Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Monsone
Monsone
Monsone
E-book1.120 pagine19 ore

Monsone

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

All’alba del XVIII secolo, tre ragazzi giurano che non si separeranno mai, qualunque cosa accada. Ma il destino ha in serbo per loro un’amara sorpresa…
Uno dei più bei romanzi della saga dei Courtney, in una nuova traduzione.


Leggendario navigatore, Sir Henry Courtney ha lasciato il mare per dedicarsi alle sue terre e alla famiglia. Ma quando il re gli ordina di salpare alla volta del Madagascar per combattere contro il famigerato Jangiri, un temibile pirata che ha inflitto gravi perdite alla Compagnia delle Indie, non può rifiutarsi di obbedire e parte per quella che potrebbe essere la sua ultima e più pericolosa missione insieme ai tre figli minori. Poi, durante un abbordaggio, il più piccolo, Dorian, cade nelle mani dei predoni arabi... E da quel giorno suo fratello Tom non smetterà mai di cercarlo. Inizia così un’avventura indimenticabile, tra crudeli pirati e trafficanti di schiavi, favolosi tesori e amori travolgenti, che metterà alla prova i tre ragazzi in modi che mai avrebbero potuto immaginare, forgiando il loro carattere e cambiando le loro vite per sempre.

LinguaItaliano
Data di uscita28 gen 2021
ISBN9788830524217
Monsone
Autore

Wilbur Smith

Considerato l’indiscusso maestro dell’avventura, è nato nel 1933 in Africa centrale e si è spento il 13 novembre 2021. Ha pubblicato più di quaranta titoli, tradotti in ventisei lingue, fra cui il ciclo ambientato nell'Antico Egitto e le celebri serie dedicate ai Courtney, ai Ballantyne e a Hector Cross. Nel 2015 ha fondato la Wilbur & Niso Smith Foundation, che promuove la cultura e la narrativa d'avventura. Fiore all'occhiello della fondazione è il prestigioso Wilbur Smith Adventure Writing Prize.

Leggi altro di Wilbur Smith

Correlato a Monsone

Titoli di questa serie (12)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Monsone

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Monsone - Wilbur Smith

    1

    I tre ragazzi risalirono la gola dietro la cappella, così da non essere scorti dalla villa e dalle scuderie. Tom, il maggiore, apriva come sempre la fila ma il fratello più giovane lo seguiva da vicino e, non appena lui si fermò accanto alla prima ansa del torrente sopra il villaggio, riprese con la propria argomentazione. «Perché devo sempre restare di guardia io? Perché non posso mai unirmi al divertimento, Tom?» chiese.

    «Perché sei il più piccolo» gli rispose Tom con un tono autoritario da gran signore. Stava esaminando il minuscolo paesino che ormai riuscivano a distinguere nella forra sottostante. Il fumo si levava dalla fucina nella bottega del fabbro e il bucato steso dietro il cottage della vedova Evans sventolava nella brezza di levante, ma non c’erano segni di vita. A quell’ora del giorno quasi tutti gli uomini si trovavano nei campi di suo padre perché il raccolto era in pieno svolgimento, mentre le donne che non stavano sgobbando accanto a loro dovevano essere al lavoro alla villa.

    Soddisfatto, Tom sorrise per l’intuizione. «Non ci ha visto nessuno.» Nessuno che potesse informare il loro padre.

    «Non è giusto.» Dorian non si lasciò distogliere così facilmente dal suo tema. I riccioli di un biondo ramato gli caddero sulla fronte facendolo somigliare a un cherubino arrabbiato. «Non mi lasci mai fare niente.»

    «Chi ti ha lasciato far volare il suo falco, la settimana scorsa? Io.» Tom si girò a guardarlo. «Chi ti ha lasciato sparare con il suo moschetto, ieri? Io. Chi ti ha lasciato pilotare il cutter?»

    «Sì, ma…»

    «Niente ma.» Tom lo guardò torvo. «Chi è il comandante di questa ciurma, in ogni caso?»

    «Tu, Tom.» Dorian abbassò gli occhi verdi sotto l’intensità dello sguardo del fratello. «Però…»

    «Puoi andare con Tom al posto mio, se vuoi» intervenne per la prima volta Guy, sottovoce. «Resto io di guardia.»

    Tom si girò verso il gemello più giovane mentre Dorian esclamava: «Posso, Guy? Lo farai davvero?». Quando sorrideva la sua bellezza era prorompente, come un raggio di sole che squarcia una coltre di nubi.

    «No che non lo farà!» intervenne Tom. «Dorry è solo un bambino, non può venire. Rimarrà di guardia sul tetto.»

    «Non sono un bambino» protestò furiosamente Dorian. «Ho quasi undici anni.»

    «Se non sei un bambino mostraci i peli sui tuoi testicoli» lo sfidò Tom. Da quando erano spuntati a lui erano diventati il suo parametro per misurare la maturità.

    Dorian lo ignorò, non avendo nemmeno una peluria rossiccia da contrapporre all’impressionante villosità del fratello maggiore, e cambiò tattica. «Mi limiterò a guardare, tutto qui.»

    «Sì, dal tetto.» Tom stroncò la proposta sul nascere. «Avanti! Faremo tardi.» Si avviò spedito su per la ripida gola, gli altri due che lo seguivano con livelli diversi di riluttanza.

    «Chi potrebbe arrivare, comunque?» insistette Dorian. «Sono tutti indaffarati. Persino noi dovremmo dare una mano.»

    «Potrebbe arrivare Black Billy» replicò Tom senza voltarsi.

    Quel nome ridusse al silenzio Dorian. Black Billy era il più grande dei ragazzi Courtney, sua madre era stata una principessa etiope che Sir Henry Courtney aveva condotto con sé dall’Africa quando era tornato dal suo primo viaggio in quel continente mistico. Oltre a una sposa di sangue reale aveva portato una nave carica di tesori sottratti agli olandesi e ai pagani, una vasta fortuna con cui aveva più che raddoppiato l’estensione della sua antica tenuta e, così facendo, aveva reso la sua famiglia una delle più ricche di tutto il Devon, capace di competere persino con i Grenville.

    William Courtney, Black Billy per i fratellastri più giovani di lui, aveva quasi ventiquattro anni, sette in più dei gemelli. Era intelligente, spietato, avvenente, dotato di una bellezza bruna che aveva qualcosa di ferino, e i fratelli minori lo temevano e lo detestavano, e a ragione. La minaccia del suo nome fece rabbrividire Dorian e rimasero in silenzio mentre percorrevano l’ultimo mezzo miglio di salita. Finalmente lasciarono il ruscello e si avvicinarono al ciglio del burrone fermandosi sotto la grande quercia dove in primavera aveva nidificato l’albanella reale.

    Tom si lasciò cadere contro il tronco dell’albero per riprendere fiato. «Se questo vento regge possiamo andare in barca a vela, domattina» affermò, mentre si asciugava con la manica la fronte sudata dopo essersi tolto il cappello ornato dalla piuma d’ala di un germano reale, sottratta al primissimo uccello ucciso dal suo falco.

    Si guardò intorno. Riusciva a vedere quasi metà della tenuta Courtney, quindicimila acri di colline ondulate e valli scoscese, boschi, terreni da pascolo e campi di grano che si estendevano fino alle scogliere sulla costa e arrivavano quasi alla periferia del porto. Ma il terreno gli era talmente familiare che non si attardò a lungo sul panorama. «Vado avanti a vedere se il campo è libero» disse prima di alzarsi. Raggiunse con cautela, chino in avanti, il basso muro di pietra che circondava la cappella, poi sollevò la testa per guardare da sopra la sommità.

    L’edificio era stato costruito dal suo bisnonno, Sir Charles, che si era guadagnato il cavalierato al servizio della Good Queen Bess, Elisabetta I. In veste di uno dei suoi capitani di mare aveva combattuto valorosamente contro l’Armada di Filippo di Spagna. Più di cento anni prima aveva eretto la cappella per rendere gloria a Dio e commemorare l’azione della flotta a Calais, dove aveva ottenuto il titolo nobiliare; lì, molti galeoni spagnoli erano stati spinti in fiamme fino alla spiaggia mentre gli altri erano andati dispersi nelle tempeste chiamate i venti di Dio dal viceammiraglio Drake.

    Il bell’edificio ottagonale di pietra grigia vantava un’alta guglia che nei giorni di cielo terso risultava visibile da Plymouth, a quasi quindici miglia di distanza. Tom scavalcò agevolmente il muretto e attraversò furtivo il meleto raggiungendo la porta di quercia ornata di borchie del vestibolo. La socchiuse e rimase in ascolto, attento. Il silenzio era impenetrabile. Sgattaiolò dentro, raggiunse la porta che si apriva sulla navata e sbirciò all’interno: il sole illuminava l’ambiente come un arcobaleno entrando dalle alte finestre di vetro istoriato. Quelle sopra l’altare raffiguravano la flotta inglese intenta a combattere gli spagnoli, con Dio Padre che osservava con aria di approvazione dalle nubi mentre i galeoni di Filippo bruciavano.

