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Il patto del demonio
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E-book325 pagine

Il patto del demonio

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Info su questo ebook

Nel 1806 l'Europa è dilaniata dalla lotta per il potere. Mentre Russia, Sassonia e Inghilterra si oppongono a Napoleone, il comandante francese Gilbert e un gruppo di soldati ricevono l'incarico per una missione segreta: infiltrarsi nelle linee nemiche e rubare dei bauli il cui contenuto deve rimanere segreto. Al loro ritorno, scoprono di essere stati coinvolti in un pericoloso gioco fatto di inganni, intrighi e tradimenti.
Nel frattempo, tra le file dell'esercito inglese, qualcuno opera nell'ombra raccogliendo informazioni da consegnare ai francesi, mettendo a repentaglio la sicurezza dell'intera coalizione. Al centro di questa intricata trama si trova Dubois, un astuto e pericoloso manipolatore che, animato da avidità e vendetta, ha come solo obiettivo il proprio vantaggio personale.

Il patto del demonio è un romanzo avvincente che cattura l'atmosfera terribile della guerra e mescola abilmente avventura e suspense, tenendo i lettori con il fiato sospeso fino all'inaspettato finale dove tutto finalmente si spiegherà.
LinguaItaliano
Data di uscita7 mar 2024
ISBN9791280324382
Il patto del demonio

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    Il patto del demonio - Fausto Tinti

    Fausto Tinti

    Il patto del demonio

    EDIZIONI IL VENTO ANTICO

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    Nel 1806 l'Europa è dilaniata dalla lotta per il potere. Mentre Russia, Sassonia e Inghilterra si oppongono a Napoleone, il comandante francese Gilbert e un gruppo di soldati ricevono l'incarico per una missione segreta: infiltrarsi nelle linee nemiche e rubare dei bauli il cui contenuto deve rimanere segreto. Al loro ritorno, scoprono di essere stati coinvolti in un pericoloso gioco fatto di inganni, intrighi e tradimenti.

    Nel frattempo, tra le file dell'esercito inglese, qualcuno opera nell'ombra raccogliendo informazioni da consegnare ai francesi, mettendo a repentaglio la sicurezza dell'intera coalizione. Al centro di questa intricata trama si trova Dubois, un astuto e pericoloso manipolatore che, animato da avidità e vendetta, ha come solo obiettivo il proprio vantaggio personale.

    Il patto del demonio è un romanzo avvincente che cattura l'atmosfera terribile della guerra e mescola abilmente avventura e suspense, tenendo i lettori con il fiato sospeso fino all'inaspettato finale dove tutto finalmente si spiegherà.

    Collana

    I Romanzi

    Questo libro è un'opera di finzione e qualsiasi somiglianza con persone reali, vive o morte, è puramente casuale. È stato fatto ogni sforzo per ottenere le autorizzazioni necessarie con riferimento a materiale protetto da copyright, sia illustrativo che citato. Ci scusiamo per eventuali omissioni al riguardo e saremo lieti di rendere i riconoscimenti appropriati in qualsiasi edizione futura. 

    Il romanzo si ispira liberamente a un periodo storico e i luoghi menzionati sono prevalentemente frutto della fantasia dell'autore.

    A mia moglie Patrizia

    CAPITOLO 1

    1795, Londra

    Jack Hastings odiava gli inglesi, li odiava in modo viscerale, con tutto se stesso.

    Ogni mattina, in tutti quegli anni, al risveglio il suo primo pensiero era sempre lo stesso: Devo vendicarmi, devo fargliela pagare.

    Lo disgustavano la loro alterigia, il loro stupido senso dell’onore, la loro crudeltà mascherata da senso della giustizia, il loro perbenismo.

    Aveva solo undici anni quando suo padre e sua madre erano stati impiccati nello stesso giorno sulla pubblica piazza insieme con altri sei disperati, accusati di furto e omicidio.

    Lui era presente quando furono arrestati.

    Era giorno di mercato, era lì per rubacchiare quel tanto che bastava per sfamarsi quando scorse sua madre abbracciata a un uomo dirigersi verso un vicolo. Suo padre era poco distante.

