Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Cronache americane – Da Manhattan a Papeete, passando per la Casa Bianca
Cronache americane – Da Manhattan a Papeete, passando per la Casa Bianca
Cronache americane – Da Manhattan a Papeete, passando per la Casa Bianca
E-book219 pagine2 ore

Cronache americane – Da Manhattan a Papeete, passando per la Casa Bianca

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Benny Manocchia torna indietro con la memoria e ci racconta l'America per come l'ha vissuta: tra interviste a personaggi famosi, elezioni, viaggi ed emozioni riesce a farci respirare l'aria di un'epoca non molto lontana. Dagli anni '50 all'11 settembre, in una terra che vedeva gli italiani come fumo negli occhi, Benny ci presenta gli States in una maniera del tutto personale. Tra immagini e parole tutto quello che non sapete sugli Stati Uniti.
LinguaItaliano
Data di uscita19 lug 2017
ISBN9788826484587
Cronache americane – Da Manhattan a Papeete, passando per la Casa Bianca

Correlato a Cronache americane – Da Manhattan a Papeete, passando per la Casa Bianca

Ebook correlati

Biografie e memorie per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Cronache americane – Da Manhattan a Papeete, passando per la Casa Bianca

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Cronache americane – Da Manhattan a Papeete, passando per la Casa Bianca - Benny Manocchia

    fotografico

    Prefazione

    Mio zio Benny teneva molto al fatto che scrivessi una paginetta come presentazione.

    Non me la sono sentita di deluderlo, benché sia rimasto dell’idea che un libro abbia bisogno di una introduzione solo in casi particolari. Altrimenti uno sfoglia, guarda, e se c’è qualcosa che lo incuriosisce decide di leggerlo. E sfogliandolo, cercando di trasfigurarmi in un lettore che per la prima volta se lo trova tra le mani, devo dire che di passi che mi incuriosissero ne ho trovati diversi.

    C’è una cosa, però, da sottolineare. Oggi in molti scrivono romanzi, racconti, poesie, biografie; man mano che mi capita di sfogliarli noto che buona parte di quegli autori utilizza termini complicati, a volte aulici, (tacendo di quelli inappropriati e inutili) per raccontare dei fatti.

    Sarà per l’estrazione giornalistica di Benny, ma niente di tutto questo è contenuto in questo volume. È invece un racconto di vita, senza pretese di mostrare chissà quale cultura (o pseudo tale) per cercare di colpire il lettore o di ottenerne credito. È diviso in capitoli della brevità e della franchezza di una chiacchierata con un amico, con un linguaggio semplice e soprattutto, quel che davvero rappresenta il valore di quanto vi è scritto, con un entusiasmo che indubbiamente mi piacerebbe possedere quando avrò – come l’autore – passato gli ottanta, se mi sarà data quest’opportunità.

    Benny ha superato la lontananza dall’Italia e la non più fresca familiarità con la nostra lingua, ha dimenticato la propria età per tornare il ragazzo che arrivò negli USA sessantadue anni or sono, condividendo la scelta che molti giovani fanno oggi nella ricerca di un lavoro che l’Italia persiste a non offrire, per raccontarne i sentimenti, le sorprese, i tentativi, i successi e i fallimenti come se tutte queste cose gli fossero capitate l’altro ieri, proprio con la spontaneità e con l’entusiasmo di un ragazzo.

    Un impegno incredibilmente grande, che ha generato un frutto raro perché unico nella sua semplicità. E anche un gesto d’amore, se mi permettete, proprio verso quei giovani che, ai nostri giorni, si trovano di fronte alle stesse scelte in una realtà apparentemente molto diversa ma, in fondo, uguale nella sostanza.

    Buona lettura.

    g.m.

    Introduzione

    Non mi sono mai considerato un grande del giornalismo. Ho fatto il mio lavoro. Meglio che potevo, come stava bene a chi mi pagava per farlo. Un lavoro. Non mi sono mai piaciuti quelli che vogliono fare intendere di avere come un sacro fuoco, dentro, per questa professione: di essere dei predestinati, di essere nati per fare il mestiere. La maggior parte di noi, come tutti i lavoratori del mondo, impara quel che gli è utile quando gli è utile, sfrutta la propria curiosità, esercita la propria logica. E prova a camparci. Altri, meno fortunati, non riescono nemmeno a ragionare su tutti gli aspetti di quel che scrivono. Riportano fatti, circostanze, notizie che vanno a riempire uno spazio sul sito internet di un giornale o un paio di colonne su una rivista e incassano i pochi soldi, che a malapena coprono le spese.