    Sulle finestre sopra la porta principale, aggiunte dal padre di Tom, i nemici che venivano sconfitti erano invece gli olandesi e le orde dell’Islam mentre al di sopra della battaglia si stagliava Sir Henry, la spada sollevata eroicamente e la principessa etiope al suo fianco. Portavano entrambi l’armatura e sui loro scudi campeggiava la croix patté dell’ordine di San Giorgio e del Santo Graal.

    La navata era deserta. I preparativi per il matrimonio di Black Billy, fissato per il sabato seguente, non erano ancora iniziati e Tom aveva la cappella tutta per sé. Tornò di corsa alla porta del vestibolo, spinse fuori la testa, infilò due dita in bocca ed emise un fischio acuto. Quasi subito i due fratelli scavalcarono il muro esterno e lo raggiunsero di corsa.

    «Su nel campanile, Dorry!» ordinò Tom, e quando gli sembrò che il ragazzino dai capelli rossi volesse protestare ancora gli si avvicinò di un passo, minaccioso. Dorian si accigliò ma scomparve su per la scala.

    «È già arrivata?» chiese Guy con un pizzico di trepidazione nella voce.

    «No, è ancora presto.» Tom raggiunse la scala di pietra scura che scendeva nella cripta e, una volta giù, aprì la fibbia della borsa di pelle appesa alla cintura, accanto al fodero con il pugnale. Estrasse la massiccia chiave di ferro sottratta quella mattina dallo studio del padre, aprì il cancelletto di sbarre e lo spalancò facendone cigolare i cardini. Senza la minima esitazione entrò nella cripta dove così tanti suoi antenati giacevano nei rispettivi sarcofagi di pietra. Guy, sempre a disagio in presenza dei defunti, lo seguì con meno sicurezza e si fermò sulla soglia.

    A livello del pavimento c’erano alte finestre da cui entrava una luce strana, tremolante, l’unica presente nella stanza. Sedici bare di pietra e marmo disposte lungo le pareti della cripta circolare ospitavano tutti i Courtney e le rispettive mogli sin dal bisnonno Charles. Guy guardò istintivamente quella in marmo che racchiudeva le spoglie mortali della madre, al centro del terzetto di defunte mogli del padre. Sul coperchio era intagliato un suo ritratto; secondo lui era bellissima, una fanciulla simile a un giglio. Non l’aveva mai conosciuta, non le si era mai attaccato al seno: i tre giorni di travaglio per dare alla luce i gemelli erano stati troppo, per una creatura così delicata. Era morta di emorragia e sfinimento poche ore più tardi che Guy aveva lanciato il suo primo vagito e i ragazzi erano stati cresciuti da una serie di bambinaie e dalla matrigna, la madre di Dorian.

    Raggiunse il sarcofago, si inginocchiò in corrispondenza della testa e lesse l’iscrizione che aveva di fronte:

    In questa bara giace Margaret Courtney, amata seconda moglie di Sir Henry Courtney, madre di Thomas e Guy, che ha lasciato questa vita il 2 maggio 1673. Al sicuro fra le braccia di Cristo.

    Chiuse gli occhi e cominciò a pregare.

    «Lei non può sentirti» gli disse dolcemente Tom.

    «Sì che può» ribatté Guy senza alzare la testa o aprire gli occhi.

    Tom perse interesse per la cosa e scese lungo la fila di bare. A destra di sua madre riposava quella di Dorian, l’ultima moglie del loro padre. Solo tre anni prima il cutter su cui viaggiava si era capovolto all’imbocco della baia e lei era stata trascinata al largo dalla corrente, troppo impetuosa perché Hal riuscisse a salvare la moglie, talmente forte da portare quasi via con sé anche lui. Li aveva lasciati entrambi in una caletta sferzata dal vento cinque miglia più giù lungo la costa, ma a quel punto Elizabeth era morta annegata e Hal in fin di vita.

    Tom sentì gli occhi riempirsi di lacrime perché aveva voluto bene a Elizabeth come non poteva volerne alla madre mai conosciuta. Tossicchiò e se li strofinò ricacciandole indietro prima che Guy potesse vedere la sua debolezza puerile. Benché Hal l’avesse sposata soprattutto per dare una madre ai gemelli orfani, ben presto erano giunti tutti ad amarla, così come amavano Dorian sin da quando lei lo aveva dato alla luce. Tutti tranne Black Billy. William Courtney non amava nessuno a parte il padre, di cui era ferocemente geloso come una pantera. Elizabeth aveva protetto i ragazzi più giovani dalle vendicative attenzioni del primogenito finché il mare non l’aveva sottratta a tutti loro, lasciandoli indifesi.

    «Non avresti mai dovuto lasciarci» le disse Tom sottovoce, poi lanciò un’occhiata a Guy sentendosi in colpa. Ma il gemello, assorto nelle sue preghiere, non l’aveva sentito e lui raggiunse l’altro sarcofago accanto a quello della madre naturale. Apparteneva a Judith, la principessa etiope, madre di Black Billy. Il bassorilievo di marmo sul coperchio raffigurava una donna bellissima con i lineamenti fieri, quasi da falco, che il figlio aveva ereditato. Portava la mezza armatura, come ben si addiceva a chi aveva comandato un esercito contrapposto ai pagani, e una spada fissata alla cintura mentre sul suo petto erano posati un elmo e uno scudo sul quale campeggiava una croce copta, il simbolo di Cristo persino più antico del ministero di Roma. Era a testa scoperta, i capelli cespugliosi che formavano una densa corona ricciuta. Mentre Tom la guardava sentì montargli nel petto l’odio che provava per il figlio della donna. «Il cavallo avrebbe dovuto disarcionarti prima che tu potessi partorire quel cucciolo» disse ad alta voce.

    Guy raddrizzò la schiena e lo raggiunse. «Porta sfortuna parlare così dei defunti» lo avvisò.

    Tom si strinse nelle spalle. «Non può farmi del male, adesso.»

    Il fratello lo prese per un braccio e lo portò accanto al sarcofago seguente. Sapevano entrambi che era vuoto e il coperchio non era stato sigillato.

    «Sir Francis Courtney, nato il 6 gennaio 1616 nella contea del Devon. Cavaliere dell’ordine della Giarrettiera e dell’ordine di San Giorgio e del Santo Graal. Navigatore e marinaio. Esploratore e guerriero. Padre di Henry e prode gentiluomo» disse Guy leggendo l’iscrizione. «Ingiustamente accusato di pirateria dai vili coloni olandesi del Capo di Buona Speranza e da loro crudelmente giustiziato il 15 luglio 1668. Benché le sue spoglie mortali giacciano sulla remota e selvaggia costa africana il suo ricordo sopravvive in eterno nel cuore del figlio, Henry Courtney, e nel cuore di tutti i coraggiosi e fedeli marinai che solcarono l’oceano sotto il suo comando.»

    «Come può nostro padre sistemare qui una bara vuota?» mormorò Tom.

    «Credo che voglia riportare qui il corpo del nonno, un giorno» rispose Guy.

    Tom gli lanciò una brusca occhiata. «Te l’ha detto lui?» Era invidioso all’idea che fosse stato detto qualcosa al gemello e non a lui, il più grande dei due. Tutti i ragazzi adoravano il padre.

    «No» ammise Guy, «ma è quello che farei io per mio padre.»

    Tom perse interesse per la conversazione e raggiunse il centro del pavimento, in cui era intarsiato uno strano motivo circolare in granito e marmo variopinti. Sui quattro punti del cerchio troneggiavano calderoni d’ottone destinati a ospitare gli antichi elementi di fuoco e terra, aria e acqua quando il Tempio dell’ordine di San Giorgio e del Santo Graal si riuniva in occasione del plenilunio dell’equinozio d’estate. Sir Henry Courtney era un cavaliere Nautonnier dell’ordine, come il padre e il nonno prima di lui.

    Al centro del soffitto a volta spiccava uno sfiatatoio aperto sul cielo soprastante attraverso il quale, grazie all’ingegnosa progettazione architettonica della cripta, i raggi della luna piena avrebbero colpito il disegno sul pavimento di pietra su cui era scritto in marmo nero il criptico motto dell’ordine: In Arcadia habito. Nessuno dei due ragazzi aveva ancora scoperto il più profondo significato di quell’emblema araldico.

