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Il settimo papiro
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E-book809 pagine15 ore

Il settimo papiro

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Info su questo ebook

Un tesoro leggendario. Una sfida all'ultimo respiro.


Un'adrenalinica caccia al tesoro scandita da misteriosi enigmi e micidiali colpi di scena.
Un'indimenticabile avventura archeologica costruita con maestria, in una nuova traduzione.


Scampata per miracolo a una vile aggressione che è costata la vita al marito, la giovane archeologa anglo-egiziana Royan Al Simma decide di onorare la promessa che gli ha fatto in punto di morte e di continuare il lavoro cui entrambi hanno dedicato tanti anni di impegno e sacrificio: decifrare gli indizi che il leggendario architetto Taita ha affidato al settimo papiro e trovare la tomba del faraone Mamose VIII e il favoloso tesoro che custodisce. Ad aiutarla in quella che è diventata la sua unica ragione di vita è l'eccentrico Nicholas Quenton-Harper, un ricco aristocratico che condivide con lei la passione per l'Antico Egitto.
Ma gli uomini che hanno assassinato Duraid non hanno ancora finito. Mentre Royan e Nicholas, indizio dopo indizio, si avvicinano alla soluzione del mistero, i loro nemici tramano nell'ombra. E si tratta di gente priva di scrupoli, disposta a tutto pur di impadronirsi delle immense ricchezze del faraone…

LinguaItaliano
Data di uscita16 lug 2020
ISBN9788830514850
Il settimo papiro
Autore

Wilbur Smith

Considerato l’indiscusso maestro dell’avventura, è nato nel 1933 in Africa centrale e si è spento il 13 novembre 2021. Ha pubblicato più di quaranta titoli, tradotti in ventisei lingue, fra cui il ciclo ambientato nell'Antico Egitto e le celebri serie dedicate ai Courtney, ai Ballantyne e a Hector Cross. Nel 2015 ha fondato la Wilbur & Niso Smith Foundation, che promuove la cultura e la narrativa d'avventura. Fiore all'occhiello della fondazione è il prestigioso Wilbur Smith Adventure Writing Prize.

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    Anteprima del libro

    Il settimo papiro - Wilbur Smith

    Dal deserto si allargò un’ombra viola ad ammantare le dune, come un pesante drappo di velluto che copriva ogni suono, portando calma e silenzio al calare della sera.

    Dall’alto della duna guardarono l’oasi e il reticolo di villaggi che la circondava. Gli edifici erano bianchi, con i tetti piatti, e le palme da dattero li sovrastavano tutti, a eccezione della moschea islamica e della chiesa cristiana copta. I due bastioni della fede si fronteggiavano dalle rive opposte del lago.

    L’acqua si stava scurendo. Uno stormo di anatre scese rapido a posarsi, sollevando qualche schizzo di schiuma bianca contro i canneti.

    L’uomo e la donna erano una coppia disparata. Lui era alto, anche se leggermente curvo, i capelli brizzolati accesi dagli ultimi raggi di sole. Lei era giovane, poco più di trent’anni, snella, attenta, vibrante. Aveva una massa di capelli ricci, raccolti sulla nuca con un cordino.

    «È ora di scendere. Alia ci starà aspettando.» Le sorrise con calore. Era la sua seconda moglie. Quando la prima era morta, aveva pensato che avesse portato via il sole con sé. Non si era aspettato quell’ultimo periodo di gioia nella vita. E invece adesso aveva lei, e il lavoro. Era un uomo felice e appagato.

    All’improvviso si staccò da lui e si sciolse i capelli. Agitò quella cascata scura e abbondante, ridendo. Era un bel suono. Poi si lanciò dal ripido versante sottovento della duna, la lunga gonna svolazzante intorno alle gambe svelte. Erano tornite e abbronzate. Riuscì a mantenere l’equilibrio fino a metà strada, quando la gravità ebbe la meglio e la fece inciampare.

    Dalla cima lui le sorrise indulgente. A volte era ancora una bambina. Altre una donna seria e composta. Non era sicuro di quale fosse la sua preferita, ma la amava in entrambi i casi. Lei fermò il capitombolo ai piedi della duna e si mise a sedere, senza smettere di ridere, scuotendo i capelli per togliere la sabbia.

    «Adesso tocca a te!» gli gridò. Lui la seguì con più contegno, nei movimenti la leggera rigidità dell’età matura, e mantenne l’equilibrio fino in fondo. La aiutò ad alzarsi. Non la baciò, anche se la tentazione era forte. Gli arabi non usavano manifestare pubblicamente il loro affetto, neanche verso una moglie adorata.

    Lei si sistemò gli abiti e raccolse di nuovo i capelli prima di avviarsi con lui verso il villaggio. Aggirarono i canneti dell’oasi e attraversarono le passerelle malferme sopra i canali di irrigazione. Mentre passavano, i contadini di ritorno dai campi lo salutarono con profondo rispetto.

    «Salaam aleikum, Doktari! La pace sia con voi, dottore.» Rendevano onore a tutti gli uomini istruiti, ma a lui in particolare per la gentilezza dimostrata a loro e alle loro famiglie nel corso degli anni. Molti avevano lavorato per suo padre prima di lui. Il fatto che la maggior parte fossero musulmani, mentre lui era cristiano, non aveva molta importanza.

    Quando arrivarono alla villa Alia, la vecchia governante, li accolse con mugugni e occhiatacce. «Siete in ritardo, sempre in ritardo. Perché non fate una vita regolare, come le persone perbene? Abbiamo una reputazione da mantenere.»

    «Hai sempre ragione, anziana madre» rispose lui canzonandola con dolcezza. «Che cosa faremmo se non ci fossi tu a occuparti di noi?» La congedò, mentre ancora accigliata nascondeva l’affetto e la preoccupazione nei suoi confronti.

