Camilla
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Anteprima del libro
Camilla - Massimiliano Cracco
fantasia.
"Sai di non
dirti la verità?"
Di solito una parola che definisce una categoria di oggetti, persone, animali ecc. rimanda immediatamente al concetto più archetipico di ciò che descrive: se dico uccello, è più probabile che venga da pensare prima ad un volatile rispetto a uccelli meno standard
come pinguini o struzzi. Allo stesso modo, la parola romanzo fa immediatamente pensare ad una storia di finzione solitamente raccontata da un narratore onnisciente che descrive eventi passati. Sono rimasto perciò piacevolmente sorpreso quando, dopo che Massimiliano Cracco mi ha parlato del suo romanzo d’esordio, mi sono ritrovato a leggere una storia sotto forma di diario personale (con elementi epistolari). La scelta di narrare degli eventi sotto forma di diario del protagonista porta con sé alcune cose: da un lato questo tipo di scrittura rende il racconto una confessione molto personale, perciò va a finire che il lettore finisce col venire a sapere tutto ciò che passa per la testa del personaggio narrante. Dall’altro lato però, avendo come unica versione degli eventi quella riportata dal protagonista, ci ritroviamo ad avere a che fare con un narratore potenzialmente molto inattendibile. Quest'ultima cosa è ciò che rende Camilla una lettura molto interessante, dato che vi ritroverete a mettere in discussone molte delle cose narrate dal suo protagonista, che lascia il lettore spesso spaesato di fronte a un racconto che non offre alcuna certezza. Il tutto è stato reso in modo molto efficace dallo stile di scrittura scelto da Cracco, che si adatta perfettamente al soggetto narrato: un protagonista dal carattere ambiguo e come si diceva inattendibile, che non si pone alcun limite nel confessare le proprie emozioni, paure, manie e riflessioni in un flusso di coscienza che combina poetico e grottesco spingendosi stilisticamente oltre i limiti di una frontiera del narrare che non accetta standard. Si tratta di un’ambiguità formale al servizio del contenuto che però non compromette la verosimiglianza e la godibilità della narrazione, coadiuvata anche dall’ambientazione fittizia di Camilla che però rimanda a luoghi reali, ovvero quelli delle contrade della Lessinia, un tipo di montagna non turistica in cui il nostro protagonista si va a rifugiare nel tentativo di ritrovare un’innocenza forse perduta per sempre. Ma questo tentativo di redenzione andrà a buon fine oppure no? Scopritelo nelle prossime pagine.
Marco Brunello
Attraverso i temporali l’acqua ritrova la fonte e torna al mare, e poi ancora la fonte e poi ancora il mare. Per rinascere bisogna morire.
Cos’è la verità?
14 novembre
Saccotti ha il fare tipico del dottore cittadino, parla di tutto e non dice niente, usa parole difficili e sembra dare buoni consigli; tuttavia tutti hanno un dottore. Io ho Saccotti e lui, Saccotti, mi ha ordinato di tenere un diario dettagliato di tutto ciò che faccio… per capirmi meglio, così ha detto. Mi viene a trovare quando ritiene opportuno, non so se ci sia logica nella pianificazione delle visite. Senza troppo preavviso, mi chiama al telefono cellulare che sporadicamente adopero: «Pronto… sono il Dott. Saccotti». Mi avvisa che viene il tal giorno e puntualmente quel giorno arriva con la sua automobile cabriolet scura. Non so se abbia ben compreso la mia situazione ma lo ascolto ugualmente fingendomi interessato. Saccotti è uno psicanalista anche se non penso di essere sottoposto ad una vera e propria psicanalisi; mi sembra più un setacciare la mente a scopo di lucro, un modo legale di spillarmi quattrini anche se i soldi sono l’ultimo dei miei problemi e allora scrivo… nonostante io non sia uno scrittore di professione.