    Tom rimase fermo sopra le lettere nere in stile gotico, si posò la mano sul petto e cominciò a recitare la liturgia con cui un giorno sarebbe stato anch’egli introdotto nell’ordine. «Credo in queste cose e le difenderò con la vita. Credo che esista un unico Dio nella Trinità, il Padre eterno, il Figlio eterno e lo Spirito Santo eterno.»

    «Amen!» sussurrò Guy. Avevano entrambi studiato assiduamente il catechismo dell’ordine e conoscevano a memoria il centinaio di risposte.

    «Credo nella comunione della Chiesa d’Inghilterra e nel diritto divino del suo rappresentante sulla terra, Guglielmo III, Re d’Inghilterra, Scozia, Francia e Irlanda, Difensore della Fede.»

    «Amen!» ripeté Guy. Un giorno sarebbero stati invitati a unirsi a quell’illustre ordine, a restare ritti nel chiarore della luna piena e pronunciare solennemente quei giuramenti.

    «Sosterrò la Chiesa d’Inghilterra. Affronterò i nemici del mio signore sovrano, Guglielmo…» proseguì Tom con una voce sonora che ormai aveva quasi perso le ultime tracce del timbro infantile. Si interruppe di colpo quando un basso fischio entrò dall’apertura nel tetto soprastante.

    «Dorry!» disse nervosamente Guy. «Arriva qualcuno!» Rimasero immobili aspettando il secondo fischio acuto che avrebbe segnalato allarme e pericolo ma non giunsero ulteriori avvertimenti.

    «È lei!» Tom rivolse un gran sorriso al fratello. «Temevo che non venisse.»

    Guy, che non condivideva la sua gioia, si grattò nervosamente il collo. «La cosa non mi piace affatto.»

    «Al diavolo, Guy Courtney.» Tom rise di lui. «Non scoprirai mai com’è bello, se non provi.»

    Udirono il fruscio di tessuto, lo scalpiccio di piedi leggeri sulla scala, poi una ragazza arrivò in fretta e si fermò sulla soglia della cripta, con il respiro affannoso e le guance arrossate dalla corsa su per la collina.

    «Qualcuno ti ha visto lasciare la villa, Mary?» chiese Tom.

    Lei scosse il capo. «Nessuno, padron Tom. Erano tutti impegnati a tracannare quel brodo.» La sua voce, a dispetto dell’inflessione dialettale locale, suonava disinvolta e gradevole. Mary era una ragazza robusta, con prua e poppa ben sviluppate, più vecchia dei gemelli quindi probabilmente più vicina ai venti che ai quindici anni. La sua pelle era perfetta e levigata come la famosa panna del Devon e un intrico di riccioli scuri le incorniciava il grazioso viso paffuto. Le labbra erano rosa, morbide e umide, ma gli occhi brillanti e scaltri avevano un taglio malizioso.

    «Sei sicura, Mary, che padron Billy non ti abbia visto?» insistette Tom.

    Lei scosse il capo facendo danzare i riccioletti. «Sì. Prima di venire qui ho guardato nella biblioteca e lui aveva il naso affondato nei libri come al solito.» Appoggiò sulla vita sottile le mani piccole, ruvide e arrossate dal lavoro nel retrocucina, cingendola quasi completamente. Gli occhi di entrambi i gemelli seguirono il movimento e si posarono sul suo corpo. Le voluminose sottogonne e la gonna lacera le arrivavano a metà dei polpacci grassocci e benché i piedi fossero nudi e sporchi, le caviglie apparivano sottili. Lei vide il loro sguardo, la loro espressione, e sorrise percependo il potere che aveva sui due ragazzi.

    Sollevò una mano e giocherellò con il nastro che le teneva chiuso il corpetto. Le due paia di occhi, obbedienti, seguirono le sue mani quando si spinse il seno in fuori tendendo il nastro. «Avete promesso di darmi sei pence» rammentò a Tom, che si riscosse.

    «Infatti, Mary.» Lui annuì. «Sei pence per entrambi, Guy e io.»

    Lei gettò indietro la testa e gli mostrò la lingua rosa. «Siete un tipo subdolo, padron Tom. Erano sei pence a testa, uno scellino per tutti e due.»

    «Non essere sciocca, Mary.» Lui infilò una mano nella borsa fissata alla cintura ed estrasse una moneta d’argento. La lanciò in aria, dove vorticò scintillando nella luce fioca, poi la afferrò al volo e gliela mostrò. «Una moneta d’argento da sei pence, tutta per te.»

    Mary scosse di nuovo il capo e sciolse il fiocco del nastro. «Scellino» ripeté, il corpetto che le si apriva di un pollice e i due ragazzi che fissavano il triangolo di pelle bianca così esposto, in netto contrasto con le spalle abbronzate e lentigginose soprastanti.

    «Uno scellino o niente!» Lei fece spallucce simulando indifferenza. Il movimento fece uscire parzialmente dalla scollatura un seno grasso e tondo, lasciando nascosto solo il capezzolo mentre il bordo dell’areola color rubino spuntava timido dall’orlo consunto della camiciola. Entrambi i ragazzi rimasero ammutoliti.

    «Il gatto vi ha mangiato la lingua?» chiese maliziosa. «Credo che per me non ci sia niente, qui.» Si girò verso la scala muovendo di scatto il sedere rotondo sotto la gonna.

    «Aspetta!» gridò Tom con voce strozzata. «E uno scellino sia, mia graziosa Mary.»

    «Prima mostratemelo, padron Tom!» Girò la testa sopra la spalla lentigginosa mentre il ragazzo rovistava freneticamente nella borsa.

    «Ecco qui, Mary.» Lui le porse la moneta e Mary tornò indietro lentamente, ancheggiando come le ragazze sui moli di Plymouth, e gliela tolse di mano. «Mi trovate carina, padron Tom?»

    «Sei la ragazza più carina dell’intera Inghilterra» replicò con foga Tom, e diceva sul serio. Allungò una mano verso il grosso seno tondo spuntato dal corpetto. Lei ridacchiò e la respinse con uno schiaffetto.

    «E padron Guy? Non è lui il primo?» Guardò dietro Tom. «Non l’avete mai fatto prima, vero, padron Guy?»

    Guy deglutì a fatica, ma non riuscì a trovare la voce. Abbassò gli occhi e arrossì cupamente.

    «È la prima volta» confermò Tom. «Comincia con lui, io verrò dopo.»

    Mary raggiunse Guy e gli prese la mano. «Non abbiate paura.» Gli sorrise con quegli occhi a mandorla. «Non vi farò male, padron Guy» promise cominciando a tirarlo verso l’estremità opposta della cripta. Mentre lei gli si premeva contro il ragazzo la annusò. Probabilmente Mary non faceva il bagno da un mese ed emanava il forte odore delle cucine in cui lavorava, un misto di grasso di bacon e fumo di legna, l’afrore equino del suo sudore, l’aroma di aragosta che bolliva nella pentola.

    Lui fu assalito da un urto di vomito e si ritrasse. «Non voglio… non posso…» Era sul punto di piangere. «Vai prima tu, Tom.»

    «L’ho chiamata per te» gli disse bruscamente il fratello. «Quando sentirai quella cosa impazzirai, te lo assicuro.»

    «Ti prego, Tom, non costringermi» replicò Guy con voce tremula, poi si voltò a guardare disperatamente la scala. «Voglio solo tornare a casa. Papà lo scoprirà.»

    «Le ho già dato il nostro scellino.» Tom tentò di farlo ragionare. «Così lo sprecherai.»

    Mary gli prese di nuovo la mano. «Forza, venite!» Lo tirò. «Da bravo. Vi ho tenuto d’occhio, davvero. Siete un gran bel ragazzo, eccome se lo siete!»

    «Fai iniziare Tom!» esclamò Guy, frenetico.

    «D’accordo, allora!» Lei si avvicinò di scatto all’altro ragazzo. «Lasciate che padron Tom vi mostri la via. Ormai dovrebbe poterla trovare anche a occhi chiusi, c’è stato abbastanza spesso.» Lo prese per il braccio e lo trascinò fino al sarcofago più vicino, quello di Sir Charles, l’eroe di Calais, e vi appoggiò sopra la schiena.

    «Non soltanto con me» disse ridacchiandogli in faccia, «ma anche con Mabel e Jill, se non mi hanno detto una bugia, e metà delle ragazze del villaggio, ho sentito dire. Siete un autentico montone, padron Tom!» Abbassò una mano per tirargli i lacci dei pantaloni mentre si alzava in punta di piedi e incollava le labbra alle sue. Tom la spinse contro la bara di pietra. Stava cercando di dire qualcosa al gemello, alzando gli occhi al cielo, ma era imbavagliato dalle morbide labbra umide di Mary e dalla lunga lingua simile a quella di un gatto che lei gli stava infilando in bocca.

