro teste.

    L’essere femmina, impaziente, fece scendere ancora la navicella, posizionandola ad appena 200 metri d’altezza.

    Sotto di essa, l’indigeno più piccolo si fermò di colpo, lo sguardo rivolto in alto. L’attimo dopo indicava all’altro l’oggetto nel cielo.

    Ci hanno visti – esultò l’aliena, poi rivolta al compagno – possiamo passare alla fase successiva.

    Ancora un attimo Brede, diamo loro modo di osservarci bene.

    D’accordo Burma, ma sono impaziente di vedere come si comporteranno da qui in avanti, in ogni modo per il momento non sono fuggiti.

    Trascorsero alcuni secondi. La navicella era sempre immobile. Poi lentamente, nel silenzio più assoluto, iniziò a spostarsi verso la periferia e un minuto dopo sparì dietro gli ultimi edifici. Sotto, i due terrestri, stretti l’uno all’altro, cercavano di calmare il battito furioso dei loro cuori.

    Alcune ore prima sulla Terra.

    Di colpo aprii gli occhi, ma non era così che di solito mi svegliavo. Rimasi un attimo a fissare il soffitto appena visibile. Qualcosa non andava, fu il mio primo pensiero cosciente. Guardai l’orologio, le 6,30, attraverso le persiane del balcone, filtrava, lattiginosa la prima luce del mattino. Nuovamente pensai, qualcosa mi ha destato prima che la sveglia suonasse.

    La mente ormai completamente desta, iniziò a sfornare ipotesi una dietro l’altra. Con le orecchie tese, il respiro corto, cercai di captare eventuali rumori estranei. Forse qualche malvivente si è introdotto furtivamente in casa. Dalla cucina mi arrivò il lento ronfare del frigorifero. Infilai le pantofole e scesi dal letto. Il fruscio dei miei passi mi accompagnò per la casa. Tutto era in ordine e lentamente ritornai in camera. L’orologio segnava le 6,40, avevo ancora venti minuti. Ma non riuscivo a rilassarmi, qualcosa continuava a disturbare i miei sensi.

    Scossi la testa come a voler scacciare idee moleste, il silenzio gravava su di me come una cappa funerea. Guardai per l’ennesima volta l’orologio, quasi le 7, era ora di cominciare a prepararmi. Stavo avviandomi lentamente verso il bagno ma fatto tre passi mi fermai di colpo, il cervello aveva finalmente centrato cosa non andava in quell’eccezionale mattina: IL SILENZIO.

    Ormai erano le 7 e i soliti rumori, lo scrosciare dell’acqua dei vicini, le grida dei bambini al piano di sopra che iniziavano a prepararsi per andare a scuola ed il rombo delle auto nella strada, erano svaniti, dissolti in quell’innaturale silenzio. Per un attimo pensai d’essere ancora addormentato e che stessi sognando. Ma non era possibile, ero più che sveglio e la paura che iniziava ad insinuarsi nella mia mente, era molto reale.

    Le gambe sembravano essermi diventate di burro, riuscii in ogni modo ad avvicinarmi alla finestra. Scostai le tende e guardai di sotto ed ebbi un’ulteriore conferma che qualcosa non andava. Di solito a quell’ora c’era già un via vai d’auto, mentre adesso la strada era completamente vuota, deserta, quasi fosse un giorno festivo.

    Greentown, nonostante il traffico abbastanza intenso, è una cittadina tranquilla e piacevole. Circa 30.000 anime, molti spazi verdi con ampi giardini. Parchi alberati dove è possibile rilassarsi e trascorrere ore liete in compagnia. Le poche fabbriche sono situate quasi tutte alle estreme periferie.

    E qui che sono nato circa 35 anni fa. Il mio nome è Delano, Antony Delano, statura nella media, corporatura asciutta, capelli castano che in alcuni punti cominciano a colorarsi di grigio. Sono molto affezionato al mio paese e non ho mai voluto trasferirmi altrove, anche dopo una penosa e terribile disgrazia. Un maledetto incidente stradale La strappò alla mia esistenza poco prima che ci sposassimo. Sono ormai passati alcuni anni, ma il ricordo di quei terribili momenti brucia ancora dentro di me. Stava tornando in macchina ed era a pochi chilometri da Greentown, quando un ubriaco alla guida di una grossa auto invase la corsia opposta. Dopo l’incidente, la mia repulsione per i mali causati dal genere umano aumentò. Fuggii da tutti e per molti mesi mi rinchiusi in me stesso, odiando il mondo intero. Non rammento come ne venni fuori, forse qualche amico più paziente degli altri, m’indusse a riprendere una vita normale.

    Ma non divaghiamo e torniamo alla nostra Storia ed agli avvenimenti di quel fatidico ed indimenticabile giorno.

    Restai a guardare per un lungo istante la strada con la speranza di veder passare un’auto, invano, la via restò deserta, mentre il silenzio continuava a persistere. La paura si trasformò in rabbia e la rabbia mi diede coraggio e senza indugio mi diressi in bagno, mandando mentalmente al diavolo ogni cosa. In fretta mi lavai e mi rasai come ogni mattina ed una mezzora dopo ero pronto per uscire. Nel passare davanti al piccolo studio accanto alla cucina mi venne un’idea. Entrai e accesi la radio posta sulla scrivania, nulla, alzai il volume, una raffica di scariche m’investì come una mitraglia. Provai a sintonizzarmi su altre stazioni, ma ogni tentativo fu vano. Mi accostai al televisore, il baluginare nevoso dello schermo uccise le mie ultime speranze.

    Qualcosa di grosso era senz’altro accaduto, forse il mondo intero era andato in malora e la paura iniziò a riprendere il sopravvento. Dovevo uscire, improvvisamente una fretta indiavolata s’impossessò di me, dovevo andar fuori e vedere cosa stava accadendo.