    Consumarono il pasto leggero sulla terrazza, insieme: datteri, olive, pane azzimo e formaggio di capra. Quando terminarono era buio, ma le stelle del deserto brillavano come candele.

    «Royan, fiore mio.» Allungò una mano sul tavolo per toccarle la mano. «È ora di mettersi al lavoro.» Si alzò e la accompagnò allo studio che si apriva sulla terrazza.

    Royan Al Simma si diresse subito verso la grande cassaforte contro la parete di fondo e inserì la combinazione. La cassaforte sembrava fuori posto in quella stanza, fra i libri antichi e i papiri, le statue millenarie, i manufatti e i reperti delle tombe che costituivano la collezione accumulata con il lavoro di una vita.

    Quando il pesante battente di acciaio si spalancò, Royan arretrò per un momento. Ogni volta che posava lo sguardo su quella reliquia del passato, anche dopo un intervallo di poche ore, sentiva sempre un brivido di meraviglia.

    «Il settimo papiro» sussurrò, e si preparò a toccarlo. Aveva quasi quattromila anni ed era stato scritto da un genio al di sopra della storia, un uomo ormai ridotto in polvere da millenni ma che aveva imparato a conoscere e rispettare quanto il proprio marito. Le sue parole erano eterne e le parlavano chiaramente dall’aldilà, dai campi del paradiso, dalla presenza della santa trinità, Osiride Iside e Horus, alla quale era stato così devoto. Quanto lei era devota a un’altra trinità, più recente.

    Portò il papiro al lungo tavolo al quale Duraid, suo marito, stava già lavorando. Quando glielo mise davanti lui alzò gli occhi e per un momento Royan colse lo stesso sguardo mistico che aveva avuto anche lei poco prima. Voleva sempre il papiro sul tavolo, anche quando non ce n’era un reale bisogno. Avrebbe potuto lavorare con le fotografie e il microfilm. Ma era come se, mentre studiava i testi, avesse bisogno di avere accanto la presenza invisibile dell’antico autore.

    Il momento si esaurì in breve e Duraid tornò a essere lo scienziato distaccato di sempre. «Fiore mio, i tuoi occhi sono più acuti» le disse. «Come interpreti questo segno?»

    Lei si chinò sopra la sua spalla e osservò sulla foto del papiro il geroglifico che lui le aveva indicato. Rifletté per un momento, poi prese la lente d’ingrandimento dalla mano del marito e tornò a esaminarlo.

    «Sembra che Taita abbia voluto inserire un altro crittogramma di sua invenzione solo per farci ammattire.» Parlava dell’antico autore come se fosse un caro amico, ancora vivo e vegeto, che però talvolta diventava insopportabile e si divertiva a prenderli in giro.

    «E allora dovremo spaccarci la testa per decifrarlo» dichiarò Duraid con evidente soddisfazione. Adorava quel vecchio gioco. Era l’occupazione principale della sua vita.

    I due lavorarono fino a quando la notte divenne fredda. Era allora che davano il meglio di sé. A volte parlavano in arabo, altre in inglese: per loro le due lingue erano la stessa cosa. Più raramente usavano il francese, la terza lingua che avevano in comune. Entrambi avevano studiato in università inglesi e americane, molto lontane dalle loro radici in quel particolare Egitto. Royan adorava l’espressione in quel particolare Egitto che Taita usava così spesso nei papiri.

    Sotto molti punti di vista sentiva una strana affinità con l’antico egizio. Dopotutto, era una sua diretta discendente. Era cristiana copta, non proveniva dall’etnia araba che aveva conquistato l’Egitto in anni più recenti, meno di quattordici secoli prima. Gli arabi erano i nuovi arrivati in quel particolare Egitto, mentre la sua ascendenza di sangue risaliva al tempo dei faraoni e delle grandi piramidi.

    Alle dieci Royan preparò il caffè, scaldandolo sulla stufa a carbone che Alia aveva acceso per loro prima di tornare dalla sua famiglia al villaggio. Bevvero il liquido dolce e forte da fragili tazzine mezze piene di sedimento. Intanto chiacchieravano come vecchi amici.

    Per Royan la loro relazione era questo, un’amicizia di vecchia data. Conosceva Duraid fin da quando era tornata dall’Inghilterra con il suo dottorato in Archeologia e aveva vinto il concorso per lavorare al dipartimento di Egittologia, diretto da lui.

    Era stata la sua assistente quando aveva aperto la tomba nella Valle dei Nobili, la tomba della Regina Lostris che risaliva circa al 1780 a.C.

    Aveva condiviso la sua delusione quando si era scoperto che la tomba era stata depredata nell’antichità e che tutti i tesori erano stati saccheggiati. Non restavano altro che i meravigliosi affreschi che ricoprivano le pareti e i soffitti della tomba.

    Proprio Royan stava lavorando alla parete dietro il plinto sul quale un tempo era posto il sarcofago per fotografare gli affreschi quando si era staccato un pezzo di intonaco, rivelando dieci anfore di alabastro in una nicchia. Ciascuna conteneva un rotolo di papiro. E ciascun papiro era stato scritto e portato lì da Taita, lo schiavo della regina.

    Da quel momento le loro vite, la sua e quella di Duraid, sembravano orbitare intorno a quei fogli di papiro. Anche se c’erano alcuni punti danneggiati e deteriorati, in generale erano sopravvissuti sorprendentemente intatti per quasi quattromila anni.

    Che storia affascinante contenevano, quella di una nazione attaccata da un nemico più potente, armato di cavalli e carri da guerra ancora sconosciuti agli Egizi di quel tempo. Travolto dalle orde degli Hyksos, il popolo del Nilo aveva dovuto fuggire. Guidati dalla Regina, la Lostris della tomba, avevano seguito il grande fiume verso sud fin quasi alla fonte, fra le aspre montagne degli altipiani etiopici. Là, fra quelle cime inaccessibili, Lostris aveva seppellito il corpo mummificato del marito, il Faraone Mamose, caduto in battaglia contro gli Hyksos.