    Certo, poi c’è qualcuno cui la cosa riesce particolarmente bene, che arriva a farsi un nome, a crearsi un’aureola di indiscutibile attendibilità. Qualcuno sa scrivere molto bene, porge fatti e circostanze in modo particolare, pian piano può concedersi di articolare riflessioni che vengono pubblicate. Questi colleghi hanno tutta la mia ammirazione e sono contento del loro successo. Io non sono né un Buzzati né un Cronkite, ma il mio mestiere l’ho imparato bene, grazie alla mia tenacia e a buoni insegnanti. Questo cocktail mi ha permesso di parlare con gli intervistati in maniera molto particolare creando con loro, in pochissimo tempo, una sorta di familiarità, quasi di complicità. Forse queste persone, davvero abituate a quanto di peggio in fatto di cattiveria e di trabocchetti poteva esprimere il giornalismo di un certo tipo, capivano che non intendevo provocare la notizia a loro danno, o indovinavano le tante avventure e i tanti guai che avevo passato e che sapevano leggermi negli occhi dal momento che, con tutta la mia buona volontà, nella vita non sono mai riuscito tanto bene a mentire.

    B.M.

    Nota dell’autore

    C’è qualcuno pronto a negare che, arrivati a una certa età, è normale tornare indietro con la memoria, se non altro per capire se abbiamo sbagliato? Ebbene, io ho sbagliato, e molto. È stata, la mia, una vita scombussolata, anche se piena di emozioni.

    Intanto sono convinto che soltanto chi per qualche motivo detesta la propria patria dovrebbe venire in America. Perché se ho sbagliato, questo è avvenuto soprattutto a causa del mio attaccamento al Paese che mi ha visto nascere: una terza pelle dura come il cuoio, che rende inutilmente rigidi sentimenti e sensazioni.

    Non ho mai ringraziato il Signore per avermi concesso la grazia di venire in America e vivere in questo sogno. L’America non è il paradiso, e nemmeno un paradiso. Era certamente migliore negli anni Cinquanta e Sessanta. Oggi proprio no. È scomparso il mito del lavoro per tutti e sappiamo che in fondo la felicità nella vita deriva in massima parte dalla sicurezza di avere un lavoro. Oggi negli Stati Uniti vivono decine di milioni di persone disoccupate. Diciassette milioni fanno letteralmente la fame. Un paradiso grigio, direi, qualche volta proprio buio. A milioni noi lasciammo l’Italia in cerca di un lavoro sicuro…

    Quindi non è soltanto questione di nostalgia.

    Certo, mi è mancata mia madre, mio fratello Franco, che per me è stato anche un padre da quando avevo nove anni e perdemmo il nostro sotto un bombardamento, mi è mancato Giampiero, mio nipote.

    Queste sensazioni possono entrare fra le pagine di un libro? Penso, spero di sì, soprattutto se si tratta di un libro di ricordi. Anche perché sarà facile per chi legge, se lo desidera, attribuire connotati più familiari alle vicende e alle persone che incontrerà nelle pagine. Ma è chiaro che soltanto chi vive all’estero, lontano da casa, può veramente capire certe emozioni.

    Un tale, che mi conosceva da quando ero ragazzo, un giorno mi disse: «Beni’, ma perché non te ne ritorni a casa?»

    Per me, che conoscevo la boxe, fu come un colpo alla bocca dello stomaco. Che cosa potevo rispondere? Ecco, l’Italia, la casa, non è stata una buona madre per i suoi figli lontani.

