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Vent'anni dopo
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E-book267 pagine4 ore

Vent'anni dopo

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"Dei sessant'anni della mia vita quaranta li ho trascorsi all'estero, senza sempre esservi costretto e spesso con piacere; è così piccola questa pallottolina di fango di cui siamo ospiti effimeri che vale la pena, potendo, conoscerla tutta; ogni angolo di mondo amplia l'orizzonte dell'IO".Costretto dalle continue minacce, dagli arresti sommari e dai modi intimidatori delle camicie nere, nel 1926, Mario Mariani decide finalmente di abbandonare l'Italia, disgustato da ciò che ormai è diventata. Trascorrerà i successivi vent'anni a giro per il mondo, facendo i lavori più svariati e senza mai smettere di scrivere. Al suo ritorno in patria, dopo le miserie della Seconda guerra mondiale, darà alle stampe l'intero corpus delle sue opere, fra cui spicca, senza dubbio, "Vent'anni dopo": non un semplice memoriale, né tantomeno una cronaca lacrimevole dei lungi anni da esule. Esso, piuttosto, rappresenta un sunto appassionante e livoroso di quel che Mariani è – come uomo, come artista, come oppositore politico – dopo una vita trascorsa a fuggire e a combattere per ritagliarsi un posto proprio. I testi qui raccolti spaziano fra tutti i temi che l'autore abbia mai avuto a cuore, dalla letteratura alla filosofia, dall'attivismo politico al lavoro, dalle donne agli amici, ai nemici, ai conoscenti e a tutte quelle figure che hanno popolato un'esistenza esemplare, tanto travagliata quanto affascinante... -
LinguaItaliano
Data di uscita29 mag 2023
ISBN9788728419519
Vent'anni dopo

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    Vent'anni dopo - Mario Mariani

    Vent'anni dopo

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 2023 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728419519

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    La filosofia è il coraggio della verità.

    Giorgio Federico Hegel

    PARTE PRIMA

    ESIGLIO MONOTONO

    ESIGLIO MONOTONO

    Non si tratta di memorie de l’esiglio. Non varrebbe la pena di scriverle. Che io, in persona, moralmente o fisicamente, abbia più o meno sofferto nei vent’anni che vissi fuori del mio paese «mendicando il mio pane a frusto a frusto», non importa nulla nè agli italiani, nè a nessuno; importa solo a me. Però è accaduto, nè poteva essere altrimenti, che durante questi vent’anni la storia ha camminato, e il mio pensiero con lei e che io, attraversando il più tragico dei periodi della mia vita e della vita dell’umanità e meditando lungamente su quel che succedeva a torno a me, sfiorandomi o dilaniandomi, ho dovuto trarre dal cumulo degli avvenimenti universali e delle mie particolari esperienze un certo numero di deduzioni che hanno in parte modificato il mio pensiero, il mio Weltanschaung — visione del mondo e delle cose —.

    Si tratta dunque per me del bilancio di una lunga esperienza e di un esame di coscienza; che offro ai miei lettori di vent’anni fa perchè vedano quanto di me è rimasto intatto e quanto è cambiato e perchè apprendano a conoscermi intero; nel passato e nel presente.

    Dicevo dunque che le mie sofferenze d’esiglio, se ci fosser state, non contano. D’altra parte, io ho dovuto imparare nell’epoca più tragica del mondo e della più dura lotta per la vita che è stupido raccontare dolori a chi non ce li pagherebbe mai. Filosofia e letteratura debbono prescindere oggi da tutto il superfluo; dalla retorica e dal sentimento; abbiam visto correre tanto sangue che non siam più donnicciuole.