    Infilai la giacca, uscii sul pianerottolo e chiusi la porta di casa a doppia mandata. A lato c’era l’ascensore, diedi un colpo al pulsante di chiamata e dopo 4/5 secondi avvertii il rumore della cabina che arrivava al piano. Spalancai subito le due porticine ed un altro imprevisto mi piombò addosso. La cabina era già occupata da una persona, la riconobbi subito, era Mr. Perdune, l’avvocato del sesto piano, con il solito completo grigio, cravatta rossa e l’immancabile valigetta stretta nella mano destra.

    Avrei preferito scontrarmi con qualcun altro, ma vista la situazione fu con un certo sollievo che esclamai:

    Mi scusi avvocato, ma il pulsante era verde, ci sarà qualche contatto, bisognerebbe mettere un nuovo elevatore, mi scusi di nuovo, ma ormai … se non le dispiace le faccio compagnia fino al piano terra … a proposito avvocato, non ha notato nulla di strano questa mattina?

    L’avvocato non fece una mossa, fu come se stessi parlando ad una statua. Restò immobile gli occhi fissi alla parete di fronte come se io non esistessi.

    Avvocato! – insistei un po’ seccato – non mi riconosce? Sono Delano l’inquilino del quarto piano, ci siamo visti altre volte, le è accaduto qualcosa? Non sta bene? Perché non mi risponde dannazione?

    Cominciavo a perdere la pazienza, ma l’avvocato sordo ad ogni mio incitamento, continuava imperterrito a fissare la parete di fronte.

    Sapevo che era un uomo schivo e di poche parole, ai saluti rispondeva con un borbottio incomprensibile, ma la situazione attuale era ben diversa da un casuale incontro. Avevo interrotto la sua discesa, da un minuto e più lo stavo bloccando al mio piano, una pur minima reazione avrebbe dovuto esserci, invece niente, lo sguardo sempre fisso davanti, la mano destra stretta alla maniglia della borsa, sembrava quasi non respirasse.

    Cominciai ad avvertire un formicolio alle mani, seguito da una fitta alle ghiandole surrenali, mentre il cuore aveva innestato la quarta.

    Incapace di muovermi, continuavo a fissare Mr. Perdune con angoscia crescente, ma anche con rabbia. Poi di colpo, sorpreso, mi accorsi che qualcosa stava cambiando nell’atteggiamento dell’avvocato. Reprimendo l’ansia, guardai meglio. Era sempre fermo, immobile, mi avvicinai e provai a scrutarlo attentamente negli occhi. Un brivido mi attraversò il corpo, quando notai che le palpebre si erano abbassate per metà, dando al volto il tipico atteggiamento di una persona che si sta addormentando.

    Cosa diavolo gli sta succedendo adesso? Pensai sconvolto, cosa faccio se mi cade svenuto ai piedi? Questa mattina è proprio maledetta. Intanto, con un movimento appena percettibile, le palpebre dell’avvocato si chiusero completamente, rendendo ancora più terrificante la sua immobilità.

    Ma le sorprese non erano ancora finite. Dopo alcuni secondi o forse minuti, i ricordi di quei terribili momenti non sono molto chiari nella mia mente, le palpebre di Mr. Perdune iniziarono lentamente ad aprirsi. Il tempo parve fermarsi, mentre lo fissavo intensamente. Il lento rialzarsi delle palpebre sembrò durare un’eternità, ma alla fine gli occhi dell’avvocato si spalancarono nuovamente, tornando a fissare con la medesima espressione lo stesso punto di prima.

    Per la seconda volta quella mattina pensai che fosse tutto un sogno, un sogno che stava tramutandosi in un incubo, un incubo che stava durando un po’ troppo.

    Paura e rabbia si alternavano in me, il cervello sconvolto non sapeva cosa fare. Strinsi i pugni e cercai di riprendere il controllo. Aspirai lunghe boccate d’aria e guardai attentamente l’essere immobile che mi stava davanti.

    Morto non sembra, riflettei tra me, la posizione eretta in perfetto equilibrio e quel lento movimento delle ciglia provavano inequivocabilmente che Mr. Perdune era vivo. La verità di colpo si fece strada. Avevo assistito ad un battito di ciglia, un battito durato cento volte più del normale. Il metabolismo dell’avvocato doveva aver subito un forte rallentamento, ma cosa l’aveva provocato? Del cibo avariato? Il mio cervello cominciò a sfornare le più svariate supposizioni, ma tutte prive di qualsiasi fondamento.

    D’altra parte quella mattina abbondava di fatti misteriosi. Il silenzio persistente, la radio e la tv mute, facevano presagire un’altra sconcertante ipotesi: Mr. Perdune non era l’unico ad essere colpito dallo strano e inquietante fenomeno. Iniziavo a delirare. Il panico mi faceva dare i numeri. Ma allora come spiegare il silenzio che continuava a perdurare? Qualcosa di terribile doveva essere accaduto e stava ancora accadendo.

    Di colpo mi sentii soffocare in quello spazio ristretto, distolsi lo sguardo da Mr. Perdune e mi precipitai giù per le scale per uscire all’aperto. Fuori però non mi sentii meglio e la situazione peggiorò ulteriormente. L’onnipresente silenzio, insopportabile dentro le mura di casa, all’aria aperta era spaventoso e mi schiacciava come un pesante macigno. Mi guardai disperato intorno, non c’era anima viva, la strada vuota. Perfino il bar sotto casa, di solito a quell’ora affollato, era chiuso, la serranda abbassata. Un’immagine terrificante si formò per un attimo nella mia mente: il gestore pietrificato nell’atto di infilarsi la giacca.