    Molto tempo dopo la Regina Lostris aveva ricondotto il suo popolo a nord, verso quel particolare Egitto. Ormai armati anch’essi di carri e cavalli, forgiati alla guerra dalle selvagge terre africane, avevano fatto irruzione dalle cataratte del grande fiume per sfidare ancora una volta gli invasori e infine trionfare, strappando dalle loro mani la corona doppia dell’Alto e Basso Egitto.

    Era una storia che la coinvolgeva in modo totalizzante e che l’aveva affascinata mentre insieme al marito decifrava ogni geroglifico che l’antico schiavo aveva tracciato sul papiro.

    Ci erano voluti tutti quegli anni di lavoro notturno in quella stessa villa nell’oasi, dopo aver terminato il lavoro quotidiano al museo del Cairo, ma alla fine i dieci papiri erano stati decifrati… tutti tranne il settimo. Era quello l’enigma, quello che l’autore aveva ammantato di simboli esoterici e allusioni così oscure da risultare imperscrutabili dopo tanto tempo. Alcuni dei simboli che aveva usato non erano mai comparsi prima, nelle migliaia di testi che avevano esaminato nelle rispettive vite professionali. Era chiaro a entrambi che Taita non voleva che i papiri potessero essere letti da altri occhi se non quelli della sua adorata regina. Erano l’ultimo regalo per lei, da portare nell’aldilà.

    Ci erano volute le migliori competenze di entrambi e tutta l’immaginazione e l’astuzia di cui erano capaci, ma alla fine stavano per concludere il loro compito. La traduzione era ancora lacunosa in diversi punti e non erano sempre sicuri di aver colto il vero significato del testo, ma ne avevano individuato l’ossatura, quanto bastava per poter distinguere i contorni della creatura che rappresentava.

    Duraid sorseggiava il caffè scuotendo la testa, come aveva fatto spesso negli ultimi tempi. «La responsabilità mi spaventa. Che cosa fare con le conoscenze che abbiamo recuperato. Se dovessero cadere in mani sbagliate…» Prima di riprendere a parlare sospirò e bevve un altro sorso. «E anche se lo portiamo alle persone giuste, riusciranno a credere che questo materiale ha quasi quattromila anni?»

    «Perché dobbiamo coinvolgere altre persone?» chiese Royan con una punta di esasperazione nella voce. «Perché non possiamo fare da soli ciò che è necessario?» In momenti come quello emergevano più chiaramente le loro differenze. Lui aveva la prudenza della maturità, lei l’impeto della giovinezza.

    «Tu non capisci» disse lui. Quelle parole la irritavano sempre, quando la trattava come gli arabi trattano le donne in un mondo completamente maschile. Aveva conosciuto l’altro mondo, dove le donne pretendevano e ricevevano il diritto di essere trattate alla pari. Era una creatura a metà fra due mondi, quello occidentale e quello arabo.

    La madre di Royan era una donna inglese che aveva lavorato all’ambasciata del Cairo nel periodo travagliato seguito alla Seconda guerra mondiale. Aveva conosciuto e sposato il padre di Royan, un giovane ufficiale egiziano al servizio del colonnello Nasser. Era un’unione improbabile e non era durata oltre l’adolescenza di Royan.

    Sua madre aveva insistito per tornare nella sua città natale in Inghilterra, York, per la nascita di Royan. Voleva che sua figlia avesse la cittadinanza britannica. Dopo la separazione dei genitori Royan, sempre per le insistenze di sua madre, era stata rimandata in Inghilterra a studiare, ma aveva trascorso tutte le vacanze al Cairo con il padre. La carriera del padre era decollata, tanto che alla fine aveva ottenuto un incarico ministeriale nel governo di Mubarak. Attraverso il suo amore per lui Royan era arrivata a considerarsi più egiziana che inglese.

    Era stato suo padre a combinare il matrimonio con Duraid Al Simma. L’ultima cosa che aveva fatto per lei prima di morire. A quel tempo Royan sapeva che lui stava per spegnersi e non aveva trovato la forza di deluderlo. La sua educazione moderna si ribellava all’antica tradizione copta dei matrimoni combinati, ma le sue origini, la famiglia e la Chiesa erano contro di lei. Aveva accettato.

    Il matrimonio con Duraid non si era rivelato insopportabile come aveva temuto. Avrebbe anche potuto essere assolutamente piacevole e soddisfacente, se non avesse mai avuto esperienza dell’amore romantico. Invece c’era stata la sua relazione con David, all’università. Lui l’aveva trascinata in un vortice, nel delirio più folle, e infine le aveva spezzato il cuore lasciandola per sposare una damina inglese bionda che aveva l’approvazione dei genitori.

    Royan rispettava e amava Duraid, ma a volte di notte bruciava ancora dal desiderio di sentire sopra di sé un corpo giovane e sodo come il proprio.

    Duraid stava ancora parlando e lei non lo aveva ascoltato. Riportò l’attenzione su di lui. «Ho parlato di nuovo con il ministro, ma non credo che abbia fiducia in me. Credo che Nahoot lo abbia convinto che sono un po’ matto.» Fece un sorriso triste. Nahoot Guddabi era il suo vice, un uomo ambizioso che aveva tutti i contatti giusti. «In ogni caso il ministro dice che non ci sono fondi pubblici disponibili e che dovrò cercare finanziamenti esterni. Quindi ho studiato di nuovo la lista dei possibili sponsor e li ho ridotti a quattro. C’è il Getty Museum, naturalmente, ma non mi è mai piaciuto lavorare con istituzioni grandi e impersonali. Preferisco rispondere a una persona sola. È molto più semplice prendere le decisioni.» Niente di nuovo per lei, ma lo ascoltò coscienziosamente.