    Agivano sempre in coppia.

    La madre, con l’unico vestito decente datole da un parente che lavorava all’obitorio, si avvicinava alla vittima e, facendo leva sul suo aspetto piacente, la convinceva con moine e toccamenti a infilarsi in una stradina poco frequentata per iniziare un amoreggiamento che avrebbe, secondo l’ingenuo, portato a una bella scopata. Bastava la lingua in bocca e il ventre strusciato a dovere a distrarre il malcapitato che, al massimo dell’eccitazione, pensava solo a concludere.

    La madre non doveva fare altro che sfilargli la borsa, cosa in cui aveva una straordinaria abilità, e passarla al marito.

    Quella volta era andata male, il passaggio della borsa non era stato così preciso e, sfuggita di mano a suo padre, era caduta per terra facendo tintinnare le ghinee contenute.

    Avrebbero potuto cavarsela se l’uomo non fosse stato un mercante. Quei maiali, quando sentivano il rumore dei soldi, si mettevano subito all’erta. Si era reso conto in un attimo di cosa succedeva.

    Aveva preso sua madre per il collo nell’incavo del braccio gridando a più non posso.

    Suo padre aveva fatto d’istinto qualche passo per fuggire, ma non poteva, la sua donna con la faccia ormai paonazza scalciava inutilmente per liberarsi nelle mani di quell’uomo.

    Jack lo vide estrarre il coltello per pugnalare alla gola quel grasso porco e farlo smettere di gridare, ma non aveva fatto in tempo ad alzare il braccio che la lama di una sciabola gli fu puntata allo stomaco da un ufficiale accorso alle grida dell’uomo.

    Jack, il giorno dell’impiccagione, piangeva disperato. I suoi genitori con la corda al collo si guardavano, aspettando che il boia calciasse la botte su cui stavano in piedi.

    La guardia, che lo teneva stretto e che aveva il compito di farlo assistere all’impiccagione come monito, era ubriaca e sghignazzava di continuo, ripetendogli che presto anche lui avrebbe fatto la stessa fine.

    Le persone che quel giorno dovevano essere giustiziate erano sei e frasi del tipo: «Facci vedere come balli, non ti preoccupare, a tua moglie ci pensiamo noi», erano solo alcune di quelle lanciate dal popolino verso di loro. Del resto, una pubblica esecuzione era un diversivo per molti.

    Poi, con orrore, vide il boia calciare le botti una dietro l’altra.

    Di solito lasciava passare diversi minuti tra una esecuzione e l’altra per lasciare ai presenti il piacere di gustarsele, ma quella volta voleva farla finita il più presto possibile, forse perché tra i condannati vi erano due donne e un ragazzo di quattordici anni, inebetito dal terrore con l’urina che gli colava dalle brache formando una pozza sul tavolato.

    Il padre smise quasi subito di sgambettare, la madre, invece, più leggera, non morì subito, il suo viso era diventato cianotico, il corpo sussultava come se cercasse di spingersi verso l’alto per liberarsi dal cappio e aspirare aria.

    Erano gli occhi quelli che più avevano impressionato e annientato Jack. Dilatati, fuori dalle orbite, guardavano verso il boia con la supplica di fare in fretta.

    Il boia per esperienza sapeva che sarebbe potuta stare appesa anche per molti minuti prima di spirare, quindi con un salto si aggrappò al busto della donna. Il peso improvviso le spezzò il collo all’istante con uno schiocco che si sentì per tutta la piazza ammutolita dalla scena.

    Dopo quell’episodio, per diversi giorni Jack visse come in un limbo, distrutto dal dolore. La perdita della madre era incolmabile. Quello che più gli mancava erano le bellissime storie che gli raccontava alla sera per distrarlo dalla fame, quando la giornata era stata infruttuosa. Era una zingara rumena, narrava di draghi e folletti e lui, bambino, ne era affascinato.

    Dopo l’impiccagione fu rinchiuso in una cella con ragazzi di varie età, alcuni in attesa di venire giudicati per reati commessi, in genere piccoli furti, altri perché figli di deportati o delinquenti che dovevano essere impiccati o lo erano già stati. Come i suoi genitori.