    Fin dove arrivava il mio sguardo, le strade erano deserte, un silenzio di tomba regnava sovrano. Il sole di prima mattina sfolgorava con la sua luce dorata, sulle auto ferme ai bordi della strada e sui vetri delle finestre. Lo spettacolo aveva un che d’alieno, per un attimo ebbi l’impressione sconcertante di non essere più sulla Terra. La paura mi assalì di nuovo, spaventato continuavo a guardarmi intorno, quasi che un mostro spaventoso dovesse apparire da un momento all’altro per aggredirmi. Il cervello sottoposto a troppe tensioni non ragionava più logicamente. Fisicamente però, ero a posto e nonostante tutto mi sentivo in forma.

    Non molto distante c’era l’edicola del mio buon amico Edgar. Ogni mattina prima di recarmi in redazione, lavoro all’unico Giornale locale, il cui direttore è un ex compagno d’Università, mi fermo sempre da lui a prendere i vari quotidiani da portarmi in ufficio. Non avendo altra scelta mi diressi in fretta verso l’edicola. Con sollievo notai che era aperta, affrettai i passi e la raggiunsi in un baleno. Incorniciato dai vari giornali e riviste, messe come al solito in bella mostra, spiccava il simpatico volto di Edgar che con una variopinta camicia di flanella, sedeva all’interno del suo modesto regno.

    Ciao Edgar – esclamai eccitato – meno male che sei qui, ma cosa sta accadendo? Non sembra anche a te di essere in una città fantasma? Hai visto qualcuno stamattina? Mi sembra d’impazz ….

    Smisi di colpo di parlare, ma Edgar come Mr. Perdune era immobile, cristallizzato, il sigaro, all’apparenza acceso e stretto in bocca, aveva ingannato i miei sensi.

    Una rabbia incontrollata mi assalì all’improvviso, a stento riuscii a non mandare tutto all’aria. Ero furibondo e non avevo nessuno con cui sfogarmi. Per fortuna durò poco, la ragione ebbe il sopravvento e ripresi il controllo. Comportandomi come un pazzo furioso non avrei risolto nulla, solo con calma e pazienza sarei riuscito a capirci qualcosa. Una domanda si formò subito nella mia mente: quando era iniziato? La sera prima il Mondo che conoscevo aveva ancora i suoi ritmi normali, quindi tutto era cominciato durante la notte.

    Mr. Perdune, chiamato l’ascensore, aveva fatto in tempo ad entrare nella cabina, dopodiché il suo metabolismo era impazzito. Doveva essere accaduto più o meno alle 6,30. L’avvocato aveva lo studio dall’altra parte della Città e ci teneva ad arrivare per prima in ufficio. Edgar invece, era solito aprire l’edicola molto presto, perché così gli operai del Pastificio situato appena fuori città, tornando a casa dopo il turno di notte, avevano modo di acquistare le riviste e i quotidiani freschi di stampa.

    Ma un’altra inquietante domanda stava facendosi strada. Supponendo che lo strano fenomeno non avesse colpito solo Edgar e l’avvocato, ma l’intera cittadina e non osavo andare oltre, come mai io n’ero immune? Il mio corpo e la mia mente avevano qualcosa che mi rendeva diverso dai miei simili? E poi chi o cosa era la causa di tutto ciò? Pensai subito ad un attacco terroristico con gas letali. Istintivamente annusai l’aria a scoprire eventuali odori estranei, nulla, anzi in quella mattina d’inizio Ottobre, l’atmosfera mi parve più pulita. Altre idee, una più assurde dell’altra, continuarono a frullarmi in testa, mentre mi allontanavo sconvolto dall’edicola. I miei passi rimbombavano come colpi di maglio, il sole un po’ più in alto nel cielo illuminava un paesaggio irreale. Ad un tratto mi sentii mancare mentre brividi incontrollabili mi attraversavano il corpo. Il timore di mollare e di impazzire però erano più forti, così continuai a camminare. Vagabondai qua e là senza una meta ben precisa, sempre con la speranza di incontrare qualcuno che non fosse ridotto come un morto vivente. Guardai l’orologio, non mancava molto alle dieci, solo il tempo trascorreva normalmente. Sconsolato e disperato, stanco ormai di girovagare inutilmente, mi sedetti ai bordi della strada, le mani nei capelli. Alcuni minuti dopo ripresomi in parte da quell’attimo di smarrimento, alzai lo sguardo al panorama circostante con l’assurda speranza che un miracolo dal cielo ponesse fine a quel terribile incubo.

    Ricordi penosi riaffiorano nella mia testa. Non era la prima volta, avevo già provato quella pena indicibile, quel sentirsi impotente davanti al dolore straziante e di non poter cambiare le cose. Si chiamava Angela, ed era la cosa più bella che mi fosse capitata nella vita e quando il destino crudele me la portò via, la mia esistenza cambiò radicalmente. Se avessi potuto avrei spazzato il Mondo via dall’universo e me insieme ad esso. M’isolai completamente da tutti, solo dopo molto tempo, con l’aiuto di qualche amico riuscii a venirne fuori, ma non del tutto. Il mio cuore rimase arido, duro, incapace d’amare.

    L’incubo che stavo vivendo ne stava risvegliando un altro. No, no, non voglio rivivere quei momenti, mi dissi, e con uno scatto rabbioso mi riscossi e scacciai dalla mente quei maledetti ricordi. Fu in quel momento che la vidi.

    Oggi, Terra, punto 8/24

    Sarah Merrit quel mattino si svegliò. Aprì gli occhi e guardò l’orologio, le 8. Balzò di scatto a sedere sul letto Mio Dio, dovevo già essere all’ospedale.

    Si stropicciò velocemente gli occhi, guardò ancora l’orologio: le 8,10.

    Ma che mi sta accadendo? Mi sono addormentata di nuovo? Ma non è possibile.

    Scosse violentemente la testa e solo allora si accorse di un leggero torpore che permeava tutto il suo corpo. Fece fatica ad alzarsi in piedi, ma il pensiero di essere in ritardo al lavoro le diede la forza necessaria. Il tempo di arrivare in bagno e le parve di stare meglio, lo strano torpore sembrava essere svanito, la mente completamente sveglia.