    «Poi c’è Herr von Schiller. Ha i soldi e l’interesse per la materia, ma non lo conosco abbastanza bene da fidarmi completamente.» Fece una pausa. Royan aveva ascoltato quelle riflessioni così spesso che sapeva già quello che avrebbe detto.

    «E l’americano? È un famoso collezionista» lo anticipò.

    «Con Peter Walsh è difficile lavorare. L’ansia di accumulare lo rende poco scrupoloso. Mi fa un po’ paura.»

    «E quindi, che cosa rimane?»

    Lui non rispose, perché entrambi conoscevano la risposta a quella domanda. Duraid rivolse invece la sua attenzione ai materiali disseminati sul piano di lavoro.

    «Sembra così innocente, così ordinario. Un antico rotolo di papiro, qualche fotografia, quaderni di appunti, una stampata dal computer. È difficile credere a quanto potrebbe essere pericoloso tutto questo nelle mani sbagliate.» Sospirò di nuovo. «Si potrebbe quasi dire che qui c’è un pericolo mortale.»

    Poi si mise a ridere. «Mi sto lasciando trascinare. Sarà l’ora tarda. Ci rimettiamo al lavoro? Potremo preoccuparci di questi altri problemi quando avremo risolto tutti i rompicapi che ci ha preparato questo vecchio furfante di Taita, e completato la traduzione.»

    Prese la prima foto dalla pila che aveva davanti. Era un ingrandimento della sezione centrale del papiro. «È una vera sfortuna che la parte danneggiata sia proprio questa.» Prese gli occhiali da lettura e se li mise sul naso prima di cominciare a leggere.

    «Ci sono molti gradini per salire la scala che conduce alla dimora di Api. Con grande fatica e impegno raggiungemmo il secondo gradino e lì ci fermammo, poiché fu lì che il principe ricevette una rivelazione divina. In sogno suo padre, il defunto dio faraone, lo visitò e gli comandò: Ho viaggiato a lungo e ora sono stanco. È qui che riposerò per l’eternità.» Duraid si tolse gli occhiali e guardò Royan. «Il secondo gradino. Per una volta la descrizione è molto precisa. Taita non parla per enigmi come al solito.»

    «Torniamo alle fotografie dal satellite» propose Royan, tirando verso di sé il foglio lucido. Duraid girò intorno al tavolo e si mise dietro di lei.

    «L’interpretazione più logica mi sembra che l’ostacolo naturale che hanno incontrato nella gola sia stato qualcosa come una serie di rapide o una cascata. Se fosse la seconda cascata, significherebbe che si trovavano qui…» Royan posò il dito su un punto dell’immagine dove il sottile serpente del fiume si infilava fra due scuri massicci montuosi.

    In quel momento si distrasse e sollevò la testa. «Ascolta!» La sua voce si fece tesa e allarmata.

    «Che cosa c’è?» Anche Duraid alzò gli occhi.

    «Il cane.»

    «Quel maledetto botolo. È un tormento, ogni notte, con i suoi latrati. Me ne devo liberare, assolutamente.» In quel momento le luci si spensero.

    Si irrigidirono per la sorpresa, immersi nel buio. Il lieve rumore del decrepito generatore diesel nel capanno dietro il palmeto non si sentiva più. Era un suono talmente abituale delle notti nell’oasi che lo notarono soltanto quando cessò.

    I loro occhi si abituarono alla luce fioca delle stelle che proveniva dalle porte della terrazza. Duraid attraversò la stanza e prese la lampada a olio dallo scaffale accanto alla porta, dove attendeva pronta per casi come quello. La accese e guardò Royan con aria di comica rassegnazione.

    «Dovrò scendere…»

    «Duraid» lo interruppe lei, «il cane!»

    Lui si mise in ascolto e dopo un momento la sua espressione tradì una vaga inquietudine. Là fuori, nella notte, il cane era silenzioso.

    «Sono sicuro che non c’è niente di cui preoccuparsi.» Andò alla porta e lei gli disse all’improvviso, senza un vero motivo: «Duraid, stai attento!». Lui scrollò le spalle con un gesto un po’ sprezzante e uscì sulla terrazza.

    Per un attimo le sembrò che fosse l’ombra del rampicante sul graticcio a muoversi alla brezza notturna del deserto, ma la notte era immobile. Poi capì che si trattava di una figura umana: camminava sul lastricato a passi agili e silenziosi alle spalle di Duraid, che stava aggirando la vasca dei pesci al centro della terrazza.

    «Duraid!» Royan urlò un avvertimento e lui si voltò di scatto, sollevando la lampada.

    «Chi sei?» gridò. «Che cosa vuoi?»

    L’intruso lo raggiunse in silenzio. Intorno alle sue gambe si agitava la lunga tunica tradizionale chiamata dishdasha e in testa aveva il ghutra, un copricapo bianco. Alla luce della lampada Duraid vide che ne aveva sollevato un lembo per nascondere i lineamenti.

    L’intruso le dava le spalle e quindi Royan non vide il coltello nella mano destra, ma sarebbe stato impossibile fraintendere lo scatto del braccio verso l’alto diretto allo stomaco di Duraid, che fece un verso strozzato e si piegò in due per il dolore. L’aggressore liberò la lama e lo pugnalò ancora, ma questa volta Duraid lasciò cadere la lampada e afferrò il braccio armato.

    La fiamma della lampada rovesciata tremolava e si sollevava. I due uomini lottavano nel buio ma Royan vide una macchia scura allargarsi sul davanti della camicia bianca del marito.

    «Scappa!» le urlò. «Vai! Cerca aiuto! Non posso trattenerlo!» Il Duraid che conosceva era una persona gentile, un uomo mite dedito ai libri e allo studio. Capiva che l’aggressore era più forte di lui.

    «Vai, ti prego! Salvati, fiore mio!» Sentiva dal suo tono che si stava indebolendo, ma restava disperatamente aggrappato al braccio destro dell’aggressore.

