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Ho visto cose…
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E-book166 pagine2 ore

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Info su questo ebook

In pochi possono vantare di aver trasformato la propria passione in una realtà lavorativa, ancora meno quelli che lo hanno fatto senza scendere a compromessi, proseguendo con integrità su una strada tortuosa, ma autentica. Più di un’autobiografia, “Ho visto cose...” è una raccolta di aneddoti, a volte seri, a volte ironici e scanzonati, che vedono protagoniste alcune delle personalità più influenti della nostra storia contemporanea, attraverso l’occhio spietatamente onesto di Clemente Mimun. Da Pertini a Berlinguer, da Roberto Benigni a papa Wojtyła, poi ancora da Vasco Rossi a Woody Allen, gli incontri pubblici e privati di un grande giornalista e direttore di TG, capace non soltanto di leggere con attenzione il proprio tempo e i suoi interlocutori, ma soprattutto di raccontarli con umanità e coraggio.

Clemente Mimun è un giornalista e conduttore televisivo italiano. Attivo nel settore dal 1976, approda pochi anni dopo in Rai, per poi fondare il TG5 insieme a Enrico Mentana nel 1991. Dal 1994 al 2002 ha assunto la direzione del TG2, per dirigere successivamente il TG1 e Rai Parlamento. Dal 2007 è direttore del TG5.
LinguaItaliano
Data di uscita12 lug 2023
ISBN9788830687448
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    Anteprima del libro

    Ho visto cose… - Clemente Mimun

    Prefazione

    Trattare come meritano vigliacchi, mascalzoni e leccaculo che in questi cinquant’anni mi sono trovato di fronte o alle spalle, oppure trovare un giusto equilibrio tra storie, comportamenti ed emozioni? Ma no, niente libello gossipparo e vendicativo. Meglio qualche istantanea di fatti vissuti in prima persona, dagli esordi negli anni Settanta fino al Duemila, con l’obiettivo, però, di non dare un euro a nessuno in tribunale.

    Dedico questi pensierini alla mia maestra elementare, Emma Alatri, una donna forte, brava e coraggiosa, che ha tirato su migliaia di ragazzini con passione e senza risparmiarsi. È stata la mia vera, unica, maestra, anche di giornalismo. Lo dico ora e tranquillamente perché è da tempo in pensione e non rischia rappresaglie. Avere la fortuna di imbroccare la maestra elementare giusta in una scuola in cui non c’erano né moduli, né altre stravaganze, ma un’insegnante unica e totalizzante, a quei tempi era meglio di un 13 al Totocalcio. Io sono stato fortunato a incontrarla perché, con mia madre Laura, è stata la mia guida in anni difficilissimi. Poi, come talvolta accade, dai guai, dalla necessità di darsi da fare per sbarcare il lunario, possono nascere opportunità assai improbabili in una famiglia agiata, dove tutto arriva senza neppure chiedere. A differenza dei miei critici più sciocchi, che a suo tempo mi hanno dedicato titoli tipo Come corre il fattorino, io sono orgoglioso di essere partito dalla gavetta, senza avere in famiglia un onorevole, un porporato, un notaio o un avvocato di grido. Avere trascorso anni a fare da punching ball a raccomandati di sinistra o a fighetti dal doppio cognome non è stato divertente. Meno noioso è stato vederli passare tutti lungo il fiume della storia e della cronaca quotidiana. Che brutta Italia consegniamo a figli e nipoti. Il mio auspicio sincero è che, nel tempo che ci resta, riusciremo almeno a non fare altri danni, perciò non guasterà una cura a base di memoria.

    Nonostante abbia scelto di non offendere nessuno, credo che con questo libro farò incazzare più o meno tutti. E dire che non ho scritto neanche una bugia, anche se non ho ancora detto tutta la verità. Perché i souvenir che l’esperienza mi ha lasciato tornano su pian pianino e penso che non sarò pronto a vuotare totalmente il sacco prima del terzo blister di pillole del ricordo. Tutto sommato un tempo generoso, rispetto agli archivi di Stato.

    Voglio fare il giornalista

    Come capita a ogni bambino, anche io sono stato tormentato dalla domanda: Che vuoi fare da grande?. Non ho mai risposto: L’astronauta o il calciatore. Incosciente e ottimista replicavo: «Il giornalista». La reazione degli adulti era un sorriso comprensivo, poi, tra loro, farfugliavano: «Figurati! Se non hai un santo in paradiso o, che so, un ministro, uno zio nella nomenklatura...».