    Finalmente riuscì a liberare il viso e boccheggiò per riprendere fiato, poi sorrise a Guy, il mento reso scintillante dalla saliva della ragazza. «Ora ti mostrerò la cosa più dolce su cui potrai mai posare gli occhi anche se tu dovessi campare cent’anni.»

    Mary era ancora reclinata all’indietro contro il sarcofago. Tom si piegò verso di lei e, con dita esperte, le allentò i lacci della gonna facendola scivolare intorno alle caviglie. Lei non portava niente, sotto, e il corpo estremamente liscio e bianco sembrava modellato nella cera da candele più pregiata. Abbassarono tutti e tre lo sguardo su di esso, i gemelli in preda a un timore reverenziale e lei con un sogghigno fiero. Dopo un lungo minuto di silenzio rotto solo dal respiro irregolare di Tom, Mary si sfilò la camiciola da sopra la testa e la lasciò cadere sul coperchio del sarcofago dietro di sé. Girò la testa per guardare in faccia Guy. «Non volete questi?» chiese mentre si stringeva i prosperosi seni bianchi. «No?» aggiunse in tono di scherno, lasciandolo ammutolito e scosso. Poi si fece correre lentamente le dita giù per il corpo color crema, oltre la profonda infossatura dell’ombelico. Spinse via la gonna con un calcio e divaricò le gambe, sempre guardandolo in faccia. «Non avete mai visto nulla di simile a questa passerina, vero, padron Guy?» gli chiese. I riccioletti le frusciarono sotto le dita mentre si accarezzava. Lui emise un suono strozzato che le strappò una risata trionfante.

    «Ormai è troppo tardi, padron Guy!» lo stuzzicò. «Avete avuto la vostra occasione, adesso dovete aspettare il vostro turno!»

    Tom si era lasciato cadere i calzoni intorno alle caviglie. Mary gli posò le mani sulle spalle e, con un saltello, gli si avvinghiò cingendogli il collo con le braccia e la vita con le gambe. La sua collanina di scarso valore rimase bloccata fra loro due e la cordicella si spezzò, i lucenti grani di vetro che cadevano sui loro corpi per poi sparpagliarsi sulle lastre di pietra. Nessuno dei due vi badò.

    Guy rimase a guardare con un misto di orrore e fascinazione mentre il gemello teneva bloccata la ragazza contro il coperchio di pietra del sarcofago del loro bisnonno e affondava ritmicamente dentro di lei grugnendo, rosso in volto, e Mary andava incontro alle sue spinte emettendo fiochi miagolii che si fecero sempre più acuti e sonori finché non prese a uggiolare come un cagnolino.

    Guy avrebbe voluto distogliere lo sguardo ma non vi riuscì. Osservò la scena, orribilmente affascinato, mentre il fratello gettava indietro la testa, spalancava la bocca e lanciava un orrendo grido angosciato.

    Lei l’ha ucciso!, pensò. E poi: Cosa diremo a papà? Il volto di Tom era scarlatto e scintillava di sudore.

    «Tom! Stai bene?» Le parole gli sgorgarono di bocca prima che riuscisse a fermarle.

    Il fratello girò la testa per rivolgergli un sorriso contorto. «Mai stato meglio.» Si staccò di dosso Mary posandola a terra e poi indietreggiò, lasciandola con la schiena appoggiata alla bara. «Ora tocca a te» disse ansimando. «Fai fruttare quei sei pence, ragazzo!»

    Anche Mary era trafelata ma emise una risata tremula. «Datemi un minuto per riprendere fiato, padron Guy, poi vi farò fare una galoppata che non dimenticherete per parecchi anni.»

    In quel momento un doppio fischio acuto entrò dallo sfiatatoio sul soffitto della cripta e Guy fece un salto indietro, allarmato e insieme sollevato. L’urgenza dell’avvertimento era inconfondibile.

    «Maledizione!» esclamò. «È Dorry sul tetto. Sta arrivando qualcuno.»

    Tom saltellò su un piede solo e poi sull’altro mentre si tirava su i calzoni di scatto e ne stringeva i lacci. «Vattene, Mary» intimò bruscamente alla ragazza che, carponi, si stava affannando a recuperare i grani della collana caduti.

    «Lascia perdere!» le disse ma lei lo ignorò. Sulle natiche nude le spiccavano segni rosa laddove avevano urtato il bordo del sarcofago; lui riuscì quasi a distinguere l’epitaffio del bisnonno impresso sulla pelle bianca e provò un assurdo impulso di ridere. Invece prese Guy per la spalla. «Avanti! Potrebbe essere papà!» Il pensiero mise le ali ai piedi a entrambi e si lanciarono su per le scale, spintonandosi per la fretta.

    Quando uscirono affannosamente dalla porta del vestibolo trovarono Dorian ad aspettarli nascosto fra l’edera che rivestiva il muro.

    «Chi è, Dorry?» ansimò Tom.

    «Black Billy!» esclamò lui in tono stridulo. «Ha appena lasciato le scuderie in sella a Sultan e imboccato il sentiero che sale sulla collina. Sarà qui fra meno di un minuto.»

    Tom eruppe nella sua imprecazione più colorita, imparata da Big Daniel Fisher, il nostromo del padre. «Non deve trovarci qui! Venite!» disse. Dopo che tutti e tre ebbero corso fino al muro di pietra aiutò Dorian a salirvi sopra, poi lui e Guy lo raggiunsero con un balzo e lo tirarono giù nell’erba.

    «Silenzio! Tutti e due!» Tom stava sbuffando per le risate e l’eccitazione.

    «Cos’è successo?» volle sapere Dorian. «Ho visto entrare Mary. L’hai fatto con lei, Guy?»

    «Non sai nemmeno che cos’è» ribatté Guy tentando di eludere la domanda.

    «Lo so, invece» replicò Dorian, indignato. «Ho visto i montoni farlo, e i cani e i galli, e Hercules il toro, così.» Si mise carponi e fornì una grossolana imitazione dell’atto sgroppando e muovendo i fianchi avanti e indietro, spingendo fuori la lingua da un angolo della bocca e strabuzzando orribilmente gli occhi. «È questo che hai fatto a Mary, Guy?»

    Guy arrossì violentemente. «Smettila, Dorian Courtney! Mi hai sentito?»

    Tom proruppe in una sghignazzata gioiosa e spinse la faccia di Dorian sull’erba. «Scimmietta volgare che non sei altro. Scommetto una ghinea che in quello saresti più bravo di Guy, peli o non peli.»

    «Mi lascerai provare, la prossima volta, Tom?» lo implorò il ragazzino, con voce smorzata perché aveva ancora il viso affondato nel terriccio.

    «Ti lascerò provare quando avrai qualcosa di più con cui farlo» ribatté Tom mentre lo tirava su, ma in quel momento sentirono il rumore degli zoccoli di un cavallo che risaliva la collina.

    «Silenzio!» ordinò tra le risatine del fratello, poi rimasero stesi in fila dietro il muro tentando di controllare la respirazione e lo spasso. Sentirono il cavaliere avvicinarsi al piccolo galoppo e poi rallentare a passo d’uomo mentre si avvicinava allo spiazzo ghiaioso davanti all’entrata principale della cappella.

    «State giù!» sussurrò Tom ai fratelli, ma si tolse il cappello piumato e sollevò cautamente la testa per sbirciare da sopra il muro.

    William Courtney era in sella a Sultan. Era un ottimo cavallerizzo e aveva rivelato una predisposizione innata per l’arte equestre, forse un istinto legato alle sue origini africane. Alto e snello, era sempre vestito interamente di nero, motivo per cui i fratellastri gli avevano affibbiato il soprannome che tanto odiava. Di solito portava un cappello nero dall’ampia tesa decorato con un fascio di piume di struzzo, ma quel giorno era a capo scoperto. Anche gli stivali erano neri, così come sella e briglie. Sultan era uno stallone dello stesso colore, strigliato fino a scintillare nella pallida luce del sole e splendido come il suo cavaliere.

    William era palesemente venuto a controllare i preparativi per l’imminente matrimonio, che sarebbe stato celebrato lì invece che nella cappella di famiglia della sposa perché doveva essere seguito da altre importanti cerimonie che potevano svolgersi solo in quella dei cavalieri Nautonnier.

    Si fermò davanti alla porta e si abbassò sulla sella per sbirciare all’interno, poi raddrizzò la schiena e girò lentamente intorno all’edificio fino a raggiungere la porta del vestibolo. Si guardò intorno con cautela, poi fissò direttamente Tom, che rimase impietrito. Lui e i fratelli avrebbero dovuto trovarsi giù alla foce del fiume, ad aiutare Simon e la sua squadra con le reti per i salmoni. I lavoratori itineranti assunti da William per il raccolto venivano sfamati quasi esclusivamente con il salmone; era economico e abbondante, ma loro si lamentavano per la monotonia della dieta.