    In quei pochi fatali secondi era rimasta paralizzata dallo shock e dall’indecisione, ma alla fine si liberò dall’incantesimo e corse verso la porta. Incalzata dal terrore e dal bisogno di aiutare Duraid attraversò la terrazza rapida come un gatto, mentre lui impediva all’intruso di sbarrarle la strada.

    Saltò il muretto di pietra che dava sul palmeto e finì quasi nelle braccia del secondo uomo. Gridò e si divincolò mentre lui con le dita protese le graffiava la faccia, e riuscì quasi a liberarsi, ma lui afferrò il cotone leggero della camicetta.

    Stavolta il coltello lo vide: un lampo argenteo allungato sotto la luce delle stelle, e questo la incitò a raddoppiare gli sforzi. Il cotone si strappò e lei si liberò, ma non abbastanza rapidamente da sfuggire alla lama. La sentì bruciare sul braccio e scalciò con tutta la forza del panico e del suo corpo giovane e tonico. Sentì il piede colpire le parti basse dell’uomo con un impatto che si ripercosse fino al ginocchio, e il suo aggressore lanciò un grido e si accasciò a terra.

    Poi fu libera e si mise a correre attraverso il palmeto. All’inizio corse senza meta e senza direzione. Correva soltanto per allontanarsi il più possibile, quanto le consentivano le sue gambe svelte. Poi gradualmente riportò il panico sotto controllo. Si lanciò un’occhiata alle spalle, ma nessuno la inseguiva. Quando raggiunse la riva del lago rallentò per conservare le forze e si accorse del caldo rivolo di sangue che le scendeva dal braccio, colando dalle dita.

    Si fermò e appoggiò la schiena contro il tronco ruvido di una palma, poi strappò una striscia di tessuto dalla camicetta lacera e si bendò in fretta il braccio. Tremava così tanto per lo shock e lo sforzo che anche la mano sana era incerta e maldestra. Strinse il nodo del bendaggio di fortuna aiutandosi con i denti e con la mano sinistra, e l’emorragia rallentò.

    Non sapeva dove andare ma poi vide la luce fioca della lampada alla finestra della baracca di Alia, al di là del canale di irrigazione più vicino. Si spinse via dalla palma e si avviò da quella parte. Aveva fatto meno di cento passi quando una voce si levò dal palmeto alle sue spalle. Parlava arabo. «Yusuf, la donna è venuta verso di te?»

    Immediatamente una torcia elettrica lampeggiò nel buio davanti a lei e un’altra voce rispose: «No, non l’ho vista».

    Ancora pochi secondi e Royan gli sarebbe finita addosso. Si accovacciò e si guardò intorno freneticamente. Un’altra torcia attraversava il palmeto alle sue spalle, seguendo il sentiero che aveva percorso. Doveva essere l’uomo che aveva colpito con un calcio, ma dai movimenti della torcia capì che si era ripreso e si muoveva nuovamente con agilità.

    Era fra due fuochi, così tornò indietro, verso l’estremità del lago. La strada passava di là. Forse avrebbe incrociato un veicolo in viaggio notturno. Perse l’equilibrio sul terreno accidentato e cadde, sbattendo e sbucciandosi le ginocchia, ma balzò di nuovo in piedi e riprese a correre. La seconda volta che inciampò la sua mano sinistra, protesa in avanti, si posò su una pietra liscia e rotonda grossa più o meno come un’arancia. Proseguendo la portò con sé come arma di difesa, traendone un vago senso di conforto.

    Il braccio ferito cominciava a farle male ed era tormentata dalla preoccupazione per Duraid. Sapeva che era gravemente ferito, perché aveva visto la direzione e la forza della pugnalata. Doveva trovare aiuto per salvarlo. Dietro di lei i due uomini con le torce stavano ispezionando il palmeto e non fu in grado di mantenere il vantaggio su di loro. Stavano guadagnando terreno – li sentiva parlare fra loro.

    Finalmente raggiunse la strada e con un piccolo gemito di sollievo si arrampicò dal canale di scolo alla superficie sterrata e chiara. Le gambe le tremavano talmente che a malapena la reggevano, ma si voltò in direzione del villaggio.

    Non aveva ancora raggiunto la prima curva quando vide dei fari che si avvicinavano lentamente, intermittenti fra i tronchi delle palme. Si mise a correre al centro della strada.

    «Aiuto!» gridò in arabo. «Vi prego aiutatemi!»

    L’auto superò la curva e prima che i fari la accecassero vide che era una Fiat piccola e scura. Royan restò in piedi in mezzo alla carreggiata agitando le braccia per fermare il guidatore, investita dalle luci come un’attrice sul palcoscenico di un teatro.

    La Fiat si fermò davanti a lei e Royan si precipitò alla portiera del guidatore e si aggrappò alla maniglia. «Per favore, deve aiutarmi…»

    La porta si aprì dall’interno e poi venne richiusa con tale forza da farla barcollare. Il guidatore balzò sulla strada e le afferrò il polso del braccio ferito. La trascinò verso la Fiat e aprì la portiera posteriore.

    «Yusuf! Bacheet!» gridò verso il palmeto buio. «L’ho presa.» Royan sentì le grida di risposta e vide le torce girare nella loro direzione. Il guidatore le spingeva giù la testa e cercava di gettarla sul sedile posteriore, ma lei si rese conto di avere ancora la pietra nella mano sana. Si girò leggermente e si preparò a colpire, poi slanciò il pugno che stringeva la pietra verso il lato della testa dell’aggressore. Lo raggiunse in piena tempia. L’uomo cadde sullo sterrato senza un lamento e rimase immobile.

    Royan lasciò cadere la pietra e cominciò a correre lungo la strada, ma si accorse di essere nella scia dei fari, che illuminavano ogni sua mossa. I due uomini nel palmeto gridarono di nuovo e raggiunsero la strada dietro di lei, quasi spalla a spalla.