    1 - L’arrivo negli States

    La statua della Libertà non era così vicina alla nave come si vede nei film. Mentre la nave attraccava, sul ponte della nave e sul molo la scena era identica: donne e uomini con le lacrime agli occhi, sventolio di fazzoletti, urla di gioia e saluti. Quando scesi, mio fratello Lino mi abbracciò salutandomi in dialetto giuliese, forse per farmi sentire come a casa, benché a casa, con mia madre toscana, non ci saremmo mai azzardati a parlare in dialetto. Fuori invece dicevamo babbo, anziché papà, e gli amici ci prendevano in giro.

    Era la fine di giugno del 1955. La traversata, allora, durava otto giorni. Era filata liscia, senza problemi, a bordo dell’Andrea Doria, nave splendida. Un anno più tardi sarebbe colata a picco, speronata dalla svedese Stockholm. Ero riuscito ad ottenere un biglietto a basso costo: cabina per quattro persone, il bagno nella sala opposta, quasi sempre occupato. L’Italia era il Paese degli emigranti, tantissimi in Belgio, a morire di silicosi o per il gas nelle reali miniere, a vivere un’esistenza al buio centinaia di metri sotto terra tornando su a fine turno, alla pallida luce della luna. Pressappoco un anno più tardi sarebbe arrivata la notizia dello spaventoso incidente nella miniera del Bois du Cazier. In Abruzzo ancora oggi ne abbiamo memoria, lo chiamiamo la tragedia di Marcinelle. Vi morirono decine di nostri corregionali.

    Altrettanti italiani, forse più del Belgio, ne attirava l’America, che aveva vinto la guerra.

    Una volta in America, il lavoro che in Italia non c’è dovrebbe arrivare, ma prima di tutto arriva la confusione, che spesso diventa la lotta del pesce fuor d’acqua. Sai che per il momento resterai a New York, dove si ferma il 91% degli immigrati, mentre gli altri andranno da parenti e amici, di solito in paesini del West.

    Al consolato americano di Napoli era obbligatorio presentare una dichiarazione scritta approvata da Washington: negli Stati Uniti c’è un lavoro che mi aspetta e comunque esiste qualcuno, parenti od altro, che provvederà al mio sostentamento qualora quel lavoro non fosse più disponibile. E infatti quel lavoro non era disponibile, la dichiarazione l’aveva fatta un lontano parente che non si fece mai vedere dopo il mio arrivo.

    Scoprii di avere problemi con la lingua, che credevo di conoscere; invece qui, tra streets and avenues(1), che a me parevano identici, la gente parlava un inglese strano, a volte incomprensibile. La stanza comunque ce l’avevo, ora dovevo trovare un lavoro. Uno qualsiasi, tanto per avviare la mia vita negli Stati Uniti.

    Un giorno, qualcuno mi informò che un fast food aveva bisogno di un giovane ai fornelli. Facile! Ero pronto e infatti mi assunsero: quattro soldi l’ora e turni di notte. Porca miseria, ed ecco il primo chi me lo ha fatto fare….

    Ma ero là per lavorare, per assicurare un futuro solido alla mia vita. Dai, forza, mostra agli americani di che pasta sei fatto.

    Dopo un mese il boss già mi parlava: «Ok paisà, io ho cominciato come te, dopo tre anni ero addetto alla cottura pollo; oggi, in soli cinque anni, sono a capo di questo fast food.»

    Le sue parole mi riempirono di gioia… Indubbiamente in quel fast food avrei potuto avere un luminoso futuro!

    Una sera, la ragazza che lavorava con me mi fece capire che c’erano altri lavori e che non avrei dovuto smettere di cercare. Lei aveva una bimba e quel figlio di p… del padre si era squagliato. Aveva accettato quel lavoro per sopravvivere. Che altro poteva fare con una figlia piccola? La prima triste storia nel Paese perfetto.

    (1)Strade e viali

    2 - Gioventù del dopo guerra

    Di quelle storie ne avevo lasciate tante, anche di più toccanti, dietro di me, in Italia, anche se cercavo di assecondare la mia testa che voleva disfarsene, dimenticare, e credere che in una nuova nazione – nella Nazione per eccellenza, quella che aveva vinto la guerra – la vita fosse davvero una fiaba. Noi italiani infatti, soltanto finita la guerra cominciammo o, meglio, ricominciammo a vivere, a spogliarci perlomeno della rassegnazione di trovarci in un incubo senza fine.