    Tutti i giorni all’alba venivano prelevati dal carcere, condotti al porto e traghettati sulle navi dei deportati ancorate in mezzo al fiume.

    Stivati nei vari ponti come animali, i deportati erano stesi su dei tavolacci affiancati uno all’altro, quattro per ogni settore, alla caviglia un anello con catena fissata alla colonna di sostegno. Ogni nave ne conteneva dai duecento ai quattrocento. Il fetore che emanavano era orribile e ne era impregnata l’intera nave. Quando il vento soffiava verso terra, appestava anche il porto.

    In quelle condizioni disumane, prive di ogni norma igienica, vivevano per le settimane in cui la nave stava ancorata e per tutta la traversata fino all’Australia. Lungo tutti i settori sul retro correva uno scivolo incavo, dove i prigionieri facevano i loro bisogni. Due volte al giorno veniva versata acqua sugli scivoli, per far confluire tutti gli escrementi dentro ad alcune botti.

    Il compito dei ragazzi era quello di svuotarne il contenuto, riversarlo nel fiume e pulire con spazzoloni gli scivoli.

    Nei primi giorni Jack non faceva altro che vomitare per le zaffate irrespirabili che gli arrivavano. Ma il lavoro servì a distrarlo dal suo dolore. Come tutti coloro che eseguivano quel compito, era terrorizzato all’idea di finire tra i deportati, ma non accadde.

    Un giorno lo prelevarono dal carcere e lo condussero davanti al giudice. Era un uomo anziano, con la parrucca bianca e le palpebre cascanti. Dopo una ramanzina di mezz’ora su come doveva essere la vita di un onesto cittadino, e avergli prospettato a cosa poteva andare incontro se non rispettava la legge, gli comunicò che era stato assegnato in custodia per sette anni a un influente notaio della città.

    Questo benefattore, a detta del giudice, aveva più volte ospitato dei ragazzi della sua età per un certo periodo di tempo, per educarli e instradarli sulla retta via.

    Gli disse, inoltre, che secondo lui un figlio di ladri era per forza un ladro e che doveva considerarsi fortunato se fino a quel momento non era stato colto in fallo. Comunque, concluse, vista la sua giovane età, nutrivano ancora la speranza di fare di lui un buon cittadino.

    Jack comprese di essere stato fortunato: finiva in casa di un uomo ricco, con i pasti assicurati tutti i giorni. Non sarebbe stato libero di scorrazzare per le strade ma, visto che l’alternativa era quella di finire presto o tardi deportato o impiccato, era contento che il destino una volta tanto si fosse dimostrato benevolo con lui.

    Il giorno dopo lo tennero in cella. A mezzogiorno, quando gli portarono il pasto consistente in una pagnotta e una brodaglia con dentro qualche rapa e pochi fagioli, gli ordinarono di prepararsi alla partenza.

    Jack mangiò in fretta e cercò di ripulirsi al meglio nella botte d’acqua posta in un lato dello stanzone pieno di pagliericci sporchi che serviva da cella per i quaranta ragazzi in carcere: voleva dare una bella impressione.

    Era pomeriggio inoltrato quando una guardia venne a prenderlo.

    Jack prese il giacchetto di pecora che gli aveva cucito la madre e fu accompagnato fuori. In strada lo aspettava un carretto carico di provviste trainato da un cavallo, a cassetta un uomo con un berretto calcato sulla testa e un pastrano che gli avvolgeva il corpo. L’unica cosa che notò erano la barba e i capelli bianchi.

    «Sali dietro ragazzo» gli disse. «Dobbiamo attraversare buona parte della città. Se hai freddo, copriti con quei sacchi di tela che trovi lì dietro. Goditela questa passeggiata, perché non avrai molte altre occasioni di uscire. Da adesso in avanti sarà dura per te!»

    Jack non diede peso alle parole del vecchio, lui non sapeva cosa aveva dovuto sopportare in quelle settimane. Le continue angherie degli altri ragazzi e, lui così gracile non aveva avuto la forza di ribellarsi.