    Con un’occhiata indietro vide che guadagnavano rapidamente terreno e capì che l’unica possibilità di salvezza era quella di lasciare la strada e rientrare nel buio. Si voltò e si buttò giù dal terrapieno. Immediatamente si ritrovò immersa fino alla vita nell’acqua del lago.

    Nel buio e nella concitazione aveva perso l’orientamento. Non si era accorta di aver raggiunto il punto dove la strada toccava l’argine. Sapeva di non avere il tempo di risalire sulla strada e sapeva anche che davanti a lei c’erano folte macchie di canne e papiri dove avrebbe potuto nascondersi.

    Avanzò finché il fondo non si abbassò all’improvviso sotto i suoi piedi e fu obbligata a nuotare. Procedette con uno stile a rana molto impacciato, intralciata dalla gonna e dal braccio ferito. Però i suoi movimenti appena accennati quasi non increspavano la superficie e prima che gli uomini sulla strada arrivassero al punto dove si era buttata, Royan aveva già raggiunto un folto canneto.

    Si fece largo fino al punto centrale e si lasciò affondare. Prima che l’acqua le arrivasse alle narici sentì con le punte dei piedi la morbida fanghiglia del fondo del lago. Restò ferma, in silenzio, emergendo solo con la sommità della testa e guardando dalla parte opposta alla riva. Sapeva che i suoi capelli scuri non avrebbero riflesso la luce delle torce.

    Anche se l’acqua le copriva le orecchie riusciva comunque a sentire le grida agitate degli uomini sulla strada. Avevano rivolto i raggi delle torce verso l’acqua e li puntavano sulle canne cercando di individuarla. Per un momento uno dei raggi le passò proprio sopra la testa e lei prese fiato, pronta a immergersi, ma il raggio continuò a spostarsi e lei capì che non l’avevano vista.

    Il fatto che non l’avessero individuata, nemmeno con le torce puntate, le diede il coraggio di sollevare leggermente la testa fino a liberare un orecchio, per capire che cosa dicevano.

    Parlavano in arabo e riconobbe la voce dell’uomo chiamato Bacheet. Sembrava essere il capo, era lui che dava gli ordini.

    «Entra in acqua, Yusuf. Tira fuori quella puttana.»

    Sentì che Yusuf scivolava lungo l’argine e poi entrava in acqua con un tonfo.

    «Più avanti» gli ordinò Bacheet. «Fra quelle canne, dove sto illuminando con la torcia.»

    «È troppo profonda. Lo sai che non so nuotare. Finirò sotto.»

    «Là! Proprio davanti a te. Fra quelle canne. Vedo la testa.» Bacheet lo incitava e Royan temette che l’avessero vista. Cercò di immergersi il più possibile.

    Yusuf si agitava scompostamente, avvicinandosi al suo rifugio, quando all’improvviso scoppiò un fragore confuso che spaventò anche lui, tanto che gridò: «Demoni! Che Dio mi aiuti!» mentre lo stormo di anatre ferme sul lago esplodeva sull’acqua per lanciarsi nel cielo scuro agitando rumorosamente le ali.

    Yusuf tornò verso l’argine e nessuna delle minacce di Bacheet lo convinse a continuare la caccia.

    «La donna non è importante quanto il papiro» protestò, riguadagnando la strada. «Senza il papiro non ci saranno soldi. Sapremo comunque dove trovarla, più tardi.»

    Royan girò appena la testa e vide le torce muoversi a ritroso sulla strada, verso la Fiat parcheggiata, che aveva ancora i fari accesi. Sentì sbattere le portiere, poi il motore si avviò e si allontanò verso la villa.

    Era troppo scossa e terrorizzata per provare a lasciare il suo nascondiglio. Temeva che avessero lasciato qualcuno sulla strada ad aspettarla. Restò ferma in punta di piedi, con l’acqua che le lambiva le labbra, rabbrividendo più per il trauma che per il freddo, decisa ad aspettare la sicurezza dell’alba prima di muoversi.

    Solo molto più tardi, quando vide il bagliore del fuoco che illuminava il cielo e le fiamme balenare fra i tronchi delle palme, dimenticò la propria sicurezza e si trascinò di nuovo verso l’argine.

    Si inginocchiò nel fango all’estremità del lago, tremante e ansimante, indebolita dall’emorragia, dallo shock e dalla reazione al terrore, e sbirciò le fiamme da dietro il velo dei capelli bagnati e dell’acqua del lago che le colava negli occhi.

    «La villa!» sussurrò. «Duraid! Oh, ti prego Dio, no! No!»

    Si rimise in piedi a fatica e cominciò a barcollare verso la sua casa in fiamme.

    * * *

    Prima di svoltare nel viale della villa, Bacheet spense sia i fari sia il motore della Fiat e lasciò che l’auto spinta dall’inerzia andasse a fermarsi sotto la terrazza.

    I tre uomini scesero dalla macchina e cominciarono a salire i gradini di pietra fino alla terrazza lastricata. Il corpo di Duraid giaceva ancora dove l’aveva lasciato Bacheet, vicino alla vasca dei pesci. Lo superarono senza degnarlo di un’occhiata e passarono nello studio buio.

    Bacheet posò sul ripiano del tavolo lo scadente borsone di nylon che aveva in mano.

    «Abbiamo già perso troppo tempo. Adesso dobbiamo sbrigarci.»

    «È colpa di Yusuf» protestò l’uomo che guidava la Fiat. «L’ha lasciata scappare.»

    «Tu hai avuto un’occasione, sulla strada» ringhiò Yusuf di rimando, «e non hai certo fatto di meglio».

    «Basta!» ordinò Bacheet a entrambi. «Se volete essere pagati sarà meglio che non ci siano altri errori.»

