Il Rifugio Dell'Orco
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Info su questo ebook
L'enignma si rivelerà più fosco e terribile di quanto ci si poteva attendere e avrà una doppia conclusione che, ad anni di distanza, sconvolgerà la vita del protagonista.
Il Rifugio dell’Orco è una storia di formazione con maestri buoni e maestri cattivi, o forse buoni e cattivi nello stesso tempo. È un giallo. È una dichiarazione d’amore per la matematica. È un libro sulla follia. Ed è anche il tentativo di fotografare un’Italia che sta cambiando per sempre, ma che non sa ancora cosa diventerà.
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Anteprima del libro
Il Rifugio Dell'Orco - Bernardo Cicchetti
Bernardo Cicchetti
Il rifugio dell'orco
IL RIFUGIO DELL’ORCO
di Bernardo Cicchetti
Collana Oscura
a cura di
Massimo Padua
ISBN 9788893370356
copyright © 2016 Antonio Tombolini Editore
digital rights reserved
Via Villa Costantina, 61,
60025 Loreto Ancona
Italy
email: info@antoniotombolini.com
www.antoniotombolini.com
Immagine di copertina a cura di Marta D’Asaro
ISBN: 9788893370356
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)
un prodotto di Simplicissimus Book Farm
Indice dei contenuti
Una timida premessa.
PROLOGO (O EPILOGO?)
CAPITOLO I. Il Maestro.
CAPITOLO II. Il 1964.
CAPITOLO III. Fantasmi.
Capitolo IV. I pazzi.
CAPITOLO V. La prova della divisione.
CAPITOLO VI. Don Raimondo.
CAPITOLO VII. Il foglio orario.
Capitolo VIII. Sabaòt.
Capitolo IX. 5 lire.
CAPITOLO X. Cardilli.
Capitolo XI. Cicillo Levìs.
CAPITOLO XII. Urla.
Capitolo XIII. Lucia.
Capitolo XIV. I Davino.
Capitolo XV. La sarta.
CAPITOLO XVI. Sul granaio.
CAPITOLO XVII. Lingua di vacca.
CAPITOLO XVIII. Il rosario degli Sgueglia
CAPITOLO XIX. Torna il Maestro.
CAPITOLO XX. Il Monastero.
CAPITOLO XXI. Lettere.
Capitolo XXII. Stand sure.
CAPITOLO XXIII. Partitella a cinque.
CAPITOLO XXIV. Il Teorema.
CAPITOLO XXV. Il primo Corollario.
Capitolo XXVI. Il secondo Corollario.
CAPITOLO XXVII. Questa è la fine?
EPILOGO. Quod erat demonstrandum.
Gli presentavano anche i bambini perché li accarezzasse, ma i discepoli, vedendo ciò, li rimproveravano.
Allora Gesù li fece venire avanti e disse: "Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio.
In verità vi dico: Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non vi entrerà".
(Luca, 18, 15-17)
Per carità! - gridò la donna, - fuggite presto. Questa è la casa dell'Orco.
(Grimm, Pollicino)
Conosci l'uomo che si avvicina ed è incappucciato? No. Se gli togliamo il cappuccio, lo riconosci? Sì. Dunque conosci e non conosci la stessa persona.
(Alessandro di Afrodisia)
Vedo che aspettate una conclusione: ma siete proprio scemi, se credete che dopo essermi abbandonata ad un simile profluvio di chiacchiere, io mi ricordi ancora di ciò che ho detto. Un vecchio proverbio dice: Odio il convitato che ha buona memoria
. Oggi ce n'è un altro: Odio l'ascoltatore che ricorda
. Perciò addio! Applaudite, bevete, vivete, famosissimi iniziati alla Follia.
(Erasmo da Rotterdam, Elogio della Follia)
Una timida premessa.
Si dice che ci sono eventi che segnano a fuoco la nostra vita.
È vero.
Si dice che siamo il prodotto di tutte le decisioni che abbiamo preso in passato.
È vero anche questo.
Io convivo col ricordo di un evento, seppellito dentro di me quasi cinquant’anni fa. Che un altro evento di trent’anni fa rovesciò e sconvolse. Un evento che adesso ho deciso di mettere in piena luce, perché c’è un’altra verità. Detta di rado, questa.