    Quante volte avevano preteso che consegnasse a loro la sua cena, quante volte era stato costretto a scendere nelle stive per pulire gli scivoli o travasare il liquame dalle botti, mentre i più grandi stavano sul ponte per riversarlo in mare. Le settimane in carcere erano state un incubo, quante volte aveva pianto disperato in silenzio nel suo pagliericcio. Peggio di così non poteva essere.

    Mentre il carretto procedeva, Jack guardò stupito le strade e le case che cambiavano di aspetto man mano che proseguivano.

    La zona di Londra in cui aveva sempre vissuto era squallida. Le case erano basse, attaccate una all’altra, con il tetto in legno e le finestre piccole. Le vie erano strette sporche e puzzolenti. I pochi negozi erano androni bui, dove la merce esposta era perennemente coperta di mosche. L’acciottolato era sconnesso, pieno di buche e di escrementi. I pochi alberi nelle piazzette anguste erano rinsecchiti dal piscio dei cani e di giorno dovunque regnava un vociare alto e continuo. Con il sopraggiungere dell’oscurità le strade si riempivano di ubriachi, tagliagole e vecchie puttane.

    Mentre avanzava si rese conto che esisteva un’altra città, dove le case erano a diversi piani, illuminate all’interno, con portoni in legno lucido e grandi finestre. Case robuste, di pietra spessa, con abbaini e tetti a punta. Nel procedere ne osservò alcune attraverso le cancellate, con colonnati sulla facciata e vasti giardini.

    Le piazze erano tanto grandi da stordirlo, spesso non riusciva con lo sguardo ad abbracciarle per intero. La pavimentazione era uniforme e le strade erano larghe, pulite e illuminate da lampioni a olio.

    Le persone, anche all’imbrunire, giravano tranquillamente per le vie a piedi, a cavallo e in carrozza, i loro volti erano sorridenti e tranquilli. Gli uomini indossavano scarpe lucide e lunghi mantelli neri, le donne avevano un aspetto pulito, ordinato, con bellissimi mantelli colorati con l’interno di pelliccia e acconciature strane con piume e nastri.

    Pensò a quanto sarebbe piaciuto a sua madre essere vestita in quel modo. Non avrebbe certo sfigurato e gli venne un groppo in gola nel ricordare come aveva vissuto e come era morta.

    Vide locande illuminate piene di gente e botteghe fornite di tutte le mercanzie possibili e immaginabili.

    Come poteva esserci al mondo una diversità simile? Perché anche loro non avevano potuto vivere in quel modo? Se fosse stato così, i suoi genitori non sarebbero morti impiccati per poche misere monete. Chissà, forse un giorno lo avrebbe capito.

    Dopo un’ora di viaggio, il carretto imboccò una strada dove le case a tre piani avevano una facciata larga di mattoni rossi, le finestre erano incorniciate di bianco. Bianca era anche la scala centrale che conduceva al portone di ingresso. Sul davanti di ogni abitazione c’era un giardino delimitato da un basso muricciolo con ringhiera.

    Jack guardò la via, le case uguali per un lungo tratto, le finestre illuminate e la luce gialla dei lampioni, ben delineata per la nebbia leggera che stava scendendo, rischiarava a cono il marciapiede. Tutto gli diede un senso di pace, ma chissà se veramente l’avrebbe trovata.

    Il carro, dopo aver imboccato un vicolo laterale che fiancheggiava un’abitazione, si fermò sul retro di una di queste.

    Il conducente scese.

    «Vieni, questa è la casa dove abiterai.» Insieme si avviarono alla porta. L’uomo bussò. «Mary, sono io, apri che fa un freddo boia!»

    Si affacciò quasi subito una donna anziana, piuttosto grassa con un grembiule e una cuffietta bianca, e si fece di lato per farli passare. La stanza in cui entrarono era illuminata e quasi sgombra, se non per qualche abito appeso a dei ganci.

    «Ho una fame da lupo» esclamò l’uomo, «metto la roba che ho sul carro in dispensa poi mangiamo. Questo è il ragazzo che starà con noi, come vedi è tutt’ossa. È sicuramente da un pezzo che non mangia fino ad avere lo stomaco pieno.»