    Prima di farsi la doccia pensò bene di avvertire l’ospedale che sarebbe arrivata in ritardo, non le era mai successo, ogni mattina puntuale come un orologio, si svegliava sempre alle 6, ma quella mattina qualcosa si era inceppato e aveva dormito quasi due ore in più.

    Prese il telefono e formò il numero dell’ospedale. La voce registrata la pregò di attendere. Quasi immediatamente sentì il segnale che la metteva in comunicazione con il suo reparto. Al decimo squillo a vuoto, cominciò a preoccuparsi, attese ancora un minuto, poi mise giù e tentò di nuovo, Forse ho sbagliato interno pensò. Ma il secondo tentativo non diede risultati migliori, all’altro capo non rispondeva nessuno. La preoccupazione divenne ansia. Lasciò stare il telefono, si preparò in tutta fretta ed un quarto d’ora dopo era già fuori diretta verso l’ospedale. Per fortuna abitava abbastanza vicino, impiegava non più di dieci minuti. C’era da attraversare il ponte sul fiume ed era arrivata, l’ospedale cittadino era proprio di fronte. Quella mattina impiegò meno del solito, non si accorse nemmeno che l’unico suono che giungeva alle sue orecchie era il rumore prodotto dalle placide acque del fiume.

    Arrivò trafelata davanti all’ospedale, all’ultimo momento decise di entrare dal pronto soccorso, così avrebbe raggiunto prima il suo reparto. Era capo infermiera al reparto chirurgia femminile.

    Sorpassò alcune ambulanze ferme e pur nella fretta si accorse che qualcosa non andava. A quell’ora, di solito, la zona prospiciente il pronto soccorso era un via vai d’ambulanze, mentre ora una calma silenziosa avvolgeva l’intera zona. All’interno la situazione era ancora più desolata. Mentre attraversava di corsa l’ampio corridoio, intravide un infermiere appoggiato tranquillamente al muro, apparentemente immobile e un vecchio disteso su una lettiga.

    Ebbe l’impulso di fermarsi, ma il rimorso di essere in ritardo la spinse a proseguire e mise a tacere ogni altra tentazione. Salì le scale di corsa e in un attimo si ritrovò davanti allo studio del dr. Monroe, il suo capo. Bussò delicatamente, mentre pensava cosa dire per scusarsi. Passarono alcuni secondi, dall’interno nessuna voce. Bussò di nuovo, più forte, ma non accadde nulla. Alla fine si decise ad aprire e sbirciò dentro. Il dr. Monroe era seduto dietro la scrivania, il capo chino su alcune cartelle cliniche.

    Buongiorno Dr. Monroe, sono Sara Merrit, volevo scusarmi del ritardo, c’è stato un contrattempo, ma ora sono …….

    Si fermò di colpo a metà frase. Il dottore non si era mosso di un millimetro. Continuava a scrutare le cartelle poggiate sulla scrivania, come se lei neanche esistesse.

    Un po’ risentita da quell’ingiustificato comportamento nei suoi riguardi si fece più vicina e si rivolse di nuovo al suo capo:

    Perché non mi risponde? O mio Dio, non può essere così arrabbiato, alla fin fine è la prima volta, non può trattarmi così.

    Nessuna reazione. A questo punto un tremore la prese, la paura l’aggredì di colpo. Ebbe un leggero capogiro che la costrinse ad appoggiarsi sulla scrivania. Involontariamente toccò il portapenne che si rovesciò spargendo per terra e sulla scrivania il contenuto. Tremante, le gambe molli, guardò il dottore. Questo non si era mosso di un millimetro. In quel momento d’estrema tensione, il cervello esplose. Ogni cosa accaduta da quando si era svegliata di colpo acquistò significato. Il leggero torpore che aveva avvertito appena sveglia, il tempo che sembrava andare più veloce del solito, il tentativo inutile al telefono, la desolazione riscontrata appena arrivata e per finire il Dr. Monroe che sembrava essersi cristallizzato.

    E in quel momento si accorse anche dell’inquietante silenzio che regnava dappertutto. Ma come ho fatto a non accorgermene prima pensò, mentre cercava di riprendere il controllo.

    Uscì velocemente dallo studio e la mente ormai sgombra registrò ogni cosa. La realtà di quanto stava accadendo la colpì duramente e le sembrò quasi di impazzire, ma il carattere temprato da anni vissuti in mezzo a sofferenze estreme, ebbe il sopravvento e ricacciò in fondo la paura.

    Molto spesso, durante i sette anni di lavoro all’ospedale, si era trovata di fronte a situazioni al di fuori della normalità. Gente distrutta dal dolore per la perdita di una persona cara, la sofferenza atroce d’alcuni pazienti. A volte n’era così coinvolta da percepire dentro di sé, come se fosse sua, la pena indicibile che squassava l’animo, da desiderare quasi di morire. E proprio quelle sensazioni le davano il coraggio e la forza di aiutare quei poveretti.

    Ed in quella tragica mattina, nonostante la paura per l’ignoto, Sara si aggirò come una forsennata per l’intero ospedale alla ricerca di qualcuno da aiutare. Ma alla fine, sconvolta e distrutta, dovette ammettere che, medici, infermieri, pazienti, tutti erano ridotti come il Dr. Monroe, cristallizzati e immobili, quasi da apparire come fotografie tridimensionali.

    Senza sapere come, si ritrovò nell’atrio principale in prossimità dell’uscita. Per una frazione di secondo ebbe il timore di ritrovarsi all’esterno, terrorizzata al pensiero che anche la città fosse stata colpita dallo strano e angosciante fenomeno, ma non poteva restare lì, doveva affrontare l’esterno e cercare di capire cosa era accaduto, Forse fuori qualcuno come me, starà cercando aiuto pensò, e facendosi coraggio si affrettò ad uscire, dirigendosi decisa verso il centro cittadino.