Ciò che tentiamo di soffocare ci soffoca. Annaspa, in cerca d’aria, ed emerge.
E le decisioni che prendiamo non sono mai libere.
PROLOGO (O EPILOGO?)
Il giovane ufficiale dei Carabinieri terminò la lettura e appoggiò la lettera sul tavolo.
Rimase assorto e cominciò a lisciarsi con le dita i baffi sottili, mentre io distoglievo lo sguardo e fissavo la stanza ingombra di faldoni, schedari e calendari dell’Arma. Dalla piccola finestra la luce stentava a entrare: il cielo era cupo, com’era giusto che fosse anche in quell’ultimo scorcio di agosto.
«Bene» disse il capitano, al termine della riflessione. «Adesso mi presenta una denuncia e ci allega questa. Faremo un controllo rapido».
«Anche su di me» dissi, senza punto di domanda.
Sorrise nei baffetti.
«Certo, e sull’autore della lettera, ovviamente. Che ne sappiamo? Potrebbe essere un mitomane».
Scossi la testa. «Non lo è» lo rassicurai.
«Un delitto di quindici anni fa, che non è mai stato considerato tale…»
«Quanto tempo ci vorrà?» domandai.
«Per cosa?»
«I controlli, le autorizzazioni…»
Sospirò.
«Se mi muovo in fretta…» mi guardò fisso «e mi muoverò in fretta, ci può contare… otterrò l’autorizzazione allo scavo dal magistrato in ventiquattro ore. Nel frattempo svolgerò i controlli necessari. Ma non ci saranno problemi, immagino, lei è persona perbene. E anche lui» indicò la lettera.
Non risposi. Immaginai che fosse ansioso di procedere. Un orribile delitto di tanti anni prima risolto da un valente giovane ufficiale dei Carabinieri. Un trionfo. Giornali, televisione…
«Ne è passato di tempo» aggiunse, alzandosi e avvicinandosi alla finestra.
Una vita, pensai, con tutti gli annessi e connessi. Una vita intera. Protagonisti che non c’erano più, comparse e figuranti… Un mondo nuovo. Mi vennero le lacrime agli occhi e dovetti fare uno sforzo terribile per non piangere. Lui mi dava le spalle, forse intuendo la mia commozione. Fu discreto e la mia stima nei suoi confronti aumentò.
«Lei si tratterrà, immagino. La farò assistere all’esumazione, se vuole».
Volevo? Immaginai di sì. Annuii.
«Starò un po’ con mia madre».
Avrei cercato di convincerla di nuovo a stare da noi. Lo desideravo tanto, e mia moglie era d’accordo. Un altro bambino sarebbe stato un problema serio, dato che insegnava anche lei. Ma mia madre era testarda. Saremmo andati al cimitero. Avremmo portato dei fiori freschi sulla tomba di papà. Lei avrebbe pianto un poco e io avrei cercato di celare la commozione. Saremmo tornati a casa. La nostra vecchia casa. E le avrei parlato di nuovo, forse invano. Non sono mica rimbambita, avrebbe detto. So ancora badare a me. E poi… qui ci sono i parenti. Le mie amiche…
Il capitano tornò a sedersi.
«Perché ha aspettato un mese prima di venire da me?»
Pensai a una risposta plausibile, ma mi accorsi di non averne. Volevo dimenticare? Speravo che la lettera fosse solo il farneticare di un poveraccio? Sentii i ricordi scrosciarmi addosso come la pioggia che tardava a venire. Non risposi.
«Bene» fece lui dopo un po’, come se avesse previsto quel silenzio. «Vuole raccontarmi tutto?»
Faceva un caldo afoso, insopportabile, e mi sentivo i panni incollati addosso. Mi sembrava di non riuscire a respirare in quell’ufficetto squallido. Ma che cazzo di ufficio ti hanno dato? avrei voluto gridare al capitano. Forse per sfogare su di lui la rabbia che provavo per me stesso. Ma perché, poi? Perché stavo violando un patto? Un’amicizia? Niente di tutto questo. Nessuna sacra promessa. Era soltanto il senso di colpa che proveniva da un ricordo ferito. Da un passato defunto. Condanna e liberazione allo stesso tempo.