    Dirò di più: l’esiglio, come il diavolo, non è così brutto come lo dipingono; posson dirlo i milioni d’italiani che emigrarono liberamente nell’ultimo mezzo secolo, posson dirlo gli spiriti inquieti che, avendo danari per farlo, viaggian a torno al mondo per diporto. A l’esiglio io c’ero avvezzo. La prima volta che emigrai avevo vent’anni e tornai a malincuore; tornai solo perchè l’America è uno specchietto per le allodole e in America si esigono immmigranti italiani che sappian lustrar scarpe o vender torsi di broccolo facendo da ciuchi al loro carretto. Se per la gente che sa leggere e scrivere ci fosse ancor posto in America io sarei forse cittadino della Luisiana fin dal 1906. Dei sessanta anni della mia vita quaranta li ho trascorsi all’estero, senza sempre esservi costretto e spesso con piacere; è così piccola questa pallottolina di fango di cui siamo ospiti effimeri che vale la pena, potendo, conoscerla tutta; ogni angolo del mondo amplia l’orizzonte dell’IO.

    Il distacco doloroso dalla patria è un vecchio ritornello romantico. Gli emigranti abbandonano il loro paese senza rimpianti e a bordo sul ponte di terza ballano la tarantella tra il vomitaticcio del mal di mare con la maggiore allegria di tutta la loro gioventù. Patria est ubicunque est bene diceva Vitruvio, un architetto romano che di sicuro non aveva ancor sentito parlare di internazionalismo. Chateaubriand scrive, al contrario: beato colui che mai non vide il fumo delle case straniere, ma il conte di Chateaubriand aristocratico, romantico, reazionario, diplomatico, nonostante questa massima e le difficoltà delle comunicazioni de’ suoi tempi, viaggiò quasi senza lasciarsi il tempo di riprender fiato.

    E deve aggiungersi che, da poco meno di due secoli, dalla rivoluzione francese, il partito ha cominciato a pesar nella nostra vita più della patria. Gli emigrati di Coblenza combattevano contro la Francia nelle file prussiane e, negli ultimi vent’anni, abbiam dovuto accorgerci che gli antifascisti italiani e tedeschi eran costretti a rinnegare la loro patria, e che i comunisti son diventati tutti russi.

    Il valore patria ha sofferto nei secoli parecchie evoluzioni e oggi sta agonizzando come tanti altri valori tradizionali. Nel passato la patria fu la città, fu il re; oggi la stessa chimera della pace universale e della confederazione mondiale, alla quale si inspira la UNO, esigerebbe una seria revisione del concetto di patria poi che, come osserva acutamente e umoristicamente Lord Beveridge: «riesce impossibile far la frittata della pace universale senza rompere le uova delle varie indipendenze e sovranità nazionali».

    Vedremo, del resto, nel corso di questo libro, che i valori tradizionali — anche i più immanenti, eterni — han servito all’umanità solo come pretesto di guerre e che, appunto per questo, nessuno sa bene più a che cosa possan servire.

    La religione servì a le guerre di religione che insanguinarono varii secoli, la patria alle guerre di conquista, il partito — l’ideale — alle guerre civili. La punta estrema di una idea è sempre la punta d’una spada. Tanto s’affina un sillogismo che s’indurisce nell’intolleranza e nel delitto.

    Ma di questo parleremo più tardi. Per tornare al mio ultimo esigilo posso dire che, anche quello, non fu interamente forzato; fu soprattutto un atto d’orgoglio.

    Ch’io l’abbia pagato più o meno caro, non importa che a me; e io non me ne pento. E del resto non compiangetemi troppo — ho sempre preferito inspirare invidia piuttosto che pietà — perchè vi assicuro che San Paolo e Rio de Janeiro son così belle come molte città italiane, che Buenos Aires è attraentissima e che, effettivamente, io non mi sentii mai nè disperato come un esule di Berchet, nè vidi affondarsi per la nostalgia le mie occhiaie, nè fui come Mazzini «l’esule eterno che giammai non rise». Io seguitai a ridere. E il mio esiglio fu tranquillo, piccolo borghese, monotono.

    Eccone la causa e l’atto d’orgoglio.