    Così dicendo uscì di nuovo.

    «Povero ragazzo, l’unica cosa che non ti mancherà in questa casa sarà il mangiare» gli disse la donna anziana accarezzandolo e guidandolo verso la cucina. «Dovrai fare tutto quello che dice il padrone, sarà dura, ma il tempo passerà e un giorno sarai libero.»

    Jack non capì, ma non fece domande, l’odore di cibo che permeava la cucina lo assalì e lo distolse da tutti gli altri pensieri. Aveva fame e voleva mangiare al più presto.

    La donna lo fece sedere da un lato del lungo tavolo e gli servì un piatto di manzo fumante con patate e cipolle lessate.

    Ingoiò tutto con voracità. Erano mesi che non mangiava carne e quella era tanta e squisita.

    L’uomo e la donna cenarono dopo di lui in silenzio, ogni tanto incrociava i loro sguardi, ma niente di più.

    Jack si distrasse nel guardare la grande cucina, avvertiva il calore lungo la schiena grazie al camino nella parete centrale in cui ardevano dei grossi ceppi. I muri anneriti dal fumo erano pieni di tegami, pentole, mestoli di tutte le dimensioni appoggiati su mensole o appesi a ganci. Lungo una delle pareti più strette c’era una grande madia bianca di farina. Sul lato sinistro del camino vi era un lungo tavolo appoggiato alla parete e, allineati sopra, una fila di coltelli di varie lunghezze e larghezze.

    Sarebbe stato sempre lì al caldo, pensò, in quell’ambiente confortevole, con tanta roba da mangiare.

    Poi la stanchezza lo vinse, cercò di tenere gli occhi aperti ma non ci riuscì, lentamente la testa si reclinò sul tavolo e si addormentò.

    Fu svegliato poco dopo dalla donna che, con modi gentili, lo fece alzare, lo spogliò e lo fece immergere in una tinozza di acqua calda, lo strofinò energicamente con uno straccio insaponato, lo asciugò e gli fece indossare un camicione lungo fino ai piedi, odoroso di bucato. Lo condusse al piano superiore e, aperta una delle porte che si affacciavano sul corridoio, lo introdusse in una stanza con un letto lungo una parete, alto, rigonfio, sopra una coperta bianca, un armadio di fronte e una cassapanca. Sull’altra parete, sotto alla finestra, completavano l’arredamento un tavolo e una sedia. La donna scostò le coperte e aiutò il ragazzo a salire sul letto, lo ricoprì e nell’uscire gli augurò una buona notte.

    Jack non si era mai sentito così bene e, per la prima volta in tante settimane, si addormentò sereno.

    I giorni passavano tranquilli, nel tepore della cucina con Mary e suo marito Oscar. Jack li aiutava nei piccoli lavori domestici, raccontava loro della sua vita passata, dei suoi genitori e di quanto gli mancassero, della fortuna che aveva avuto nel capitare in quella casa. Loro sospiravano e gli sorridevano.

    In quella settimana di permanenza gli capitò di vedere il padrone solo due volte, spiandolo dalla porta della cucina. Era alto, vestito di scuro, con la barba brizzolata e ben curata. Una mattina, mentre portava degli asciugamani a Mary, Jack passò davanti al portone di casa. All’improvviso questo si aprì ed entrò proprio lui, il padrone. Squadrò il ragazzo con curiosità senza dire niente, mentre gli porgeva cappello, guanti e mantello.

    Jack non proferì parola, tanto quella persona lo intimoriva. Si girò su se stesso e se ne andò con le braccia cariche, cercando di non fare cadere niente.

    Ma quella notte, e per molte altre nel corso degli anni a venire, successe qualcosa che condizionò tutta la sua vita.

    CAPITOLO 2

    1806, Prussia Occidentale

    Era un’alba fredda e nebbiosa, con il tanfo di putredine che arrivava dalla palude. Il capitano Luc Gilbert era immobile. Solo un lieve tremito delle mani rivelava la sua preoccupazione.

    Dopo due giorni dietro le linee nemiche, avevano attraversato la palude e raggiunto la strada sterrata che portava a Freiberg.