    Alla luce della torcia Bacheet prese il papiro ancora steso sul tavolo. «È questo.» Ne era certo, perché gli era stata mostrata una fotografia in modo che non si sbagliasse. «Vogliono tutto, le mappe e le fotografie. Anche i libri e i documenti, tutto quello con cui stavano lavorando sul tavolo. Non lasciate niente.»

    Radunarono velocemente tutto nel borsone e Bacheet chiuse la cerniera.

    «Adesso il Doktari. Portatelo qui.»

    Gli altri due uscirono in terrazza e si chinarono sul corpo. Lo presero per le caviglie e trascinarono Duraid per tutta la terrazza fino allo studio. La nuca rimbalzò sul gradino di pietra della soglia e il suo sangue tracciò sulle piastrelle una lunga scia umida, che riluceva sotto il raggio della torcia.

    «Prendete la lampada!» ordinò Bacheet, e Yusuf tornò in terrazza a raccogliere la lampada a olio da dove Duraid l’aveva fatta cadere. La fiamma era spenta. Bacheet si portò la lampada all’orecchio e la scosse.

    «È piena» disse soddisfatto, poi svitò il tappo del serbatoio. «Bene» disse agli altri due, «adesso portate il borsone in macchina».

    Mentre gli altri correvano fuori, Bacheet versò la paraffina della lampada sulla camicia e sui pantaloni di Duraid, poi si avvicinò agli scaffali e sparse il resto del combustibile sui libri e sui manoscritti che li affollavano.

    Lasciò cadere la lampada vuota e infilò una mano sotto la dishdasha per prendere una scatola di fiammiferi. Ne accese uno e lo avvicinò alla scia di olio di paraffina sulla libreria. Prese subito fuoco: le fiamme divamparono verso l’alto, arricciando e scurendo i bordi dei manoscritti. Bacheet si voltò e tornò verso Duraid. Accese un altro fiammifero e lo lasciò cadere sulla camicia inzuppata di sangue e paraffina.

    Un sudario di fiamme blu danzò sul petto di Duraid. Il fuoco cambiò colore consumando la stoffa di cotone e poi la carne al di sotto. Diventò arancione e dalla sommità frastagliata cominciò a levarsi una spirale di fumo fuligginoso.

    Bacheet corse verso la porta, attraversò la terrazza e scese i gradini. Mentre si scaraventava sul sedile posteriore della Fiat il guidatore partì a razzo e si allontanò sul viale.

    * * *

    Il dolore risvegliò Duraid. Era necessaria quell’intensità per riportarlo indietro dal luogo remoto, ai limiti della vita, nel quale era scivolato.

    Gemette. La prima cosa che lo raggiunse quando riprese conoscenza fu l’odore della sua stessa carne bruciata, e poi l’agonia lo investì in pieno. Un tremito violento gli attraversò il corpo. Aprì gli occhi e abbassò lo sguardo.

    I suoi abiti erano anneriti e fumanti e non aveva mai provato un dolore simile in vita sua. Si rese vagamente conto che la stanza intorno a lui era in fiamme. Ondate di fumo e di calore lo sommergevano e riusciva a malapena a distinguere la sagoma della porta.

    Il dolore era così terribile che desiderò di farla finita. Desiderò di morire per non doverlo più sopportare. Poi ricordò Royan. Cercò di pronunciare il suo nome con le labbra ustionate e annerite, ma non ne uscì alcun suono. Solo il pensiero di lei gli diede la forza di muoversi. Rotolò su se stesso e il calore gli investì la schiena, che fino ad allora era rimasta protetta. Gemette forte e rotolò di nuovo, un po’ più vicino alla porta.

    Ogni movimento era uno sforzo immane e risvegliava nuovi parossismi di sofferenza, ma quando si ritrovò ancora supino si accorse che una folata di aria fresca veniva risucchiata dalla porta per alimentare le fiamme. Una boccata dell’aria dolce del deserto lo rianimò e gli diede la forza sufficiente a buttarsi oltre la soglia, sulle pietre fresche della terrazza.

    Il suo corpo e i vestiti erano ancora in fiamme. Si batté debolmente il petto per cercare di estinguerle, ma le sue mani erano ridotte ad artigli anneriti e roventi.

    Poi ricordò la vasca dei pesci. Il pensiero di tuffare il suo corpo martoriato in quell’acqua fresca lo spronò a fare un ultimo sforzo: contorcendosi e strisciando si spostò sul lastricato come un serpente con la spina dorsale spezzata.

    Il fumo pungente del suo corpo ancora in fiamme lo soffocò e tossì debolmente, ma proseguì imperterrito. Rotolandoci sopra, lasciò sulle pietre brandelli di pelle bruciata e finalmente si lasciò cadere nella vasca. Ci fu un forte sibilo e una nuvola di vapore chiaro gli oscurò la vista, tanto che per un momento temette di essere diventato cieco. Lo spasimo dell’acqua fredda sulla carne scoperta e bruciata fu così intenso che scivolò di nuovo sull’orlo dell’incoscienza.

    Quando tornò alla realtà sollevò la testa fra le nuvole di fumo nero e vide una sagoma proveniente dal giardino che saliva con passo malfermo i gradini dall’altra parte della terrazza.

    Per un momento pensò che fosse un fantasma evocato dall’agonia, ma quando la luce della villa incendiata cadde su di lei riconobbe Royan. I capelli fradici e aggrovigliati le scendevano scompostamente sul viso, aveva gli abiti strappati e gocciolanti dell’acqua del lago, macchiati di fango e alghe verdi. Il braccio destro era bendato con stracci luridi e stillava sangue rosa, diluito nell’acqua sporca.

    Lei non lo vide. Si fermò al centro della terrazza e fissò con uno sguardo inorridito la stanza in fiamme. Duraid era là dentro? Si avvicinò, ma il calore era come un muro solido e la bloccò. In quel momento crollò il tetto, proiettando nel cielo notturno un’alta colonna rombante di fiamme e scintille. Lei arretrò, un braccio sollevato a proteggersi il viso.