    Ma io non avevo dubbi. Caparbio e curioso, divoravo quotidiani, riviste, fumetti e libri all’edicola sotto casa, con la complicità del giornalaio di viale Trastevere (allora si chiamava ancora viale Del Re), che mi lasciava sfogliare tutto quel che volevo se lo sostituivo per mezz’ora. Lui andava a prendersi un caffè e io mi perdevo tra le pagine della cultura popolare del tempo. Sull’Intrepido rimasi folgorato da un personaggio che indossava un trench e un cappello con su scritto Press, tenuta lasciapassare che gli permetteva di arrivare ovunque e di sapere tutto: curioso come una scimmia, avevo trovato la mia strada. Certo, percorrerla sarebbe stato tutt’altro paio di maniche.

    Sono nato a Roma, ma ho vissuto in Tunisia i miei primi sei anni, così, al ritorno alla scuola elementare ebraica Vittorio Polacco, non capivo una parola dei miei compagni e mi impegnavo moltissimo in italiano, anche seguendo le lezioni in TV di Alberto Manzi, che alfabetizzò molti italiani. In classe la maestra Emma Alatri ci faceva fare i pensierini con una avvertenza: Non importa quanto scrivete, piuttosto cercate di incuriosire chi vi legge fin dall’incipit, raccontate la storia con periodi brevi e trovate una conclusione interessante. L’unica volta che qualcuno mi ha dato consigli sulla scrittura, furono preziosi e definitivi. Grazie a lei, all’esame di maturità scientifica potei permettermi di consegnare in bianco il compito di matematica in odio alla professoressa del liceo, perché il mio tema di italiano era talmente ben fatto che non consentiva una bocciatura.

    Il ciclostilista

    I miei genitori emigrarono in Israele nel 1970, portando naturalmente me e mia sorella Daniela, controvoglia, nella terra promessa. Capii subito che, nonostante la bellezza e il dinamismo del paese, il mio posto era l’Italia, così mi misi al lavoro come factotum in una falegnameria in modo da guadagnare il necessario per un volo dell’Alitalia. Notturno, che costava molto meno. Dopo nove mesi, mi ritrovai con il biglietto aereo in mano e a diciassette anni tornai, da solo, a Roma. Mi iscrissi a un liceo privato per completare l’anno scolastico e trovai una pensioncina a cui appoggiarmi. Cominciai a cercare lavoro per pagare le spese di studio e alloggio. Ufficialmente si era conclusa la mia adolescenza e diventavo, giocoforza, un uomo, quindi misi un annuncio su Il Messaggero e fui presto convocato dalla piccola agenzia di stampa Europa Unita, diretta da un curioso giornalista coi capelli alla moicana, di nome Domenico Maria Angelini. Cercava un ciclostilista esperto, io non lo ero affatto ma mi guardai bene dal dirglielo. Trascorsi la notte nella tipografia di un conoscente per capire come usare inchiostro e fogli e apprendere il più possibile. Il giorno dopo superai il test e fui assunto. Senza contratto, ovviamente. Tra me e me pensai che, come inizio, non era poi così male. Durò solo tre mesi, poi l’agenzia in difficoltà economiche tagliò tre quarti del personale, me in primis, quindi con quindicimila lire in tasca e un gran magone presi l’ascensore del palazzo dei giornali di Piazza San Silvestro 13 che mi avrebbe portato via, temevo per sempre, da quel mondo. Un tuttofare della sala stampa, vedendomi imbronciato, mi chiese cosa mi rattristasse e gli spiegai la mia situazione. Alla fine propose: «Se mi dai i primi due stipendi, ti faccio fare un contratto dall’agenzia Asca. Pensa, lavoreresti dalle 14:30 alle 21:30 e prenderesti la bellezza di trentamila lire al mese».

    Non ebbi dubbi e accettai. Allo scadere del secondo mese mi presentai per dargli il pattuito, lui mi sorrise, disse di apprezzare il fatto che ero pronto a rispettare l’accordo, e si limitò a farsi offrire un caffè. Lasciandomi quelle sessantamila lire in tasca mi regalò l’inedita sensazione di essere ricco. Molti anni dopo, la tipografia dove feci il mio apprendistato quella famosa notte, fu chiusa perché lì stampavano i volantini le Brigate Rosse.