    I rami frondosi dei meli dovevano avere nascosto Tom allo sguardo acuto del fratello maggiore perché quest’ultimo smontò e legò Sultan all’anello di ferro accanto alla porta. Era fidanzato con la figlia di mezzo dei Grenville. Sarebbe stato un magnifico matrimonio e suo padre aveva negoziato per quasi un anno con John Grenville, il duca di Exeter, prima di giungere a un accordo sulla dote.

    Black Billy non vede l’ora di metterle le mani addosso, pensò Tom, sprezzante, mentre lo guardava fermarsi sui gradini della cappella per togliersi la polvere dai lucidi stivali neri con il pesante frustino dall’anima in piombo che portava sempre con sé. Prima di entrare William guardò ancora una volta verso Tom. La sua pelle non era affatto nera bensì di un color ambra chiaro che lo faceva sembrare più mediterraneo che africano, forse spagnolo o italiano. Ma i capelli erano corvini, folti e scintillanti, scostati dal viso e raccolti in una coda di cavallo con un nastro nero. Vantava un’avvenenza formidabile, pericolosa, con quel naso etiope stretto e sottile e i lampeggianti occhi scuri di un predatore. Tom era invidioso del modo in cui quasi tutte le giovani donne si agitavano irrequiete, in sua presenza.

    Vedendo William scomparire nel vestibolo si alzò rivolgendosi sottovoce ai fratelli. «È entrato! Forza! Torneremo…» Ma prima che potesse concludere la frase dalla cappella giunse un grido. «Mary!» esclamò. «Pensavo fosse scappata, invece quella sciocchina è ancora là dentro!»

    «Black Billy l’ha presa» disse Guy con un fil di voce.

    «Adesso saranno guai!» esclamò allegramente Dorian saltando in piedi per poter vedere meglio il parapiglia. «Cosa pensate che farà?»

    «Non lo so» rispose Tom, «e non aspetteremo di scoprirlo.»

    Prima che potesse guidarli in una precipitosa ritirata giù per la gola, Mary si lanciò fuori dalla porta del vestibolo, il suo terrore palese persino da quella distanza. Stava correndo come se fosse inseguita da un branco di lupi e dopo un attimo William sbucò nella luce del sole, incalzandola.

    «Torna indietro, sgualdrinella!» La sua voce risultò chiaramente udibile anche dietro il muro dove loro tre erano ancora accovacciati. Ma Mary sollevò l’orlo della gonna e cominciò a correre ancora più forte puntando direttamente verso il nascondiglio dei ragazzi.

    Dietro di lei William liberò Sultan e gli salì agilmente in groppa, poi lo lanciò al galoppo raggiungendola in fretta. «Ferma lì, lurida puttanella. Hai sicuramente combinato qualcosa di losco.» Si allungò verso l’esterno brandendo il pesante frustino nella destra. «Ora mi dirai cosa ci fai qui.» Cercò di colpirla ma Mary scappò via e lui girò lo stallone per seguirla. «Non mi sfuggirai, troia.» Stava sorridendo, un sorriso crudele, freddo.

    «Vi prego, padron William» strillò lei, ma lui agitò nuovamente il frustino che sibilò nell’aria e Mary si piegò di scatto sotto il suo arco con l’agilità di un animale braccato. Tornò di corsa verso la cappella zigzagando fra i meli e chinando la testa sotto i rami, con William alle calcagna.

    «Avanti!» sussurrò Guy. «Questa è la nostra occasione.» Balzò in piedi e si lanciò giù per la ripida parete della gola seguito da Dorian, mentre Tom rimaneva accosciato accanto al muro osservando orripilato il fratello che raggiungeva la ragazza in fuga e si drizzava sulle staffe.

    «Ti insegnerò ad ascoltarmi quando ti dico di fermarti.» Abbassò di nuovo il frustino e stavolta la colpì fra le scapole. Mary lanciò un urlo più acuto, colmo di sofferenza e terrore, e stramazzò sull’erba.

    Quello strillo causò un brivido freddo lungo la spina di dorsale di Tom e gli fece stringere i denti. «Non farlo!» disse ad alta voce, ma William non lo sentì.

    Smontò da cavallo e rimase fermo sopra la ragazza. «Cosa stavi combinando, sudiciona?»

    Mary era caduta a terra in un groviglio di sottovesti, gonna e gambe nude, ma quando lui sferrò una nuova frustata verso il suo pallido viso terrorizzato sollevò un braccio di scatto parando il colpo, che lasciò una piaga di un brillante rosso scarlatto. La ragazza piagnucolò e si dimenò per il dolore.

    «Vi prego, non fatemi del male, padron William.»

    «Ti picchierò finché non sanguini e non mi dici cosa stavi facendo nella cappella quando dovresti essere nel retrocucina con le tue pentole unte.» William sorrideva con disinvoltura, divertito.

    «Non ho fatto niente di male, signore.» Lei abbassò le mani per implorarlo e poi non riuscì a sollevarle abbastanza in fretta per parare la sferzata successiva che la centrò in pieno volto. Urlò e il sangue le affluì nella guancia gonfia rendendola scarlatta. «Vi prego. Vi prego, non colpitemi più.» Nascose il volto fra le mani e rotolò sull’erba cercando di allontanarsi da lui, ma la gonna rimase bloccata sotto il suo corpo.

    William sorrise di nuovo quando vide che, sotto, Mary era nuda e sferrò con gusto la frustata seguente sulla morbida pelle bianca delle natiche. «Cosa stavi rubando, cagna? Cosa ci facevi lì dentro?» La sferzò di nuovo lasciandole una piaga scarlatta dietro le cosce.

    Il grido di Mary colpì Tom con la stessa crudeltà con cui il frustino le aveva flagellato la carne. «Lasciala stare, Billy, dannazione a te» disse di getto, assalito da un soverchiante senso di responsabilità e di compassione per la ragazza torturata. Prima di avere anche solo pensato a cosa stava facendo scavalcò il muro e corse in suo aiuto.

    William non lo sentì arrivare, assorbito com’era dall’acuto e inatteso piacere che gli procurava punire quella sgualdrinella. La visione dei segni rossi sulla pelle bianca, le membra nude che si dimenavano, gli strilli disperati, l’odore animalesco del corpo non lavato lo eccitavano profondamente. «Cosa stavi combinando?» urlò. «Vuoi dirmelo oppure devo strappartelo di bocca a forza di frustate?» Riuscì a stento a trattenere la risata mentre le lasciava una piaga di un rosso scarlatto sulle spalle nude e osservava i muscoli contrarsi per il dolore sotto la pelle morbida.

    Tom gli si lanciò contro da dietro. Era un ragazzo robusto per la sua età, non molto più basso o leggero del fratello maggiore, inoltre era rinvigorito dallo sdegno e dall’odio, dall’ingiustizia e dalla crudeltà di ciò a cui aveva appena assistito, dal ricordo di un migliaio di percosse e oltraggi che lui e i fratelli avevano subito per mano di Black Billy. E stavolta godeva del vantaggio della sorpresa.

    Colpì William nelle reni proprio mentre era in equilibrio su un piede solo, sul punto di dare un calcio alla ragazza per costringerla ad assumere una posizione più adatta a ricevere la sferzata successiva. Fu scagliato in avanti con una forza tale che inciampò sopra la sua vittima e piombò lungo disteso sull’erba, rotolò un’unica volta e finì con la testa contro il tronco di un melo. Rimase steso lì, stordito.

    Tom si piegò e tirò in piedi Mary che tremava e piagnucolava. «Scappa!» le disse. «Più in fretta che puoi!» Le diede una spinta. Lei non aveva certo bisogno di sollecitazioni e si lanciò giù per il sentiero, sempre piangendo e gemendo, mentre lui si voltava ad affrontare l’ira del fratello.

    William si mise seduto sull’erba. Non aveva ancora capito bene chi o cosa lo avesse steso. Si toccò il cuoio capelluto, spingendo due dita fra gli ondulati capelli scuri, e le estrasse sporche di sangue a causa del taglio che si era procurato finendo contro l’albero. Poi scosse il capo e si alzò. Guardò Tom. «Tu!» mormorò in tono quasi affabile. «Avrei dovuto capire che c’eri tu dietro questa ribalderia.»

    «Lei non ha fatto niente.» Tom era ancora troppo furibondo per pentirsi del proprio impulso. «Avresti potuto ferirla gravemente.»