Quel pomeriggio di tanti anni prima era lì con me, adesso. Ed era un giorno di agosto.
«Sarà lunga, credo».
«Mi racconti tutto. Dopo stileremo la denuncia. Lì non sarà necessario mettere tutto».
«Va bene» dissi.
L’avrei fatto, finalmente. Nemmeno a mia moglie, che sapeva, avevo mai raccontato tutti i dettagli. Un po’ per pudore, un po’ per dolore.
«Faccio portare un caffè. Poi potrà cominciare». Sorrise. «Resteremo noi soli».
CAPITOLO I. Il Maestro.
Avevo tredici anni quando conobbi il Maestro.
Allora non sapevo se era veramente un maestro, per la verità. Ma erano tante le cose di lui che non sapevo.
Era un pomeriggio di agosto del 1964 e io me ne stavo seduto con i miei amici sulla panchina della Villa Comunale, che era il nostro punto di raccolta.
Villa Comunale
era la definizione pomposa di un rettangolo di venti metri per quaranta ritagliato fra i parallelepipedi dei palazzi. Un giardinetto nel quale erano stati sparsi a caso quattro o cinque aiuole, un chiosco che vendeva bibite, una vasca interrata, dalla quale l’acqua non zampillava più da un pezzo, e una struttura a gazebo di ferro e vetro, nota come cassa armonica
, sulla quale si esibivano - di rado - la banda cittadina e qualche cantante locale di scarse speranze.
Faceva caldo. A quei tempi le estati, come di dovere, si avviavano verso la loro fine naturale proprio in quel periodo, con qualche accenno di pioggia e le nuvole che si affrettavano a prendere posizione in vista dell’autunno. Ma quel pomeriggio faceva caldo. Me lo ricordo perché avevamo comprato al chiosco un ghiacciolo al limone, che allora doveva costare una ventina di lire, e stavamo facendo a gara col tempo per evitare che sgocciolasse via dalla listella di legno che lo reggeva. Era un ghiacciolo solo e ce lo stavamo passando in fretta per la leccata di turno. Portavamo tutti i calzoni corti, ma non solo perché era estate; tutti, compreso Aniello, che era il più grande di noi e che aveva tredici anni e mezzo. E già pregustavamo il passaggio ai pantaloni lunghi - che spettavano di diritto solo agli adulti
- quell’inverno o giù di lì.
Faceva davvero caldo, anche se il sole era ormai basso dietro i tetti delle case. Ciro e Mimmo, il più piccolo, che aveva nove anni e ne dimostrava anche meno, giocavano a calcio con una pietra. In quel momento c’erano poche persone in giro. Ogni tanto si sentiva il motore di una macchina e noi allungavamo il collo per identificarla: quasi sempre si trattava del profilo inconfondibile di una seicento.
«Quest’anno» disse Gianni passandomi il gelato, ormai ridotto a un moncone «Lucia sarà anche lei alla Scuola Media».
Leccai, fingendo indifferenza, e passai il ghiacciolo ad Aniello.
Lucia era la nostra cotta collettiva. L’avevo vista per la prima volta all’uscita di chiesa. Era stato proprio Gianni a parlarmene e ad accompagnarmi alla messa che lei frequentava di domenica. Una folgorazione: San Paolo fulminato da una donna sulla via di Damasco. Quei due occhi castani e sconfinati mi avevano sconvolto. Da quel momento non avevo mancato una sola messa domenicale e avevo continuato a perdermi in quello sguardo.
«In terza media sarà dura» dissi, cambiando discorso.
Aniello aveva passato il gelato e ci guardava torvo: lui era stato bocciato in prima media. Ed era la seconda volta. Non era bello, Aniello, alto e secco com’era, con quel lungo naso appiccicato alla faccia. Se ne stava lì imbronciato, incastonato nel rettangolo più nuovo e bianco della facciata di un palazzone di dieci piani, sorto con la rapidità di un fungo autunnale pochi mesi prima.
«Se non fosse per quella strega di Italiano ci sarei anch’io in terza. La zoccola».
«Ma che vuoi?» fece Gianni, sostenuto. «Mica è colpa sua! Sei tu che non fai niente».