    Oggi, Terra, punto 9/24

    Fu in quel momento che la vidi. Mentre disperato, con le mani nei capelli, cercavo di scacciare i brutti ricordi, con la coda dell’occhio percepii un movimento, come l’ombra di una ciglia sulla pupilla. Alzai di scatto la testa. In fondo alla via una figura stava lentamente attraversando la strada. Ancora pochi secondi e sarebbe sparita dalla mia visuale. Maledicendomi per quell’attimo di scoramento, mi alzai precipitosamente e gridai per attirare l’attenzione. Il suono della mia voce spezzò l’innaturale silenzio e simile ad un colpo di cannone si sparse per le vie deserte disperdendosi in lontananza. La figura lontana si fermò di colpo e si girò verso la mia direzione. Restò ferma così mentre anch’io la guardavo immobile, sorpreso come se fosse stata un’apparizione celeste.

    Accidenti, pensai, se resto così imbambolato, mi scambierà per uno dei tanti morti viventi, allora alzai le braccia agitandole e urlai nuovamente un richiamo.

    Con enorme sollievo vidi che rispondeva al mio gesto, mentre con passo veloce si dirigeva verso di me. Mentre le andavo incontro, un po’ di speranza riaffiorò, non ero più solo in quella città fantasma.

    Dall’andatura e dal lento agitarsi dei lunghi capelli, capii che era una donna. Giunti ad un paio di metri l’uno dall’altro, ci fermammo, scrutandoci attentamente, timorosi e anche increduli per quell’insperato incontro.

    Oh! Mio Dio – esclamò con voce resa acuta dalla paura – pensavo d’essere l’unica ad essere viva, ma che cosa è accaduto? Ci hanno attaccato con un nuovo tipo di gas letale? (anche lei aveva avuto la mia stessa idea), mi dica qualcosa, mi sembra di impazzire.

    Mentre parlava, investendomi con domande a cui anch’io stavo cercando invano delle risposte, mi guardava con occhi speranzosi, occhi profondi color nocciola. Era giovane e d’aspetto gradevole. Sopra un paio di jeans scuri, indossava una giacca leggera di renna, aperta su un bianca camicetta. Pur in quel momento d’estrema tensione, con un fremito non del tutto dimenticato, non potei fare a meno di notare il dolce movimento causato dal leggero affanno della corsa.

    Mi dispiace, signorina, ma non so proprio cosa sta succedendo, però lei si sbaglia, l’unica cosa di cui sono certo è che non sono morti, qualcosa ha rallentato enormemente il metabolismo.

    Ma, ma … ne è … ne sei sicuro? Ma come mai a noi non è accaduto? Che cosa abbiamo di diverso da non esserne stati colpiti? – di colpo impallidì, gli occhi dilatati – Mio Dio! Forse siamo destinati ad un altro tipo d’esperimento?

    Già, a questo non avevo proprio pensato, ma no, non era possibile, meglio non farsi prendere da strane idee, già la situazione era tragica se poi cominciamo a pensare di essere delle cavie da laboratorio, rischiamo veramente di impazzire.

    Per carità, non esageriamo, signorina …?

    Sarah Merrit.

    Bene Sarah, intanto cominciamo ad eliminare inutili formalismi, io mi chiamo Antony Delano, ma chiamami Antony, per quanto riguarda poi la situazione in cui ci troviamo, non credo che il Blocco Orientale o i terroristi siano in grado di produrre un’arma di tal genere. Ci deve essere un’altra ragione.

    Allora la causa può essere un nuovo tipo di virus, io lavoro all’ospedale e ne ho visto di tutti i colori, forse un esperimento mal riuscito, certamente qualcosa deve essere accaduto, che ne dici?.

    Come ti ho detto non ne ho la più pallida idea, in ogni modo bisogna continuare a cercare altre persone come noi, tu vieni dall’ospedale e immagino che sia inutile tornare da quelle parti, io ho girovagato senza incontrare nessuno e per poco non mi sfuggivi anche tu.

    Sì, ti ho visto seduto ai bordi della strada e se non ti fossi alzato …, ma come mai? Non stavi bene, stava accadendo anche a te?.

    Con sorpresa mi accorsi che le sue parole mi facevano un certo effetto, sentivo la pena che aveva dentro, ma la causa non era solo lei, sembrava quasi sentire la mia sofferenza e poi mi accorsi di un’altra cosa: il suo viso non mi era nuovo, in un angolo nascosto della mia memoria un ricordo sepolto cercava di venir fuori. Da quel terribile giorno non avevo più guardato una donna, mi ero isolato completamente ed ero diventato quasi un misogino. Invano amici avevano tentato, ma nessuna poteva competere con la mia Angela. Bastavano poche parole e le nostre menti diventavano una sola, ci comprendevano a volo, era un unione perfetta. Ma ora, qualcosa di nuovo, da molto tempo non più provata stava scavando dentro di me cercando di abbattere barriere che in anni di solitudine avevo eretto contro l’umanità.

    Antony, che c’è? Oh! No!! Ti prego non ti …

    Scusa, scusa Sarah, non ti spaventare, sto bene e che all’improvviso mi sono ricordato di averti già vista, ma non riesco a collocarti in nessun luogo, eppure sento che è importante, ma non vuol riaffiorare, quasi n’avessi paura, quest’incubo pazzesco ha fatto riemergere i giorni più terribili della mia esistenza e allora la disperazione s’impadronisce di me e tu mi hai visto proprio in quel momento, ma ora è passato, anche grazie a te.

    Il viso di Sarah si rasserenò e quando mi sorrise, una lama che non faceva male si fece strada dentro di me, mentre un dimenticato calore fece accelerare i battiti del mio cuore, ma che mi sta accadendo? Pensai sconvolto", cosa ha questa donna per farmi tremare d’emozioni non più provate? Il desiderio profondo di avvicinarsi ad un’altra persona, tornò a scaldare la mia anima.