    «Sì» concordò William, «era quello il mio scopo. Se l’è ampiamente meritato.» Si chinò a raccogliere il frustino. «Ma ora che lei se n’è andata sarai tu quello che ferirò gravemente, e ricaverò il massimo piacere dal fare il mio dovere.»

    Fece sciabolare a destra e a sinistra il frustino appesantito, che emise un ronzio minaccioso nell’aria. «Ora dimmi, fratellino, a che gioco stavate giocando tu e quella puttanella? Era qualcosa di indecente e sconcio di cui nostro padre dovrebbe essere informato? Dimmelo subito, prima che debba tirartelo fuori a frustate.»

    «Prima ti vedrò bruciare all’inferno!» Era una delle espressioni preferite del padre ma, a dispetto della sua baldanza, Tom stava rimpiangendo amaramente l’impulso cavalleresco che lo aveva portato a quello scontro diretto. Ora che non poteva più contare sull’elemento sorpresa sapeva di essere in netto svantaggio. I talenti del fratello maggiore non si limitavano allo studio. A Cambridge William aveva fatto parte della squadra di lotta del King’s College, e quello della lotta libera era uno sport senza regole, a parte il non vedere di buon occhio l’uso di armi letali. Alla fiera di Exmouth della primavera precedente Tom lo aveva visto gettare a terra e tenervi bloccato il campione locale, un autentico toro, dopo averlo preso a calci e pugni fino a ridurlo quasi all’incoscienza.

    Valutò l’ipotesi di voltarsi e fuggire ma sapeva che William, con quelle lunghe gambe, lo avrebbe raggiunto dopo meno di cento iarde persino con gli stivali da equitazione. Non c’erano alternative. Si mise in posizione e alzò le mani strette a pugno, come gli aveva insegnato Big Daniel.

    William gli rise in faccia. «Per tutti i santi, il galletto vuole combattere.» Lasciò cadere il frustino e tenne le mani accanto ai fianchi mentre gli si avvicinava lentamente. A un tratto sferrò un destro violento, senza alcun preavviso. Tom riuscì a saltare indietro solo per un soffio ma fu colpito di striscio al labbro, che si gonfiò e gli fece subito sentire in bocca il gusto salato del sangue. I suoi denti si macchiarono come se avesse appena mangiato dei lamponi.

    «Ecco fatto! La prima goccia di chiaretto versata. Ce ne saranno altre, te lo assicuro, una botte intera prima che finiamo.» William fece una finta con la mano destra e quando lui la evitò gli sferrò un gancio alla testa con l’altra. Tom lo parò come gli aveva insegnato Big Daniel e il fratello sorrise. «La scimmia ha imparato qualche trucco.» Strinse però gli occhi: non se l’era aspettato. Sferrò un altro sinistro e Tom si abbassò di scatto per evitarlo e poi gli serrò il gomito in una disperata morsa a due mani. William si ritrasse d’istinto e lui sfruttò lo slancio per gettarsi in avanti invece di opporre resistenza e al contempo sferrò una serie di calci sfrenati. Ancora una volta sorprese il fratello sbilanciato e lo centrò all’inguine con uno dei suoi calci volanti. Il fiato uscì dai polmoni di William con un sibilo sofferente e lui si piegò in due per artigliarsi con entrambe le mani le parti colpite. Tom ruotò su se stesso e si catapultò sul sentiero che portava verso la villa.

    William, pur avendo ancora il viso olivastro contorto per il dolore, quando vide il fratello minore scappare raddrizzò la schiena, si costrinse a ignorare la sofferenza e si lanciò all’inseguimento. Per quanto rallentato dal male, cominciò a guadagnare inesorabilmente terreno.

    Non appena Tom sentì avvicinarsi i passi di corsa si voltò a guardare dietro di sé e perse una iarda di vantaggio. Udiva l’altro grugnire e gli sembrò di sentire il suo fiato sul collo. Non aveva via di scampo, non poteva fuggire da William, così si gettò a terra e si raggomitolò a formare una palla.

    William gli era ormai talmente vicino e procedeva così spedito che non riuscì a fermarsi. L’unico modo in cui poteva evitare il fratello era superarlo con un salto e lo fece senza problemi, ma Tom rotolò fino a mettersi supino al centro del sentiero fangoso, poi allungò le mani verso l’alto per afferrargli la caviglia mentre lui era a mezz’aria. Vi si aggrappò con la forza del terrore e William cadde a terra, bocconi. Per un attimo fu del tutto inerme e Tom, rialzatosi affannosamente, era sul punto di darsi di nuovo alla fuga quando la rabbia e l’odio presero il sopravvento sul buonsenso.

    Vide Black Billy riverso nel fango e la tentazione fu irresistibile: per la primissima volta in vita sua aveva il fratello maggiore alla sua mercé. Spinse la gamba destra il più indietro possibile e gli sferrò un calcio su un lato della testa, davanti all’orecchio, ma non ottenne il risultato sperato: invece di indebolirsi, William emise un ruggito di rabbia e gli ghermì la gamba con entrambe le mani scagliandolo fra le felci accanto al sentiero, poi si rimise in piedi e gli si lanciò sopra senza lasciargli il tempo di riprendersi.

    Gli si sedette a cavalcioni sul petto e si piegò in avanti per tenergli bloccati i polsi sopra la testa. Tom, immobilizzato, riusciva a stento a respirare mentre tutto il peso di William gli premeva sulle costole. L’altro stava ancora ansimando affannosamente ma ricominciò ben presto a respirare in modo quasi normale e a sorridere: un sorriso contorto, addolorato.

    «Pagherai caro il tuo divertimento, cucciolo. Lo pagherai molto caro, te lo assicuro» sussurrò. «Aspetta solo che io riprenda fiato e poi concluderemo la faccenda.» Il sudore gli colò dal mento sul viso di Tom.

    «Ti odio!» gli sibilò Tom. «Ti odiamo. I miei fratelli, chiunque lavori qui, chiunque ti conosca… ti odiamo tutti.»

    William gli lasciò andare di colpo un polso e gli sferrò un violento manrovescio in pieno volto.

    «Per tutti questi anni ho cercato di insegnarti le buone maniere» disse dolcemente, «eppure non impari mai.»

    Tom, pur avendo le lacrime agli occhi per il dolore, riuscì a raccogliere della saliva in bocca e a sputarla contro il volto sopra di lui. Centrò il mento di William ma quest’ultimo non vi badò. «Mi vendicherò, Black Billy!» promise con un sussurro sofferente. «Un giorno mi vendicherò.»

    «No» replicò William scuotendo il capo. «Non credo.» Sorrise. «Hai mai sentito parlare della legge di primogenitura, scimmietta?» Gli diede un altro violento schiaffo su un lato della testa. Gli occhi di Tom si fecero vitrei e il sangue gli comparve sotto una narice. «Rispondimi, fratello.» William lo colpì di nuovo, con l’altra mano, scagliandogli la testa da una parte. «Sai cosa significa?» Gli diede un altro schiaffo, con la destra. «Rispondi, bellezza.»

    Lo colpì con la destra, poi con la sinistra e di nuovo con la destra, e i ceffoni assunsero un ritmo regolare. Sciaff, con la destra. Sciaff, con la sinistra. La testa di Tom rotolava mollemente da una parte all’altra. Lui cominciava a perdere conoscenza e la sequela di colpi non rallentava.

    «La primogenitura…» Sciaff! «… è il…» Sciaff! «… diritto…» Sciaff! «… del…» Sciaff! «… fratello maggiore.» Sciaff!

    Il colpo seguente arrivò da dietro Black Billy. Dorian li aveva seguiti giù per il sentiero e aveva visto cosa stava succedendo al suo fratello preferito. Gli schiaffi che si abbattevano su Tom facevano altrettanto male a lui. Si era guardato intorno disperatamente in cerca di un’arma notando un ammasso di rami caduti lungo il ciglio del sentiero. Ne aveva preso uno spesso come il suo polso e lungo come il suo braccio per poi raggiungere di soppiatto William alle spalle. Aveva avuto il buonsenso di non fornire alcun preavviso su quanto si accingeva a fare, limitandosi a sollevare sopra la testa il ramo stretto con entrambe le mani. Si era interrotto per prendere la mira, aveva radunato le forze e poi lo aveva calato sulla testa di William con una forza tale che il bastone gli si era spezzato in mano.

    Black Billy si portò le mani alla testa e rotolò giù dal petto di Tom. Guardò su verso Dorian e lanciò un urlo. «L’intera nidiata puzzolente!» Si alzò in piedi e oscillò con passo malfermo. «Persino il cucciolo più giovane.»

    «Lascia stare mio fratello» gli intimò Dorian, pallido di terrore.