«È vero, d’Italiano non faccio niente. Ma la matematica la so. Sono il meglio della classe».
«Seh, quando mai…»
Aniello fece lo sguardo ancora più torvo.
«Vuoi fare una gara a divisioni? Vediamo chi è meglio».
Gianni esitò. In genere, le gare con Aniello non finivano bene. Poi decise che era preferibile affrontare la gara piuttosto che passare per vigliacco.
«Vabbè» fece, ravviandosi il ciuffo. «Ci sto. Fa lui l’arbitro».
Ci ero abituato. Arbitro a pallone, arbitro a pallavolo… arbitro a vita.
«Allora». Aniello aveva preso in mano la situazione, come al solito. Mi indicò. «Lui spara una divisione, e chi dice per primo il risultato vince. Va bene?»
Non avevo molta voglia di quel gioco, ma con Aniello protestare era inutile.
Ciro e Mimmo si erano avvicinati. Mimmo già rideva.
«Siamo pronti?» feci.
Un cane abbaiò chissà perché.
Ci pensai su.
«Prima una facile. Trentadue diviso otto».
«Quattro!» gridarono tutte e due, quasi all’unisono.
Sospirai. Adesso sarebbero cominciati i guai.
Aniello alzò le braccia. «Primo» disse.
«Ma che primo?» fece Gianni. «Al massimo siamo pari!»
Aniello gli si avvicinò minaccioso, occhi negli occhi.
«Al massimo che?»
«Ha ragione. Siete pari» disse Mimmo.
Aniello abbassò lo sguardo su di lui. Lo guardammo tutti. Mimmo rise.
Aniello riportò lo sguardo su Gianni.
«E allora pari». Poi guardò me. «Spara un’altra divisione». Mi puntò il dito contro, come se volesse sparare lui a me. «E difficile, però» aggiunse.
«Novanta diviso quindici» sparai a caso.
Gianni alzò gli occhi al cielo e cominciò a muovere le labbra, come se stesse pregando.
Aniello guardò per terra con la bocca aperta, cercando il risultato nelle crepe del lastricato della Villa.
«Sei!»
Era stato Gianni a parlare. Guai in vista.
Aniello si fece rosso e richiuse la bocca. Non accettava mai la sconfitta. Non sapeva perdere, anche se perdeva spesso. In quel gioco come in altri.
Il silenzio durò una decina di secondi.
«Va bene» disse, annuendo come per convincersi. «La rivincita».
Tirai un sospiro di sollievo. Se proponeva la rivincita era disposto a giocarsela sul serio.
Riflettei di nuovo: troppo facile no, avrebbero risposto assieme e ciò avrebbe dato inizio a un’altra disputa.
Mimmo mi guardò e mi strizzò l’occhio. Ciro spostava il peso da un piede all’altro, preoccupato. Era piccolo e tondo, e nelle gare di corsa arrivava perennemente ultimo. Quando scoppiava un litigio con un gruppo rivale, si tirava sempre fuori. Aniello, perfido, da quando nella sua classe avevano letto Don Chisciotte lo aveva ribattezzato Panza, omettendo il Sancio.
Provai un improvviso senso di fastidio per le continue discussioni provocate da Aniello. La sua prepotenza non mi era mai andata a genio. Ed ero anche stufo di fare l’arbitro.
La buttai lì.
«Settecentoventiquattro diviso tredici».
Ci fu un attimo di sospensione. Poi mi guardarono tutti.
«Seh…» fece Mimmo, e scoppiò a ridere, tenendosi la pancia. Ciro sorrise da un orecchio all’altro.
Aniello mi fissava con la bocca spalancata.
Gianni non si era accorto della pantomima e stava là, con lo sguardo al cielo e muoveva le labbra inseguendo il quoziente.
«Cinquantacinque, sei decimi, nove centesimi e due millesimi».
Mi voltai. La voce proveniva da un uomo che si era seduto sulla panchina accanto a noi. Nessuno se n’era accorto. Non avremmo nemmeno saputo dire da quanto tempo era là.