    Un pomeriggio d’estate del 1926, mentre studiavo tranquillamente nella mia piccola biblioteca, suonarono alla porta di casa. Ero solo ed andai ad aprire. Vidi disegnarsi sul pianerottolo le ombre di due uomini in camicia nera e instintivamente — a chi ricordi quegli anni non parrà strano — di soprassalto, mi ritrassi forse cercando mentalmente un’arma. Però il più anziano dei due mi rassicurò con un sorriso e parlò cortesemente: Non tema, non veniamo per aggredirla, veniamo come amici. Io sono l’onorevole Scorza, direttore del — e qui il nome di un giornale toscano che mi sfugge — e vorrei solo una intervista; questi, che m’accompagna, è mio figlio.

    Sebbene nè la sorpresa, nè il timore avesser cessato, li invitai a entrare e sedersi.

    Appena seduto, Scorza riprese la parola, sempre in tono affabile: Veda, ho avuto l’idea di pubblicare nel mio giornale una serie di interviste con gli scrittori e commediografi più noti, per sapere che cosa stan preparando. Vogliamo dare la maggior importanza possibile al movimento intellettuale e fare ai nostri autori un po’ di pubblicità gratuita. Credo che lei non si rifiuterà. Però, sarebbe inutile che le occultassi a lungo lo scopo della mia visita; da lei son venuto anche con una speciale missione. E lei è troppo intelligente per non capirlo e io perderei stupidamente il tempo in giravolte vane. L’avverto che sono autorizzato a parlare come parlo e che non vengo di propria iniziativa… Chi mi manda ha molta simpatia per lei e deplora la sua attitudine.

    Il CHI lo pronunciava con tanta venerazione che pensai immediatamente: Non deve essere il Padre Eterno; è Mussolini. E allora al timore successe la più viva curiosità. Che diavolo poteva volere da me Mussolini? E l’incoraggiai: Continui, continui…

    Riprese: L’arte non ha nulla a che vedere con la politica; lei è un artista… Perchè vuol mischiarsi in lotte dure che non possono nè interessarle, nè giovarle e che introducono ne’ suoi libri un elemento estraneo?

    In fondo allo stomaco sorrisi pensando che gli idioti, adoratori dell’arte «fine a sè stesso» e della forma vuota di contenuto, avevano un nuovo difensore. Ma non dissi nulla, continuai ad ascoltarlo: vediamo dove va a finire…

    «Lei sa che noi portiamo la lotta politica all’estremo della violenza fisica. Dividiamo gli uomini in tre categorie: chi è con noi, chi è contro di noi, chi sta fuori della mischia guardando. L’artista, per noi, dovrebbe star fuori e forse al di sopra della mischia. In ogni caso chi è contro di noi deve affrontarci, assumere la piena responsabilità del suo atteggiamento; nelle piazze, nelle strade, in ogni dove… Il Duce ha dichiarato che agli avversari si deve rendere impossibile la vita. E, per noi fascisti, non è una frase; è un ordine che del resto risponde alla nostra entusiastica volontà. La polemica politica trascende facilmente all’insulto e la più naturale reazione all’insulto è il cazzotto o la revolverata.

    Ma queste cose, le ripeto, appartengono alla strada, alla piazza. Un letterato, non dovrebbe appartenere nè alla strada, nè alla piazza.