    Con le mani in Asca

    La piccola agenzia di stampa era diretta da Gianfranco Barberini, trentacinquenne romano, simpatico e intelligente, che aveva fatto la gavetta lavorando come correttore di bozze all’Osservatore Romano. Democristiano a tutto tondo, era tra i più stretti collaboratori del potente leader doroteo Flaminio Piccoli. La mattina frequentavo il liceo, il pomeriggio ero fattorino e centralinista all’Asca, indeterminatamente senza contratto. Per arrotondare la paga, di notte portavo i giornali freschi di stampa al direttore e all’onorevole Piccoli con un motorino Ciao scalcinato, facesse caldo o nevicasse. Mi inerpicavo dal centro di Roma fin su a via Trionfale e staccavo a mezzanotte, pur di avere un bonus di quindicimila lire in più al mese. Non solo. Per aggiungere altre quindicimila lire accettai anche di caricare nell’auto aziendale i bollettini dell’agenzia, tra i tre e i quattro quintali di carta sulla schiena. Poi raccoglievo la spazzatura, dal terzo piano al piano terra, fortuna che non puzzava perché erano tutti fogliacci. Eppure, sommando tutto, riuscivo a malapena a pagarmi le spese scolastiche. Nel turno di notte, tra le quattro e le sette, mi trovavo spesso accanto a un giovanotto meticoloso e di poche parole che preparava la rassegna stampa. Nell’ambiente si diceva fosse allievo di Giovanni Spadolini, si professava repubblicano e il suo nome era Stefano Folli. In futuro sarebbe diventato direttore del Corriere della Sera, ma all’epoca mi bastava molto meno per invidiarlo in quanto era, beato lui, praticante. Io fui promosso da fattorino senza contratto a impiegato a tempo indeterminato, poi addirittura ad archivista e più di quello non sarei riuscito a ottenere. Guardavo avidamente il lavoro dei giornalisti per carpirne i segreti, e sognavo il tesserino bordeaux dell’Ordine, l’equivalente di quel cappellino con su scritto Press. Intanto mi sembrava già un traguardo poter usare il telefono dell’agenzia per chiamare di tanto in tanto mia madre in Israele, quando telefonare significava restare appesi ore al 170 nella speranza che gli operatori pescassero la linea.

    La vespa e Totò

    Quella volta il Ciao scalò eroicamente via Trionfale ed esalò l’ultimo respiro. Un paio di giorni dopo superai brillantemente la maturità e fui chiamato dal direttore, il quale si complimentò, mi allungò una busta con trecentomila lire e disse: «Si compri una Vespa, così potrà continuare a lavorare in sicurezza». Non so come mi venne l’ispirazione, rifiutai garbatamente la cifra che corrispondeva a vari stipendi e risposi: «Le sono grato, ma preferisco che mi dia una possibilità: io voglio fare il giornalista». Barberini replicò secco: «Si prenda il garantito, per il resto non è il momento, ho un elenco di raccomandati che non finisce più». Tornai bambino, con gli adulti che farfugliavano di ministri e zii preti, e come allora convinto di potercela fare: «No, non li accetto, grazie lo stesso». Di lì a poco trovai sotto la redazione una Vespa nuova fiammante.

    Nel 1976 Barberini vendette l’agenzia e io mi sentii perduto. A torto, perché lui non si era dimenticato di me e l’ultima cosa che fece prima di andarsene fu firmare la mia lettera di praticantato. C’erano voluti cinque anni abbondanti di buste da recapitare e telefonate da smistare, ma finalmente potevo iscrivere il mio nome alla casta dei Giornalisti. E tutto grazie sì alla fortuna, ma anche alla capacità di sapermi creare delle opportunità, per audacia o incoscienza non so.

    So soltanto che quel guizzo che ebbi – osando rifiutare soldi immediati in cambio di una possibilità remota – fu determinante per la mia carriera. Mi ricorda molto l’episodio che mi raccontò Lino Banfi, avvenuto quando faceva avanspettacolo. Voleva a tutti i costi incontrare addirittura Totò, così, nel 1965, si fece scrivere una lettera di raccomandazione dal padrone del Teatro Ambra Jovinelli e si diresse a casa del principe De Curtis. Aspettò per ore davanti il portone e sotto la pioggia, finché la macchina non arrivò, scese l’autista e Banfi gli consegnò la lettera. L’autista tornò con dei soldi arrotolati in mano e Lino rifiutò, sebbene facesse la fame. Allora uscì Totò, incuriosito: «Ragazzo mio, ma tu cosa vuoi?». E l’altro rispose:

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