Qui non arriva mai la primavera, ti avverto. Il gelo lo lambisce fin dai suoi piedi spogli, in fondo alla valle scura. È attorniato da vette selvagge, meta di rapaci e serpi. Nessuno vorrebbe venirci a stare. Nessuno tranne me. È il monte di Sant’Ilario. Vivo tra queste montagne da qualche settimana; i primi giorni diluviava sempre e l’acqua scivolava a catinelle in ogni cantone ma ora è già come l’inverno, un inverno secco. I silenzi sono lunghi, il freddo è pungente e l’aria taglia le gole, e sarò sincero: a volte i miei deliri mentali sono talmente potenti da scuotere la mia immaginazione a tal punto da credermi un abitante di luoghi remoti, come ad esempio i monti Carpazi, alla frontiera con l’Ucraina, immerso in vastissime distese montuose, ai margini della civiltà, a decine di chilometri dal più vicino centro abitato e a centinaia dalla prima confusionaria metropoli. La mia mente finge spesso; è una malattia, la mia, la malattia di chi è costretto al fronte, fingere per sopravvivere, immaginare mondi, svagare la mente in ipotetici paesaggi e cogliere persone anche là dove l’ombra delle cose non esiste perché le cose stesse non sopravvivono abbastanza per riflettere la luce del sole. A metà dorsale del monte si trova un bosco di alberi spuntanti dove le piante fanno capolino tra le pietre grigie. Ai fianchi della vegetazione, soffocata del gelo, persiste una contrada di poche anime perlopiù abitata da anziani canuti e persone senza età. È gente fuori dal tempo, modesta per non dir mediocre, ma senza colpe, indefinibile e senza apparente futuro, priva delle frenetiche ansie proprie degli abitanti della città. Le persone di Sant’Ilario vivono il giorno per assolvere il giorno. Non manca anche qui il classico prete animatore di funzioni con la sua povera chiesa senza niente di pregevole dentro, artisticamente parlando, si capisce. Poi, come in ogni paesetto di montagna, c’è un buco di osteria spartana e impolverata e, non lontano da essa, si trova un negozietto di alimentari dove si possono trovare tutti i marchi della globalizzazione mischiati senza logica ai prodotti realizzati dai contadini e dagli artigiani di quassù. In cima alla contrada, al termine di tutte le strade dopo una fontana strozzata, si trova la mia nuova casa, vecchia, fatta di sassi, mattoni e travi di legno consumato. L’ho acquistata in un’agenzia con tanto di mobili e vestiti lasciati da un uomo che non conosco. Chissà chi era… ma poco importa. Non voglio dilungarmi e tediarti con minuziose descrizioni come saprebbe fare abilmente lo scrittore raffinato; scrivo perché me lo ha consigliato, anzi imposto il dottore. Scrivo perché sono malato e anche scrivere forse è una malattia.
15 novembre
Non sono in questo luogo perché me lo ha ordinato lo psicanalista, questo te lo dico subito in fraterna sincerità, sia chiaro. Il Saccotti mi dice che solo un depresso poteva venirci a stare e ci credo, lo sono, l’avevo capito da solo. Mi dice che dovrei tornare in città, trovarmi una donna, mi dice, parla e consiglia! E a questo proposito, sul fatto di trovarmi una donna non a pagamento presumo, gli ribatto con durezza e gliene dico di tutti i colori circa il mondo femminile… e in ciò, ascoltandomi, spero possa trovare dei riferimenti nella sua cara Signora Susanna Lambroni, lucido esempio di quel che artisticamente potrei definire come puttana morale, concedimi questa terminologia volgare. Non intendo dire prostitute da statale o da bordello, bensì puttane nel comportamento, nell’atteggiamento, donne avvolte da un perbenismo ipocrita, signorine perbene che avrebbero fatto qualsiasi cosa per raggiungere il proprio scopo. Non pensare che io sia un misogino, sono infastidito dalle donne tanto quanto mi fanno ribrezzo gli uomini, me compreso. Tuttavia le donne hanno contribuito non poco a snervarmi, siano esse state semplici cameriere o conturbanti manager di aziende prestigiose. Tronchiamo qui il discorso. A Saccotti gli dico in faccia che io da qua non me ne vado, sto perdendo la pazienza nel ribadirglielo, non mi trasferirò! Non sloggerò! Voglio rimanere arroccato nel mio fortino. Il Saccotti mi saluta cordialmente, mi chiede se sto andando avanti con lo scrivere, Sì
dico io, e senza imbarazzo si intasca la parcella, una somma di cento euro che probabilmente userà per regalare qualche puttanata alla figlia. L’ho vista una sola volta la figlia del dottore quando ancora stavo in città e trovavo gusto nelle diciottenni che immaginavo, sapendo di sbagliarmi, caste e pure vergini. Pamela Saccotti ha proprio due belle tette tonde, due mele probabilmente frutto della chirurgia estetica svizzera. Scrivo anche ciò, sì lo scrivo in questo diario maledetto e lo sottolineo con la biro nera. Vorrei proprio vedere la faccia sbigottita di Saccotti quando leggerà la sottolineatura riguardante la sua bella figliola e farmi così due cattive e grasse risate. Devi sapere che scrivo tutto a mano, all’antica. Non uso, come direbbe il mio povero padre, diavolerie tecnologiche. Il telefonino, ad esempio, lo prendo solo per rispondere al dottore e il computer portatile che possiedo lo tengo nel sedile posteriore della mia automobile, una Lancia Thesis grigia full optional che sta ammuffendo dietro la mia nuova casa vecchia, travolta dall’umidità. Quale miglior fine per un'auto che ha portato vagonate di baldracche incipriate, ubriache di champagne?
4
20 novembre
Il Dottor Saccotti ha suggerito di trovarmi degli amici, come se fosse facile in questo momento per un imprenditore faccendiere come me adattarmi alla gente della contrada; tuttavia ci provo ma senza troppe pretese. Ascoltami, ti racconto un po’ come passo le giornate. Ogni tanto parlo con il giovane cappellano. Ha un viso innocente, di quelli che quando li vedi vorresti schiaffeggiarli per ore; è il prete che viene a dir messa a