    Ma in quel momento, mentre la guardavo attonito, l’espressione del suo viso cambiò, la luminosità di un attimo prima parve spegnersi, la tristezza che percepii nella sua voce, quando parlò, fu come un colpo di frusta per i miei nervi:

    E’ strano che non ti abbia riconosciuto subito, ora ricordo, ora so dove ti ho incontrato – sembrò non avere il coraggio di andare avanti, poi mentre mi poggiava una mano sul braccio continuò – tu sei … no eri, sì eri il fidanzato di quella ragazza che alcuni anni fa fu portata all’ospedale a seguito di un grave incidente stradale e che qualche ora dopo … morì, ero anch’io vicino a lei e la pena che provai mi perseguitò per giorni interi, l’avevo sentita dentro di me come un fuoco rovente, che non si spense neanche quando tu fuggisti via e ….

    Il cuore quasi si fermò, la mano di lei sul mio braccio sembrò bruciarmi come fiamma viva e bruscamente mi tirai indietro. Di colpo ricordai il suo volto vicino a quello di Angela. Se avesse indossata la divisa verde da infermiera l’avrei subito riconosciuta, ma ora la scena più volte rivissuta mi apparve chiara come se stesse ancora accadendo.

    Vecchie ferite si erano di colpo riaperte, ma con sorpresa costatai che non facevano più tanto male. Quella donna mi stava cambiando e vedendo la sua reazione al mio gesto inconsulto, mi diedi caldamente dello stupido:

    Sì ora ricordo anch’io, scusa per prima. Rammento perfettamente dove ti ho vista, eri vicina ad Angela e proprio prima che morisse il suo viso era accanto al tuo, ho sempre pensato che ti stesse parlando, ma ero troppo sconvolto, stavo morendo anch’io, così fuggii via per non ritornare più, ma ora ti prego continua.

    Mi guardò un momento senza parlare, sul volto emozioni contrastanti, poi scuotendo la testa disse:

    Nessuno più di me ti può capire, vedi Antony, il dolore e il tormento fanno parte integrante del mio lavoro, ma quel giorno fu diverso. Le tue parole disperate, quella povera ragazza che sembrava quasi chiederti perdono per quello che era accaduto, furono come spine roventi nella mia mente, mai avevo provato un tale coinvolgimento che ne restai spaventata.

    Mentre parlava pensai, questa donna ha superato la sofferenza e ora la mia sofferenza non mi fa più paura.

    Sarah proseguì:

    Non riuscivo a staccarmi da lei e quando posò lo sguardo su di me, gli occhi quasi spenti, si accesero un attimo e dalle sue labbra uscì una sola parola: Aiutalo. Fu l’ultima parola che disse, ma nei giorni che seguirono, spesso mi chiedevo se l’avessi sentita o l’avessi letta nei suoi occhi un momento prima che si chiudessero definitivamente e quando mi ripresi da quell’attimo di bruciante tormento, tu non c’eri più, eri scappato via e non sono più riuscita a rintracciarti. Oh!! Signore mio, chi l’avrebbe immaginato di ritrovarti ora che il mondo ci sta crollando addosso.

    Chi lo sa – dissi con voce che sembrava appartenere ad un altro – forse l’ultimo desiderio di Angela si sta esaudendo.

    Ed era un altro uomo quello che si avvicinò a quella donna e l’abbracciò, un uomo che dopo anni di solitudine provava di nuovo il calore di una donna tra le braccia.

    Quel magico momento passò ed imbarazzato mi scostai e stavo per scusarmi per quel gesto istintivo, ma quando vidi il sorriso di Sarah, capii che qualcosa di straordinario era accaduto e tutto il resto, il silenzio, i morti viventi, il mondo che andava a rotoli, non mi facevano più paura, la vita, quella vera era tornata a scorrere dentro di me. Mi sentivo pronto ad affrontare qualsiasi cosa, tremenda che fosse, ormai non ero più solo ed emozioni dimenticate tornavano a sollecitare la mia mente, ero sordo ed ora sentivo di nuovo, ero cieco ed ora vedevo di nuovo.

    Sarah, dobbiamo scoprire cosa sta succedendo – le dissi a malincuore, avrei voluto che quei pochi minuti durassero in eterno, ma la terribile realtà esigeva di nuovo la nostra attenzione – credo sia meglio dirigerci verso sud nella zona industriale, qui in città non troveremo nessuno ormai, sono ore che giro a vuoto.

    Sì, ma non voglio restare più sola, mi vengono ancora i brividi se penso a cosa ho passato all’interno dell’ospedale con tutte quella gente immobile nelle più svariate posizioni, non so come ho fatto a non impazzire.

    Un quarto d’ora dopo c’eravamo lasciati alle spalle il centro cittadino e stavamo raggiungendo le prime case della periferia. Il silenzio aveva accompagnato i nostri passi, le strade erano deserte, in una via laterale scorgemmo alcune auto ferme di traverso in mezzo alla strada, una era salita sul marciapiede con il muso schiacciato contro il muro. Sarah cercò di avvicinarsi, ma glie lo impedii, qualsiasi cosa fosse accaduta al conducente non potevamo fare nulla. La vista dell’air bag attraverso il vetro della portiera la tranquillizzò e docilmente si fece condurre via.

    Ritornammo sulla via principale per riprendere il cammino verso la zona industriale, quando un grido di Sarah, rimasta qualche metro più dietro, mi ghiacciò il sangue nelle vene:

    Antony! Guarda lassù, sopra di noi, cos’è quella cosa?

    Mi voltai di scatto, la vidi che guardava in alto, gli occhi sbarrati e la mano puntata verso il cielo.