    Lei ha già sofferto affronti, aggressioni… E tutto questo, fatalmente, andrà di male in peggio, se lei insiste. Ora io non vengo a chiederle nè una apostasia, nè una abjura; nulla d’umiliante. È stato un buon combattente e sappiamo che il suo carattere è ostinato. Ma quello che vengo ad offrirle — e ripeto che sono autorizzato a farlo — è una transazione eccezionale e così vantaggiosa per lei che, francamente, posso dirle, non siamo disposti a offrirla a molti. Mi spiego: lei può continuare a dare ai suoi libri un contenuto di fondo socialista, comunista, anarchico; come le piace. Ma deve limitarsi a fare arte; non polemica aperta antifascista, e polemica acida, aspra, offensiva. Io, nella intervista d’indole letteraria, che incomincerò appena raggiunto l’accordo sul preambolo, porrei una interrogazione alla quale lei potrebbe rispondere riaffermando il suo amore per la libertà, la sua fede socialista, tutto quello che vuole, ma a noi basterebbe una frase, che potremmo studiare assieme perchè non le riesca penosa, ma che in sostanza dovrebbe, press’a poco suonare così: Io non rinnego nessuna delle mie idee e non sono e non sarò mai fascista, però riconosco che, in un momento difficile della politica interna e internazionale come quello che stiamo attraversando, «è una fortuna per l’Italia poter contare con la direzione di un uomo di genio e di polso come Mussolini». Che cosa otterrà con questa semplice frase, che condiremo assieme nel modo più digeribile per lei e che lei mi darà manoscritta? Guardi: io le farò tenere un lasciapassare a suo nome e firmato personalmente dal Duce, grazie al quale, qualunque cosa le occorra, gli stessi fascisti che intendessero molestarla non solo dovranno cessare da ogni atto di ostilità verso di lei, ma mettersi ai suoi ordini. Chè vuole di più?

    Ripeto, perchè lei non mi fraintenda e possa pensarci su: non se le chiede nessun voltafaccia, ma se le chiede di ritirarsi dalla lotta tipicamente politica attaccando d’ora innanzi, e in libri esclusivamente d’arte, anche, se vuole, la dottrina fascista, ma la dottrina e non la pratica, e soprattutto, nei suoi attacchi, lasciar sempre fuori la persona del Duce. Solo questo; e sarà lasciato in pace e, se necessario, protetto. Le par poco?»

    E io: — Mi par molto.

    — In che senso?

    — Le dirò: in sintesi, se ho inteso bene, quello che lei vuole da me, è un mio giudizio sul Duce?

    — Questo a priori, e poi la cessazione della sua lotta, sopratutto contro il Duce.

    — Sta bene. Ma lei ricorderà che, da circa un anno, per decreto del Regime, chiunque parli o scriva male del Duce è soggetto a una pena variabile dai sei mesi ai due anni di carcere.

    — Sì.

    — Lei dunque, a domandarmi un mio giudizio sul Duce, mi domanda un documento, e se ho inteso bene, scritto e firmato, con il quale può mandarmi in galera due anni; perchè per me si tratterebbe certamente del massimo della pena.

    Tutta l’affabilità disparve di colpo dalla fisonomia di Scorza. Era piccolo e magro, con una faccia ovale, allungata, dagli zigomi sporgenti e dal colore leggermente olivastro; faccia d’un calabrese malato di malaria o di fegato. Due baffetti, allora neri, tagliati all’americana gli ombravano il labbro superiore. Fisico del venditore ambulante; nient’affatto antipatico nel sorriso. Però il mio rifiuto definitivo e cortesemente sarcastico, lo pietrificò e allora affiorò l’anima sulla pelle. Gli occhietti castani, piccoli ebbero un lampo di odio e di rabbia, le labbra se gli strinsero in una smorfia minacciosa. Pareva non credere possibile una tal mostruosità. Insistè:

    — Io non le chiedo di decidere, così, su due piedi. Resto a Milano due giorni; le consiglierei di prendersi un poco di tempo per riflettere.

    — No, no, in queste cose non ho bisogno di riflettere; sono intuizionista.

    — È proprio la sua ultima parola?

    — Sì.

    Il volto gli s’era oscurato sempre più ed era tutto angoli; maschera espressionista o cubista, di certe pitture moderne che trasudano veramente tutti i vizi e tutto il male che corrodono la nostra tragica e satanica generazione. S’alzò e s’avviò verso la porta. Sulla porta si volse un istante e disse: Se ne pentirà. E scomparve seguito da suo figlio, un giovinetto che aveva assistito a tutto il colloquio approvando con sorrisi di soddisfazione le parole paterne e rannuvolandosi quando suo padre si rannuvolava.