Era magro e frusto. I capelli rossicci scendevano lisci sulla fronte in ciocche unte. Gli occhi erano di un celeste chiaro chiaro, il naso prominente e deciso, arrossato come quello di un ubriacone, che spiccava su una carnagione pallida. Fumava una sigaretta ormai moribonda, tenuta con entrambe le mani davanti alla faccia, i gomiti appoggiati alle ginocchia. Stava seduto sulla spalliera della panchina di pietra, con i piedi sul sedile. I pantaloni leggeri, di un marrone molto chiaro, non erano stati lavati da parecchio. La camicia a mezze maniche, bianca a righine blu, stonava, dando al suo abbigliamento l’aria di qualcosa indossato per necessità, più che per scelta. Anche le scarpe, nere e lise, contrastavano con il resto.
Tirò l’ultima boccata alla sigaretta, ridotta a uno striminzito mozzicone, e la gettò a terra. Non si voltò. Continuò a fissare davanti a sé, come concentrato su un pensiero sfuggente, inafferrabile.
Mimmo, che era il più intraprendente della compagnia, gli si avvicinò.
«Signore, come avete detto?»
Lui parve ritornare presente. Lo guardò.
«Cinquantacinque, sei decimi, nove centesimi e due millesimi».
Anche la voce roca, da fumatore, parve arrivare da lontano.
Mio padre aveva fatto la guerra in Africa. Dalle storie che mi raccontava, sapevo che aveva rischiato di morire diverse volte, per i proiettili inglesi e per la febbre malarica. Ma era tornato a raccontarlo. Ecco, negli occhi di quell’uomo colsi lo stesso sguardo, vivido e smorzato, lucido e opaco, che vedevo negli occhi di mio padre. Anche lui, ne fui certo, aveva guardato la morte negli occhi ed era sopravvissuto.
Notai che l’accento non era delle nostre parti e che lui non aveva tutti i denti. Uno, più lungo e sottile, giallastro, quasi gli sporgeva. E da quel dente iniziò a colare una minuscola goccia di saliva, che atterrò sul labbro inferiore.
Ebbi un moto di ripugnanza. Fu una cosa istintiva, e me ne vergognai.
«È il risultato della divisione» dissi, intuendolo, senza esserne certo.
«È impossibile» disse Aniello «ha fatto troppo in fretta». Si rivolse direttamente a lui. «Avete imbrogliato».
L’uomo non lo guardò nemmeno.
«Ditene un’altra» disse.
Aniello rimase sorpreso dalla sfida, che non aveva previsto. Ci pensò su e poi disse «Novemilacinquecentoventi diviso centootto». E aprì la bocca in un sogghigno.
«Ottantotto, un decimo, quattro centesimi e otto millesimi» fu la risposta.
Quasi immediata.
Gianni mi guardò. Io guardai Aniello. Mimmo sorrise a Ciro.
«Periodico» aggiunse l’uomo.
«Non ci credo» sbottò Aniello.
«Avete una sigaretta?»
Nessuno di noi fumava ancora. Veramente, Aniello sì. Anche se si doveva limitare ai mozziconi che trovava per strada. Suo padre teneva le sigarette contate e gli sarebbe stato impossibile rubargliene qualcuna. Una volta ne avevamo comprata una - il tabaccaio ci aveva guardato in cagnesco, ma ce l’aveva data, pensando evidentemente che era il caso di coltivare la clientela - e avevamo provato tutti, Mimmo compreso. Io non ero stato nemmeno capace di aspirare. Gianni ci era riuscito, ma era diventato viola e quasi aveva sputato l’anima a colpi di tosse. Mimmo aveva avvicinato la sigaretta alle labbra e… aveva soffiato. Ciro aveva solo tirato il fumo in bocca, espellendolo dopo mezzo secondo. Era andata a finire che se l’era fumata tutta Aniello.
L’uomo era là che attendeva una risposta.
Guardammo Aniello.
«Perché guardate me? Non ho niente, io».
Eravamo quasi sicuri che avesse un mozzicone in tasca, poiché lo avevamo visto chinarsi poco prima con espressione compiaciuta.
L’uomo scese dalla panchina e, senza salutarci, s’incamminò in direzione della chiesa di San Rocco. Lo seguimmo con lo sguardo, finché la figura dinoccolata