    Guardai nella direzione indicata. Un brivido mi attraversò tutto il corpo. Allungai una mano e trascinai Sarah verso di me stringendola al petto, lo sguardo sempre fisso su quella cosa, lassù nel cielo.

    Un oggetto, in quel momento fu l’unico termine che mi venne in mente, era fermo ad un’altezza di circa duecento metri. Dopo qualche secondo, passato il momentaneo sconvolgimento, notai che era a forma di doppio prisma e i raggi del sole colpendo la superficie sfaccettata lo rendeva simile ad uno splendido diamante. Era meraviglioso da vedere, ma certamente alieno e mentre io e Sarah lo guardavano stupefatti, l’ufo lentamente e senza produrre il minimo rumore, si spostò sulla nostra verticale e lì rimase immobile.

    Smisi quasi di respirare, pensai, tra un istante un raggio uscirà e ci trasporterà dentro l’astronave per essere esaminati, rei di essere gli unici esseri in movimento, forse Sarah aveva ragione pensando che eravamo cavie da laboratorio.

    Passarono secondi, forse alcuni minuti, il tempo sembrava essersi congelato, svanito in quell’attimo di puro terrore, ma nessun raggio di natura aliena ci colpì. Sarah, stretta a me tremava come una foglia, cercai per quanto possibile di nasconderle che anch’io avevo una fifa tremenda e tentai un sorriso rassicurante. Alzai gli occhi in alto a scrutare nuovamente il gioiello volante, era ancora lì, fermo sopra di noi, ma mentre lo osservavo, lentamente riprese il volo silenzioso e avvolto da mille bagliori, sparì in direzione sud, dietro le ultime case della città.

    A poco a poco il cuore riprese il ritmo normale, mi scostai da Sarah e la guardai un po’ preoccupato. Il viso era ancora pallido, ma si stava riprendendo. Tirò un lungo respiro e con voce un po’ tremula disse:

    Antony, se non ci fossi stato tu non so cosa avrei fatto.

    Se ti devo dire la verità, ho avuto una fifa tremenda, ma non credo che quella Nave aliena sia un pericolo per noi.

    Ma sei sicuro che sia di natura extraterrestre?

    Sarah, hai notato che non faceva rumore? Nemmeno quando si è mossa. Non mi risulta che abbiano inventato un tipo di propulsione così sofisticato, con questo silenzio avremmo avvertito anche il ronzio di un moscerino in volo, no, sono sicuro, la tecnologia di quell’oggetto è avanti a noi di migliaia d’anni.

    Sì, hai ragione, e penso che un oggetto così meraviglioso non è stato costruito per distruggere, non ne dobbiamo aver timore. Oh, Antony! Hai visto come splendeva alla luce del sole? Era fantastico.

    Lo spavento di poco prima svanito. Sarah aveva ripreso colore e coraggio. Il suo sorriso era così contagioso che per un momento dimenticai tutto. La guardavo estasiato come da anni non guardavo più una donna, pensai perché non ti ho incontrata prima? Dov’eri in questi anni bui della mia vita?

    Il sorriso di Sarah divenne ancora più radioso, come se dal mio sguardo avesse intuito quello che avrei voluto dirle ad alta voce. Eravamo ancora vicinissimi e questa volta fu lei che venne tra le mie braccia. Restammo così stretti uno all’altra per alcuni interminabili secondi, consapevoli entrambi che da soli non ce l’avremmo fatta.

    Il silenzio sempre incombente ci riportò con i piedi per terra, mi staccai da lei.

    Sarah, dobbiamo andare nella direzione presa dall’ufo, ho notato che si è diretto verso la periferia della città e non l’ho più visto salire in alto. Deve essere atterrato a non più di cinque chilometri da qui. Probabilmente è una Nave in esplorazione o una specie di sonda, e credo che la sua presenza nei cieli della terra sia in rapporto con quanto sta accadendo ai nostri simili.

    Vuoi dire che quella cosa … quella Nave è la causa dell’immobilità che ha colpito gli abitanti della città?

    Sì, Sarah, ma non credo che sia solo la nostra cittadina ad essere in questa tremenda situazione, stamattina ho provato inutilmente a sintonizzarmi con la radio e la tv e non..

    Oh! Mio Dio!! Ma … ma veramente pensi che il mondo intero sia … – non riuscì più ad andare avanti.

    "Diavoli dell’inferno se lo so, ma dobbiamo scoprirlo e l’unico modo che abbiamo è seguire quel Coso".

    Ma altre angosciose domande continuavano a ronzarmi nella testa: Come mai noi due potevamo muoverci, apparentemente immuni dallo strano fenomeno? Ci aspettava forse un destino peggiore, come aveva già prospettato Sarah? Comunque meglio non pensarci e al diavolo tutto, sarei andato fino in fondo.

    Va bene, Antony – la voce le era tornata, anche se un po’ roca – seguiamo la Nave.

    Credo di sapere dove può essere atterrata. In quella direzione c’è il Pastificio e un centinaio di metri dopo si apre un’ampia radura, una volta coltivata a mais, e se l’Ufo si è posato non può essere che lì.

    Un po’ rincuorati e con qualcosa di concreto da fare, ci avviammo in direzione del luogo dove la Nave era sparita.

    ***

    Dopo circa mezzora di cammino, affannati ed un po’ stanchi, gli occhi ogni tanto rivolti in alto, raggiungemmo l’estrema periferia della città. Solo alcuni fabbricati ci separavamo ormai dall’aperta campagna.

    Ci fermammo un attimo a riprendere fiato. Durante il tragitto avevamo scambiato solo poche parole, ma bastava tenerci per mano per infonderci coraggio. C’eravamo incontrati solo da poche ore eppure sembrava che ci conoscessimo da sempre. Le nostre anime erano in perfetta sintonia, qualcosa che ancora non conoscevamo ci univa, qualcosa di profondo, inimmaginabile.