    Orbene: sono passati vent’anni e non sono pentito.

    Evidentemente Scorza era mal profeta.

    Vivere cinque anni all’opposizione e in una opposizione intransigente e violenta — nella prima e più combattiva epoca del fascismo — dal ’21 al ’26 — non m’era stato facile. Aggressioni: a Carpi, Alassio, a Milano, la mia casa invasa e incendiata, chiamate e lunghi interrogatorii in polizia, e persino duelli.

    I duelli naturalmente erano il meno. Non li ho mai considerati una cosa seria. Tutti sappiamo che, dopo la morte di Puskin in Russia e di Cavallotti in Italia, s’è venuta perfezionando l’arte di condurre due uomini sul terreno dell’onore perchè uno dei due sparga una gocciolina di sangue che deve bastare per lavare l’offesa, anche se la gocciolina appartiene all’offeso. I padrini sono sempre d’accordo nella scelta di sciabole che non tagliano nemmeno il burro o di spade spuntate. E quando si tratta del terribile duello alla pistola — vecchie pistole arruginite dei tempi di Napoleone — c’è sempre un tecnico tra i padrini che le carica, o con troppa polvere o con poca polvere, perchè la palla sbandi o caschi ai piedi di chi spara. Quando si segue il primo sistema, i padrini, avvisati, scappan tutti a una distanza astronomica perchè il proiettile potrebbe finire addosso a loro.

    Però i duelli dell’epoca fascista non eran pericolosi in sè, ma per le conseguenze. L’antifascista doveva pigliarle perchè il fascista doveva essere un eroe, invincibile. Sebbene secondo il codice cavalleresco e anche per evitare l’intervento interruttore, spesso seguito da arresti e verbali della polizia, i padrini abbian l’obbligo di occultare il luogo scelto per lo scontro, accadeva sempre — tra il ventuno e il ventisei — che il luogo della singolar tenzone d’improvviso veniva circondato da plotoni di camice nere con facce patibolari e intenzioni poco rassicuranti.

    I disgraziati antifascisti, padrini del duellante, gli si avvicinavano immediatamente per sussurrargli all’orecchio: Hai visto!… Fatti dare un taglietto al più presto possibile, dagli la soddisfazione della vittoria; falli contenti e coglionati; se vinci t’ammazzano e ci ammazzano.

    S’incominciava a giostrare in questo stato di animo.

    E giù legnate con le sciabole che non tagliavano finchè i medici non scoprivano la gocciolina di sangue e non davano per terminato lo scontro. Il giorno dopo uno sentiva le ossa rotte per la tremenda bastonatura che aveva ricevuto — vinto o vincitore — e in meno di una settimana non ricuperava l’uso disinvolto delle membra. Però se la gocciolina era di prezioso sangue fascista, le facce patibolari incominciavano a consultarsi tra loro bisbigliando e bisognava saltare sull’automobile alla svelta e scappare per salvarsi la pelle. Quello era il momento più tragico dello scontro.

    Ciò nonostante le detti due volte e non mi lasciaron per morto nella strada maestra del ritorno. Sembra che la incipiente OVRA avesse la consegna di non procedere contro certe «personalità», se non dietro ordini precisi. E, per me, evidentemente, Mussolini non s’era ancora deciso.

    La decisione venne dopo il colloquio con Scorza e i due o tre mesi che rimasi ancora in Italia furono un inferno. Tutto quello che avevo sopportato fino allora, era stato solo un preludio scherzoso o l’allegretto di un preludio.

    L’epilogo venne in ottobre del ’26, dopo l’attentato di Anteo Zamboni in Bologna.

    La radioscopia e la storia del fascismo potremo cominciare a farla adesso; il regime rendeva impossibile ogni investigazione seria; e, tra noi, per la difficoltà delle comunicazioni, il sospetto, la sfiducia, in quei tempi non potevamo comunicarci che voci e rumori incontrollabili e inconfermabili.