    Io avevo tre fratelli più grandi di me. Franco, il mio preferito, era stato scelto dalla mamma come mio fornitore, perché la natura ci aveva fatti abbastanza simili: corporatura e altezza giusti per passarci scarpe e pantaloni. Per la precisione: lui passava a me. Poi Franco ottenne un posticino al Comune del nostro paese. Studiava e lavorava, e mamma poté contare su ventimila lire al mese. Cominciammo a sentirci come piccoli baroni della cittadina. Ora sul tavolo si vedeva una fetta di formaggio o del pesce fresco del nostro Adriatico. Il vino non ci interessava: nostra madre, astemia, ci aveva abituati a bere acqua, che era chiamata del Ruzzo, dal nome dell’acquedotto che la portava giù dal Gran Sasso.

    Mio fratello Omero studiava. Morì a 17 anni, quando io ne avevo 13. Allora capii che non avevo la forza di carattere necessaria per accettare la morte, cercavo in tutti i modi di non guardarla in faccia, mi chiudevo nel bagno e rimanevo lì immobile, come in trance.

    L’altro fratello, Lino, era prigioniero in Germania.

    Una cosa ricordo bene di quel periodo: la difficoltà nel fare amicizie. Era cominciata, come capii più tardi, la lotta contro chi non la pensava come una certa parte politica del paese. Noi non ne capivamo niente.

    Giocavamo a pallone e partiva qualche schiaffo o sputo. Ma non era conseguenza del gioco, assomigliava invece allo sfogo di qualcuno che a casa era stato indottrinato a odiare chi sembrava avere idee diverse.

    Tuttavia, si viveva. Si andava a scuola in paese fino alla terza media. Poi a Teramo, il capoluogo, a bordo di un treno più lento di una lumaca, al punto che durante il percorso ci riusciva di scendere, rubacchiare al volo qualche frutto dalle piante che costeggiavano la ferrovia e poi risalire. Durante i viaggi in treno, in noi ragazzi cominciava a destarsi una certa curiosità nei confronti delle ragazze. E il senso di curiosità di un adolescente eternamente affamato per i mai abbondanti pasti del periodo bellico si materializzava in un confronto se vogliamo poco cavalleresco ma molto pratico. Le nostre coetanee, infatti, portavano stozze(2) di gran pregio, riempite dalle loro mamme di formaggio, frittate, salame. Qualche volta ci riusciva di sfilarle dalla loro borsa, e dopo un minuto non esistevano più. Le femmine cercavano vendetta, ma la ritorsione non andava mai in porto perché noi, le nostre stozze già le avevamo mangiate nel tragitto a piedi dalle rispettive case alla stazione ferroviaria.

    Insomma, tra una situazione sciocca e l’altra semiseria, cresceva il desiderio di vedere in pace la nazione già divisa da liti interne, soprattutto per la politica. Il calcio, anche allora, per molti di noi era praticamente tutto.

    Soltanto d’estate ci sentivamo liberi. Correvamo sulla spiaggia e nuotavamo da un molo all’altro con la velocità di novelli Tarzan. In estate potevamo ammirare le nostre belle ragazze, ma soprattutto quelle che venivano da Roma o da altre città. Le nostre, le nostrane, le controllavano padri che non scherzavano.

    Ogni tanto nostra madre mi riservava complimenti del tipo: «Io a te ‘un ti volevo, avrei preferito una femminuccia, che mi avrebbe aiutato nelle faccende di hasa.»

    Ah, beh, grazie mamma… Sentivo la mancanza di mio padre?

    Senza padre non si sta bene, non è una mia scoperta. Anche perché la mamma non potrà mai rappresentare entrambi i genitori. Una verità che nessuno può contestare.

    Franco cercò, con pazienza, di prendere il posto del babbo. Rientrato a casa dall’ospedale, mi svegliavo durante la notte con dolori lancinanti alla gamba ferita da quella maledetta bomba che si portò via mio padre e me lasciò vivere con una trentina di schegge nella carne, impossibili da eliminare. Lui, mio fratello, era lì a cercare di calmarmi. E poi per i compiti di scuola, con la pazienza di chi ti vuole bene, a farmi capire - testone che sei

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1