    Un brontolio allo stomaco mi riportò sulla terra e aveva ragione a brontolare, quella mattina avevo bevuto soltanto una tazza di caffè. In quel momento di pausa, la carne prevalse sullo spirito ed i morsi della fame si fecero sentire.

    Girai lo sguardo al desolante panorama. A non più di venti metri, dall’altro lato della via, scorsi un bar. L’insegna ancora accesa, però non faceva prevedere nulla di buono:

    Sarah, guarda c’è un bar – dissi indicandole l’insegna – da qui mi sembra aperto, non so tu, ma io ho una fame da lupi, che ne dici se mettiamo qualcosa nello stomaco? Ho bevuto un solo caffè ed ormai è un lontano ricordo.

    D’accordo Antony, io più che fame ho sete, però preferisco aspettarti fuori e ti prego fai in fretta.

    Attraversai la strada e mi diressi verso il bar. Sarah mi seguiva a pochi passi. Un’ampia porta a vetri costituiva l’ingresso:

    Aspettami qui davanti, farò in un attimo, se hai bisogno d’aiuto grida – le dissi mentre spingevo la porta a vetri ed entravo. L’interno si mostrò più piccolo di quanto avessi immaginato. Le luci erano tutte accese. A destra, allineati contro il muro, c’erano tre tavolini con alcune sedie. Dalla parte opposta, il bancone del bar occupava tutta la parete. Di fronte due porticine, la toilette ed un uscita di servizio. Uno dei tavolini era occupato da due uomini. Quello di spalle indossava un giubbotto scuro sopra una tuta celeste, un operaio del pastificio. L’immobilità lo aveva colpito mentre teneva stretta tra le mani una tazza, ma il calore che cercava era ormai svanito. L’uomo di fronte, in completo blu, aveva il braccio destro alzato all’altezza del viso, nella mano una tazzina di caffè.

    Mi diressi cautamente verso il bancone. Al di là di esso, un cameriere, in camice bianco, era appoggiato sui gomiti, fermo nell’atto di chiacchierare con un cliente, che seduto di fronte a lui, su un alto sgabello, guardava assorto il suo bicchiere pieno a metà di liquore, cognac, come indicava la vicina bottiglia. Attento a non toccarli, mi spostai di lato e mi avvicinai ad un contenitore termico posto sul bancone. Era pieno di brioche e la spia rossa accesa stava ad indicare che erano ben calde e pronte da mangiare. Ne afferrai quattro, presi anche dei tovaglioli e un paio di bottiglie di acqua minerale da una cassetta all’interno del banco. Lasciai una banconota da dieci dollari davanti al cameriere e dopo un ultimo veloce sguardo, mi affrettai all’uscita.

    Sarah mi aspettava appena fuori, vide cosa avevo in mano e mi rivolse uno sguardo speranzoso, ma bastò l’espressione del mio viso per toglierle ogni illusione.

    Ci allontanammo dal bar e ci avviammo lungo il viale che portava fuori città. Trovammo una panchina, ci sedemmo ed escludendo dalla mente ogni cosa mi diedi da fare a calmare i morsi della fame. Sarah non fu da meno ed in breve facemmo fuori tutte le brioche, quasi mi pentii di non averne prese di più, comunque bastò a ridarci un po’ di spirito. Riprendemmo il cammino e ben presto ci lasciammo alle spalle gli ultimi caseggiati.

    Davanti a noi, lungo la strada provinciale, apparve il Pastificio con i suoi capannoni ed un po’ defilato sulla destra, il fabbricato degli uffici commerciali ed il magazzino delle merci.

    Le poche speranze rimaste svanirono nel silenzio che circondava ogni cosa, l’unico rumore era quello provocato dallo scorrere delle acque del fiume, un centinaio di metri dietro al Pastificio. Ci dirigemmo con il morale a terra verso i fabbricati. La radura dove probabilmente era atterrato l’ufo, si trovava ben oltre il pastificio. Non avevamo la minima intenzione di arrenderci e caparbiamente andammo avanti. Mentre oltrepassavamo la zona dei capannoni, vedemmo una decina di operai immobili vicino al cancello d’entrata, era la prova ultima che anche in quel luogo affollato nessuno si era salvato. Guardai Sarah dietro di me, osservava la scena, nel viso emozioni contrastanti si alternavano, paura, pietà, scoramento.

    Mi sentii avvampare di rabbia, distolsi lo sguardo, ormai non ne potevo più di quella situazione. Una frenesia incontrollabile mi scuoteva tutto, dovevo trovare quella Nave, era lei la responsabile, non poteva essere altrimenti. Con voce alterata dall’ira sollecitai Sarah a proseguire. Si scosse sorpresa, fece per dirmi qualcosa, ma vi rinunciò e riprese a camminare accanto a me.

    A fatica ripresi il controllo, ma preferii restare in silenzio, mi conoscevo bene, in quei momenti qualsiasi condotta avrebbe peggiorato la mia posizione, speravo solo che Sarah avrebbe capito.

    ***

    Ci lasciammo alle spalle l’area del Pastificio. La zona era completamente sgombra, davanti a noi solo aperta campagna. Tra poco avremmo raggiunto la radura e già scorgevamo all’orizzonte il bosco di alti faggi che gradatamente s’inerpicava verso la lontana collina.

    Abbandonammo la strada e tagliammo attraverso i campi per giungere prima allo spiazzo. Superato un piccolo dosso, la radura apparve davanti a noi e quasi alla fine di essa, al limitare del bosco, c’era la Nave spaziale simile ad un diamante poggiato su un verde tappeto. Uno spettacolo da mozzare il fiato. I raggi del sole, riflettendosi sulla superficie, esplodevano frantumandosi in migliaia di scintille colorate. La similitudine con uno splendido gioiello calzava a meraviglia. Per qualche minuto restammo senza fiato a guardarla, poi messo da parte ogni timore, lentamente iniziammo ad

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