    «Scappa, Dorry!» gracchiò Tom, intontito e ancora steso fra le felci, senza avere la forza di mettersi seduto. «Ti ucciderà. Scappa!»

    Ma Dorian rimase dov’era. «Lascialo stare» disse.

    William fece un passo verso di lui. «Sai che tua madre era una puttana, Dorry.» Sorrise con aria conciliante e gli si avvicinò di un altro passo staccando le mani dalla testa lesionata. «Questo fa di te un figlio di puttana.»

    Dorian non sapeva bene cosa fosse una puttana ma replicò furiosamente: «Non devi parlare in quel modo di mia mamma». Suo malgrado fece un passo indietro mentre l’altro avanzava minaccioso.

    «Un cocco di mamma» lo schernì William. «Be’, la tua mamma puttana è morta, cocco.»

    A Dorian si riempirono gli occhi di lacrime. «Non dire così! Ti odio, William Courtney.»

    «Anche tu devi imparare un po’ di buone maniere, piccolo Dorry.» Black Billy allungò le mani di scatto e gli strinse il collo, poi lo sollevò agevolmente da terra mentre scalciava e artigliava l’aria con le mani. «Sono le buone maniere a fare un uomo» disse mentre lo spingeva contro il tronco del faggio sotto cui si trovavano. «Devi imparare, Dorry.» Gli premette accuratamente i pollici sulla trachea osservandogli la faccia, guardandola gonfiarsi e diventare violacea. Dorian picchiò inutilmente i talloni contro il tronco e artigliò le mani del fratello maggiore lasciandogli segni rossi sulla pelle, ma non emise alcun suono.

    «Un nido di vipere» disse William. «Ecco cosa siete, aspidi e vipere. Dovrò eliminarvi.»

    Tom si tirò su dalle felci e strisciò fino a lui afferrandogli le gambe. «Ti prego, Billy! Mi dispiace. Picchia me. Lascia stare Dorry. Ti prego, non fargli male. Non diceva sul serio.»

    William lo spinse via con un calcio continuando a tenere bloccato contro l’albero il bambino, i cui piedi si stavano agitando a più di due spanne da terra.

    «Il rispetto, Dorry, devi imparare il rispetto.» Allentò la pressione dei pollici e gli permise di trarre un unico respiro, poi ricominciò a premere. La lotta silenziosa di Dorian divenne spasmodica.

    «Prendi me!» lo implorò Tom. «Lascia stare Dorry. Ne ha avuto abbastanza.» Si alzò reggendosi al tronco del faggio. Tirò la manica di William.

    «Tu mi hai sputato in faccia» disse l’altro in tono tetro, «e questa viperetta ha cercato di sfondarmi il cranio. Adesso puoi guardarlo mentre soffoca.»

    «William!» Un’altra voce, resa brusca dallo sdegno, risuonò a breve distanza da lui. «A che gioco credi di giocare, in nome del demonio?» Un forte colpo si abbatté sulle braccia protese di William, che lasciò cadere il bambino sul terreno fangoso e si girò rapido verso il padre.

    Hal Courtney aveva usato il fodero della spada per costringerlo a lasciar andare il fratellino e adesso sembrava sul punto di usarlo per gettarlo a terra.

    «Sei impazzito? Cosa stai facendo a Dorian?» chiese, la voce che tremava di rabbia.

    «Lui doveva essere… era solo un gioco, padre. Stavamo giocando.» La rabbia di William era miracolosamente evaporata e lui appariva contrito. «Non si è fatto male. Stavamo solo scherzando.»

    «L’hai quasi ucciso» ringhiò Hal, poi posò un ginocchio a terra per sollevare il figlio più giovane dal fango. Se lo strinse delicatamente al petto e Dorian gli premette il viso sul collo e singhiozzò, tossì e rantolò per riprendere fiato. Sulla morbida pelle della gola spiccavano i segni scarlatti lasciati dalle dita di William e il volto era chiazzato di lacrime. Hal Courtney guardò il figlio maggiore in cagnesco. «Non è la prima volta che parliamo di un tuo comportamento rude con i fratelli minori. Per Dio, William, ne discuteremo ancora, stasera dopo cena, in biblioteca. Ora levati dalla mia vista prima che io perda il controllo.»

    «Sì, signore» replicò William mite, poi cominciò a risalire il sentiero che portava alla cappella, ma andandosene lanciò a Tom un’occhiata che gli fece capire chiaramente che la questione era ben lungi dall’essere conclusa.

    «Cosa ti è successo, Tom?» Hal lo guardò.

    «Niente, padre» rispose lealmente lui. «Non è niente.» Si pulì il naso insanguinato con la manica. Fare la spia, persino su un avversario odiato come Black Billy, avrebbe significato violare il suo codice d’onore.

    «Allora cosa è successo per farti sanguinare il naso e renderti la faccia gonfia e rossa come una mela matura?» chiese Hal in tono burbero ma gentile per metterlo alla prova.

    «Sono caduto» disse Tom.

    «So che a volte puoi essere uno zuccone imbranato, Tom, ma sei sicuro che non ti abbia spinto qualcuno?»

    «Se l’ha fatto, la cosa riguarda solo lui e me, signore.» Tom si drizzò in tutta la sua statura per nascondere dolori e lesioni.

    Hal gli cinse la spalla con un braccio mentre con l’altro si teneva stretto al petto Dorian. «Venite, ragazzi, torniamo a casa» disse. Li condusse al limitare del bosco dove aveva lasciato il cavallo e sistemò Dorian sul collo dell’animale prima di montare in sella dietro di lui. Infilò i piedi nelle staffe, poi abbassò una mano per prendere Tom per un braccio e issarlo dietro di sé.

    Tom gli cinse la vita con le braccia e gli premette sulla schiena il viso gonfio e tumefatto. Adorava il tepore e l’odore del corpo paterno, la sua durezza e la sua forza che lo facevano sentire al sicuro. Avrebbe voluto piangere ma ricacciò indietro le lacrime. Non sei un bambino, si disse. Dorry può piangere ma tu no.

    «Dov’è Guy?» chiese suo padre senza voltarsi a guardarlo.

    Tom fu sul punto di rispondere: È scappato ma trattenne quelle parole sleali prima che gli uscissero di bocca. «Credo sia andato a casa.»

    Hal continuò a cavalcare in silenzio sentendo i due corpi tiepidi premuti con gratitudine contro di sé e soffrendo per loro perché sapeva che entrambi erano feriti. Eppure lo attanagliava un senso di rabbiosa impotenza. Non era certo la prima volta che veniva risucchiato in quel primordiale conflitto tra fratelli, tra i figli delle sue tre mogli. Sapeva che si trattava di una gara in cui il più giovane era nettamente sfavorito e il cui risultato finale poteva essere soltanto uno.

    Si accigliò, esasperato. Non aveva ancora quarantadue anni – William era nato quando ne aveva solo diciotto – eppure si sentiva vecchio e oberato dalle preoccupazioni quando veniva messo di fronte al subbuglio dei quattro figli. Il problema era che amava William quanto il piccolo Dorian, se non di più.

    William era il suo primogenito, il figlio della sua Judith, la fiera e bellissima guerriera dell’Africa che lui aveva amato con profonda soggezione e passione. Quando era morta sotto gli zoccoli del suo stallone imbizzarrito aveva lasciato un vuoto doloroso nell’esistenza di Hal e per molti anni non c’era stato nulla a colmarlo se non il bellissimo bimbo che si era lasciata dietro.

    Hal lo aveva cresciuto, gli aveva insegnato a essere forte e resiliente, in gamba e ingegnoso. Adesso William era tutte quelle cose, e non solo. E aveva qualcosa della selvatichezza e della crudeltà del continente oscuro e misterioso che nulla poteva domare. Hal temeva la cosa eppure, se doveva essere sincero, non avrebbe voluto che la situazione fosse diversa. Lui stesso era un uomo duro, spietato, quindi come avrebbe potuto disapprovare quelle doti nel suo stesso primogenito?

    «Padre, cosa significa primogenitura?» chiese di colpo Tom, la voce smorzata dal mantello di Hal.

    La domanda era così strettamente legata alle riflessioni di suo padre che quest’ultimo trasalì. «Dove hai sentito quella parola?» domandò.

    «Da qualche parte» bofonchiò Tom, «non ricordo dove.»

    Hal riusciva benissimo a immaginare dove ma preferì non insistere con il ragazzo, che per quel giorno era già stato maltrattato abbastanza. Tentò invece di rispondere equamente alla domanda, perché ormai Tom era cresciuto. Per lui era arrivato il momento di imparare quali difficoltà gli riservava la vita, visto che era un fratello minore.

    «Primogenitura indica il diritto del primo nato.»