    L’idea che io mi feci dell’attentato di Zamboni, fu quella d’una baruffa in famiglia. Antifascisti bolognesi che vidi negli ultimi giorni che rimasi in Italia m’assicurarono che Zamboni era strumento o di Balbo o di Arpinati, che speravan succedere al Duce. La pugnalata di Bonaccorsi era, anche quella, prevista perchè non si voleva che il mandatario scoprisse il mandante; doveva uccidere e sparire nel silenzio del sepolcro. Giovinetto esaltato e suggestionabile, s’adattava meravigliosamente a servire a oscure congiure di intriganti. Un ferroviario bolognese che aveva dovuto inscriversi al Fascio per non perdere l’impiego, mi assicurò che immediatamente dopo l’attentato, nella sala d’aspetto della stazione di Bologna, si era svolta una scena violenta tra Balbo e Arpinati che s’accusavano reciprocamente davanti a Mussolini, sorpreso e taciturno, d’aver armato il braccio di Anteo Zamboni. Sembra che Mussolini prestasse più credito ad Arpinati poi che ordinò immediatamente il ritorno a Ferrara delle Legioni Padane che Balbo aveva concentrato a Bologna.

    Per lungo tempo non mi sembrò inverosimile tal versione, ma incominciai a dubitarne quando avendola prospettata in un giornale americano ricevetti da un circolo anarchico dell’America del Nord una lettera in cui mi si pregava di non insultare più, nei miei futuri scritti, la magnifica figura dell’eroe adolescente e biondo che s’era immolato a sedici anni nella speranza di liberare la patria dalla tirannia. Mi parve che la lettera fosse sincera, non solo, ma, dal suo tono, ebbi l’impressione che, quelli che la scrivevano, sapessero qualcosa più di me. Tutto può darsi… Forse un giorno il segreto della revolverata di Bologna, si scoprirà. O resterà sempre un mistero, come tanti altri della storia.

    Per me fu la campana dell’esilio. Doveva veramente esser la campana a morto, ma sono ancora vivo per equivoco.

    Il Duce, indignato e meditabondo, decise partire immediatamente da Bologna che scottava e, in treno speciale, volò a Forlì, dove, torvo e sinistro, continuò a rimuginare dentro di sè intorno al probabile mandante di quella revolverata che gli aveva spezzato sul collo la Croce dei SS. Maurizio e Lazzaro e fatto finir male una di quelle magnifiche feste che tanti danari costavano all’erario.

    Mentre egli meditava, per tutto un giorno e fino a tarda notte, i fascisti impazienti aspettavan l’ordine della rappresaglia. Ordine atteso sempre con giubilo perchè gli permetteva di scatenare i loro bassi istinti sanguinari e, a molti, abbandonando le case delle vittime, portar con sè alcun ricordo.

    Solo a mezzanotte Mussolini si decise, a Forlì, a gettar la colpa definitivamente sull’odiato antifascismo, dimostrando così la incrollabile unità del suo partito.

    Alla Segreteria del Fascio di Milano le disposizioni per le rappresaglie in istile arrivarono per telegramma alle tre dopomezzanotte. Il segretario le trasmise alle squadre rionali che si posero immediatamente in movimento.

    Però, sembra che le squadre rionali non avesser l’ordine di uccidere. Potevan bastonare, ferire, infierire, ma se esageravano e ci scappava il morto, del cadavere dovevan rispondere al Duce e potevan perdere l’impiego. Specialmente dopo la stretta che gli aveva fatto passare il cadavere di Matteotti il Duce era un po’ più cauto. Per di più, quando si trattava di liquidare qualcuno, l’ordine si trasmetteva non alle squadre rionali ma a squadre della nascente Ovra di speciali attitudini per l’assassinio e composte d’uomini di fiducia. In Milano s’incaricava di queste speciali alte opere di Giustizia la squadra

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