    Sul lato della carreggiata, il crinale si rialzava di circa due metri ed era lì, tra l’erba fradicia per la pioggia della nottata, che il capitano Gilbert e i suoi undici soldati, tutti tiratori scelti del XII Reggimento Cacciatori dell’esercito Napoleonico in terra di Sassonia, erano in attesa.

    L’informazione era sicura, pensò Gilbert, veniva da una fonte totalmente affidabile. La spia che aveva comunicato la data e il luogo era inserita da diverso tempo nel comando inglese e non aveva mai fallito. I suoi uomini erano schierati lungo la dorsale dove la nebbia, che arrivava dal terreno fino alle prime diramazioni degli alberi, li nascondeva completamente.

    Guardandosi attorno, Gilbert considerò che la visibilità era solo di pochi metri. Avrebbe avvistato il nemico troppo tardi per poter decidere una strategia. Doveva fare affidamento sull’udito.

    Diede quindi ordine al tenente André Villier, suo compagno d’armi dall’inizio della guerra, di appostare tra gli alberi due uomini ogni quattro metri, in modo da coprire un fronte di venti.

    I suoi avrebbero sparato sui soldati della colonna solo quando questi li avessero sorpassati di poco, per prenderli alle spalle in modo da averli contemporaneamente sotto il fuoco dei loro moschetti.

    «Villier, tu sarai in coppia con me» ordinò. «Comunica agli altri di fare fuoco solo dopo che lo avrai fatto tu e solo quando li avranno di spalle. Con sangue freddo e una buona mira, alla prima scarica possiamo ammazzarli tutti o quasi, poi li finiremo con le baionette. Fa’ in modo che stiano bassi e che si coprano con il mantello il più possibile, non voglio che un eventuale luccichio delle giberne o delle fibbie metta in allerta il nemico. Quando spareranno dovranno essere in ginocchio. Non voglio sentire il minimo rumore e che si tolgano il copricapo. Lo so che non devo ripeterti queste cose, né ha te né agli uomini» ammise appoggiandogli una mano su una spalla. «Ma se le dico mi sento più tranquillo.»

    Villier scrollò la testa, come a dire che non importava e il capitano proseguì.

    «Mi raccomando, che nessun inglese riesca a scappare, siamo troppo all’interno delle linee nemiche e non voglio trovarmeli alle calcagna prima del dovuto. Voglio una sola scarica di fucileria. Meno rumore facciamo meglio è.»

    «Fortunatamente questa è una zona boscosa e piena di colline, gli spari non dovrebbero propagarsi per più di un paio di chilometri. Speriamo che non ci siano pattuglie in perlustrazione troppo vicine» concluse il tenente e si avviò per eseguire gli ordini ricevuti.

    Prima della missione il capitano Gilbert aveva studiato le mappe e, in due giorni, con il rischio di incontrare sempre truppe nemiche, galoppando per sentieri appena tracciati, erano giunti nel luogo che aveva scelto per l’imboscata. Nell’ultimo tratto di strada, le piogge, che a brevi intervalli persistevano da più di un mese, avevano ulteriormente allagato una vasta depressione del terreno già paludoso. In base alle mappe, aveva considerato di fare una piccola deviazione che avrebbe permesso loro di proseguire, ma non aveva previsto una tale estensione di acqua stagnante. Mentre costeggiavano quel vasto acquitrino nella speranza di trovare una zona asciutta, l’inquietudine di Gilbert era aumentata a ogni passo.

    Dopo un chilometro circa e dopo aver sondato più volte il terreno limaccioso, Gilbert aveva constatato che si sprofondava nel fango non oltre lo stivale e, per non correre il rischio di arrivare in ritardo nel luogo prefissato, dopo qualche attimo di indecisione aveva ordinato di procedere.

    La traversata era stata comunque un incubo. Il buio, la ricerca continua di tratti di terra affiorante che permettessero soprattutto ai cavalli di non sprofondare e il timore di perdersi avevano reso gli uomini inquieti e irritabili. Più volte il capitano aveva dovuto zittire il concerto di bestemmie e imprecazioni che si alzava a ogni passo.