    «Billy» mormorò Tom.

    «Sì, Billy» confermò schiettamente Hal. «In base alla legge inglese lui seguirà le mie orme. Ha la precedenza su tutti i fratelli minori.»

    «Noi» disse Tom con un pizzico di amarezza.

    «Sì, voi» replicò Hal. «Quando non ci sarò più tutto questo sarà suo.»

    «Quando sarete morto, intendete dire» intervenne Dorian con una logica inconfutabile.

    «Proprio così, Dorry, quando sarò morto.»

    «Non voglio che voi moriate» gemette lui, la voce ancora arrochita dalla gola dolorante. «Promettetemi che non morirete mai, padre.»

    «Vorrei poterlo fare, ragazzo, ma non posso. Tutti moriremo, un giorno.»

    Dorian rimase in silenzio per un attimo. «Ma non domani?»

    Hal ridacchiò sommessamente. «Non domani. Non per parecchi giorni, se solo riesco a evitarlo. Ma un giorno succederà, succede sempre.» Immaginò quale sarebbe stata la domanda seguente.

    «E quando succederà, Billy diventerà Sir William» dichiarò Tom. «È questo che state cercando di dirci.»

    «Sì. Erediterà il titolo di baronetto ma non solo, erediterà anche tutto il resto.»

    «Tutto il resto? Non capisco» ribatté Tom staccando la testa dalla schiena paterna. «Vi riferite a High Weald? La villa e i terreni?»

    «Sì. Apparterrà tutto a Billy. La tenuta, le terre, la villa, i soldi.»

    «Non è giusto» esclamò Dorian. «Perché non possono ricevere qualcosa anche Tom e Guy? Sono molto più gentili di Billy. Non è giusto.»

    «Forse no, ma è questo che prescrive la legge inglese.»

    «Non è giusto» insistette Dorian. «Billy è crudele e orribile.»

    «Se vivi aspettandoti che la vita sia giusta avrai parecchie tristi delusioni, ragazzo mio» mormorò Hal stringendolo a sé. Vorrei tanto poter cambiare le cose per te, pensò.

    «Quando sarete morto Billy non ci lascerà rimanere qui a High Weald, ci manderà via.»

    «Non puoi esserne sicuro» protestò Hal.

    «Sì che posso» asserì Tom, convinto. «Me l’ha detto lui, e diceva sul serio.»

    «Ti farai strada in maniera autonoma, Tom. Ecco perché devi essere intelligente e forte, ecco perché a volte sono duro con te, più di quanto non lo sia mai stato con William. Devi imparare a cavartela da solo, dopo che me ne sarò andato.» Hal si interruppe. Poteva spiegare la cosa ai figli quando erano ancora così giovani? Doveva tentare, glielo doveva. «La legge della primogenitura ha contribuito a rendere grande l’Inghilterra. Se ogni volta che qualcuno muore le sue terre venissero spartite fra i suoi figli ben presto l’intero paese sarebbe suddiviso in minuscoli e inutili appezzamenti, incapaci di sfamare anche un’unica famiglia, e noi diventeremmo una nazione di contadini e poveri.»

    «Allora cosa faremo?» chiese Tom. «Cosa faranno quelli fra noi che verranno cacciati?»

    «Potreste entrare nell’esercito, in marina o nella Chiesa. Potreste viaggiare per il mondo in veste di mercanti o coloni e tornare dai suoi angoli remoti, dai confini degli oceani, con tesori e ricchezze ancora più grandi di quelli che William erediterà quando morirò.»

    I due ragazzi ci pensarono su a lungo. «Diventerò un marinaio come voi, padre. Navigherò fino al limite degli oceani, come avete fatto voi» annunciò alla fine Tom.

    «E io verrò con te, Tom» disse Dorian.

    * * *

    Seduto nel primo banco della cappella di famiglia, Hal Courtney aveva tutti i motivi per sentirsi soddisfatto di sé e del mondo che lo circondava. Guardò il primogenito fermo accanto all’altare, in attesa, mentre la musica dell’organo riempiva il piccolo edificio con il suo suono gioioso. William appariva straordinariamente bello e affascinante con l’abbigliamento scelto per le nozze. Per una volta aveva rinunciato ai tetri indumenti neri. Il suo colletto era fatto del più pregiato pizzo fiammingo, sul panciotto di velluto verde erano ricamati cervi dorati. Il pomo della sua spada era ornato di corniole e lapislazzuli. Anche la maggior parte delle donne presenti nella congregazione lo stava guardando, le più giovani che ridacchiavano e parlavano di lui sottovoce.

    Non potrei chiedere di più, in un figlio, si disse Hal. William aveva dimostrato il proprio valore come atleta e come studioso. Il suo tutor a Cambridge ne aveva lodato l’industriosità e la capacità di apprendimento, e lui era diventato celebre come lottatore, cavaliere e falconiere. Tornato a High Weald dopo gli studi, si era rivelato anche un ottimo amministratore e imprenditore. Gradualmente Hal gli aveva concesso un sempre maggiore controllo sulla gestione della tenuta e delle miniere di stagno e ormai aveva quasi smesso di sovrintendere alla gestione quotidiana delle proprietà di famiglia. Se c’era qualcosa che lo metteva a disagio era che William si rivelava spesso troppo duro nel negoziare, troppo spietato nel trattare coloro che lavoravano per lui. Più di una volta nella miniera erano morti uomini che avrebbero potuto salvarsi se ci si fosse preoccupati un po’ di più della loro sicurezza e si fossero spesi un po’ più soldi per migliorare i pozzi e l’estrazione. Eppure negli ultimi tre anni i profitti delle miniere e della tenuta erano quasi raddoppiati, il che era una prova sufficiente della competenza del giovane.

    E ora William stava per contrarre quel matrimonio sfavillante. Naturalmente era stato Hal a indirizzarlo verso Lady Alice Grenville, ma William l’aveva corteggiata e nel volgere di brevissimo tempo l’aveva fatta innamorare di lui a tal punto che lei aveva convinto il padre dell’appropriatezza di quell’unione, a dispetto dell’iniziale riluttanza dell’uomo. In fondo William Courtney non era nobile.

    Hal lanciò un’occhiata verso il duca, seduto nel primo banco dall’altra parte della navata. John Grenville aveva dieci anni più di lui, era snello e portava abiti semplici che mal si adattavano a uno dei maggiori proprietari terrieri d’Inghilterra. I suoi occhi scuri dalle palpebre pesanti spiccavano nel malsano pallore del viso. Accorgendosi che Hal lo guardava annuì con un’espressione né cordiale né ostile, benché fossero volate parole sgarbate quando si era giunti alla questione della dote di Alice. Alla fine lei portava con sé la proprietà delle tenute agricole di Gainesbury, più di mille acri di terreno, oltre alle miniere di stagno di East e South Rushwold. La richiesta di stagno sembrava insaziabile, negli ultimi tempi, e Rushwold era attigua alle miniere Courtney che William stava amministrando con tanta efficienza. Gestirle insieme avrebbe consentito di aumentare la produzione e abbassare i costi dell’estrazione del prezioso materiale. E la dote di Alice non si limitava a quello. L’ultima cosa che Hal aveva ottenuto blandendo il duca lo colmava di soddisfazione quanto il resto: il pacchetto di titoli della Compagnia delle Indie Orientali inglese, dodicimila azioni ordinarie con pieno diritto di voto. Lui era già un azionista di maggioranza e un direttore della Compagnia ma quelle nuove azioni avrebbero accresciuto il suo potere di voto e lo avrebbero reso uno dei membri più influenti della corte dei direttori dopo il governatore, Nicholas Childs.

    Sì, aveva tutti i motivi di sentirsi compiaciuto. Allora cos’era quella strana sensazione, come se gli fosse finito un granello di sabbia in un occhio, che minava la sua contentezza? Talvolta, quando cavalcava lungo le scogliere e osservava il freddo mare grigio, rammentava le tiepide acque azzurre dell’oceano delle Indie. Spesso, quando faceva volare un falco e lo guardava sbattere rapidamente le ali contro il cielo, ricordava il cielo più alto e azzurro dell’Africa. Ogni tanto, la sera, prendeva le sue carte dagli scaffali della biblioteca e le esaminava per ore leggendo le annotazioni da lui scritte due decenni prima e sognando le colline azzurrognole dell’Africa, le sue spiagge bianche e i suoi fiumi possenti.

    Una notte, poco tempo prima, si era svegliato madido di sudore e confuso da un sogno in cui aveva rivissuto nitidamente quei tragici avvenimenti. L’incantevole fanciulla dalla pelle dorata, il suo primo vero amore, era stata di nuovo con lui, nuovamente fra le sue braccia, moribonda.

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1