    Poi finalmente avevano raggiunto il terreno solido e adesso i soldati, dopo aver legato i cavalli a degli arbusti, aspettavano di ricevere gli ordini.

    Gilbert aspirò più volte l’aria carica di umidità per liberare la mente dalla tensione accumulata.

    L’uomo che aveva mandato a perlustrare la strada da dove sarebbe arrivato il convoglio tornò. Era il sergente Farin, un uomo piccolo, magro, con baffi spioventi e lunghe basette, i capelli lunghi unti di sego trattenuti sulla nuca da un laccio di cuoio.

    Avere con sé Farin gli dava un senso di sicurezza, considerò Gilbert, mentre questi smontava da cavallo e si avvicinava.

    «Come è la strada?» gli chiese.

    «Quaranta metri indietro fa una curva stretta, tutto a nostro vantaggio» rispose. «Saranno costretti a rallentare di molto l’andatura. La nostra posizione è ideale, in questo modo potremo prendere la mira con un secondo in più di tempo e agli uomini di solito basta molto meno per non sbagliare il colpo. A mezzo chilometro circa, su una collina, c’è un villaggio abbandonato con diverse case quasi tutte bruciate, una chiesa con il tetto sfondato e un camposanto. Purtroppo non posso appostarmi lì e segnalare il loro passaggio con lo specchio, il sole non riuscirà a disperdere la nebbia se non tra qualche ora.»

    «Lo so» confermò Gilbert. «Dovremo affidarci all’udito, meglio così, preferisco comunque questa nebbia. Adesso vai. Controlla la disposizione degli uomini e dì loro di non sbagliare il colpo e di non lasciare superstiti.»

    Il sergente estrasse la baionetta, una lama triangolare di quaranta centimetri, e la incastrò con un movimento preciso nel moschetto, poi si incamminò tirando il cavallo per le briglie. Il mantello nero con il cappuccio lo copriva completamente e la nebbia al suolo più densa gli nascondeva gli stivali. Sembrava la morte in cerca di vittime.

    Gilbert si armò e, mentre inseriva polvere, stoppaccio e palla nella canna e pressava il tutto con la bacchetta, valutò che la distanza era minima, aveva quindi buone possibilità di fare centro al primo colpo.

    Il moschetto non era la sua specialità, preferiva la sciabola, un’arma onorevole, degna di un ufficiale, con cui poteva far valere forza, velocità e coraggio. Con quella poteva vedere il nemico negli occhi, individuare e sfruttare i suoi punti deboli. Un’arma con cui pensava di avere pochi rivali.

    La nebbia che li isolava quasi completamente acuiva il loro udito, ma il silenzio era assoluto, solo qualche cinguettio e il fruscio di fronde agitate lievemente dal vento aleggiavano nell’aria.

    Dopo due ore di attesa, con le orecchie tese allo spasimo, gli uomini incominciarono a dare segni di nervosismo. Le uniformi fradice, le membra irrigidite e l’attesa prima dell’azione li avevano resi irrequieti. Poi improvvisamente un rombo indistinto arrivò fino a loro.

    Gilbert si mise subito all’erta. Anche i soldati ai suoi ordini lo sentirono e le poche parole che prima si scambiavano in tono sommesso cessarono del tutto. Il comandante rimase in ascolto per alcuni attimi, cercando di capire quanti fossero dal rumore degli zoccoli, ma la distanza era troppa. Diede l’ordine di prepararsi.

    I soldati, come da ordini ricevuti, stavano bassi in modo che l’erba alta e la nebbia li coprissero del tutto. Si sarebbero messi in ginocchio per fare fuoco solo quando il drappello fosse stato a pochi metri. Il rumore degli zoccoli adesso era distinto, Gilbert guardò un’ultima volta la disposizione dei suoi, macchie scure, immobili. Solo il loro respiro condensato rivelava una leggera traccia di vita. Quando sentì variare la cadenza del galoppo, capì che gli inglesi avevano rallentato l’andatura per seguire la curva che faceva la strada.

    «State pronti, arrivano».

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