    Duraid cercò di chiamarla, ma dalla sua gola martoriata dal fumo non uscì alcun suono. Royan si voltò e cominciò a scendere i gradini. Lui capì che probabilmente andava a cercare aiuto. Con uno sforzo supremo, Duraid evocò un grido gracchiante dalle labbra nere e ricoperte di vesciche.

    Royan si girò di scatto e lo fissò, poi cacciò un urlo. La sua testa non era umana. I capelli erano spariti, smaterializzati, e la pelle pendeva a brandelli dalle guance e dal mento. Dalla maschera nera e incrostata spuntavano squarci di carne viva. Lei arretrò come davanti a un essere mostruoso.

    «Royan» gracchiò lui, e la sua voce era appena riconoscibile. Sollevò una mano verso di lei in un gesto implorante e lei corse alla vasca e gliela prese.

    «In nome della Vergine, che cosa ti hanno fatto?» singhiozzò, ma quando cercò di tirarlo fuori dalla vasca la pelle della sua mano si sfilò interamente in quella di lei, come un orribile guanto chirurgico, lasciandosi dietro un artiglio nudo e sanguinante.

    Royan cadde in ginocchio accanto al bordo della vasca e si chinò sull’acqua per prenderlo fra le braccia. Sapeva di non avere la forza di sollevarlo senza causargli altri danni inimmaginabili. Tutto ciò che poteva fare era abbracciarlo e cercare di confortarlo. Capì che stava morendo: nessun uomo poteva sopravvivere a ferite così spaventose.

    «I soccorsi arriveranno presto» gli sussurrò in arabo. «Qualcuno deve aver visto le fiamme. Coraggio, marito mio, presto ci aiuteranno.»

    Lui si contorceva a scatti fra le sue braccia, torturato dalle ferite mortali e straziato dallo sforzo di parlare.

    «Il papiro?» La sua voce era quasi impercettibile. Royan alzò gli occhi sul rogo della loro casa e scosse la testa.

    «Andato» rispose. «Bruciato o rubato.»

    «Non arrenderti» mormorò. «Tutto il nostro lavoro…»

    «È andato» ripeté lei. «Nessuno ci crederà senza…»

    «No!» La sua voce era debole ma incrollabile. «Per me, il mio ultimo…»

    «Non dirlo» lo implorò lei. «Guarirai.»

    «Promettimelo» chiese lui in tono perentorio. «Prometti!»

    «Non abbiamo finanziatori. Sono sola. Non posso farlo da sola.»

    «Harper!» disse lui. Royan si chinò ancora di più, in modo che il suo orecchio toccasse quelle labbra devastate dal fuoco. «Harper» ripeté lui. «Forte, duro, uomo intelligente…» allora lei capì. Harper, naturalmente, era il quarto e ultimo nome sull’elenco di finanziatori che lui aveva preparato. Anche se era l’ultimo della lista, in qualche modo Royan aveva sempre saputo che l’ordine di preferenza di Duraid era invertito. Nicholas Quenton-Harper era la sua prima scelta. Parlava molto spesso di quell’uomo con rispetto e calore, a volte anche con una certa soggezione.

    «Ma che cosa gli posso dire? Non mi conosce. Come lo convincerò? Il settimo papiro è sparito.»

    «Fidati di lui» sussurrò Duraid. «Brav’uomo. Fidati…». Nel suo Promettimelo! c’era un terribile appello.

    Poi Royan ricordò il quaderno di appunti nell’appartamento di Giza, nei sobborghi del Cairo, e il materiale su Taita nell’hard disk del suo computer. Non tutto era perduto. «Sì» dichiarò. «Marito mio, lo prometto. Te lo prometto.»

    Anche se quei lineamenti devastati non potevano più mostrare alcuna espressione umana, c’era una vaga eco di soddisfazione nella sua voce quando sussurrò: «Fiore mio!». Poi la testa gli cadde in avanti e lui morì fra le sue braccia.

    I contadini del villaggio trovarono Royan ancora inginocchiata accanto alla vasca, abbracciata a Duraid, che gli sussurrava all’orecchio. Ormai le fiamme si stavano consumando e il primo chiarore dell’alba le fece sbiadire.

    * * *

    Al servizio funebre nella chiesa dell’oasi parteciparono tutti i dirigenti del museo e del dipartimento di Egittologia. Perfino Atalan Abou Sin, ministro della Cultura e del Turismo e superiore di Duraid, era arrivato dal Cairo nella sua Mercedes nera con l’aria condizionata. Era in piedi alle spalle di Royan e, pur essendo musulmano, partecipava ripetendo le risposte dei fedeli. Nahoot Guddabi era accanto allo zio. La madre di Nahoot era la sorella minore del ministro e questo, come aveva notato Duraid con sarcasmo, compensava completamente la mancanza di titoli ed esperienza in archeologia del nipote, nonché la sua inettitudine come amministratore.

    Quel giorno l’afa era insopportabile. All’esterno la temperatura superava i trenta gradi e perfino nella penombra dei chiostri della chiesa copta l’atmosfera era opprimente. Royan si sentiva soffocare fra le dense nuvole di incenso e le litanie indistinte del sacerdote vestito di nero che intonava le antiche formule di rito. I punti al braccio destro tiravano e bruciavano e ogni volta che guardava la lunga bara nera posta davanti all’altare riccamente decorato, la spaventosa immagine della testa pelata e ustionata di Duraid le si presentava davanti agli occhi e lei si sentiva svenire. Doveva farsi forza per non cadere.

    Finalmente la cerimonia ebbe termine e Royan poté rifugiarsi all’aria aperta, sotto la luce del deserto. Ma i suoi doveri non erano conclusi. Dato che era la persona più vicina al defunto, il suo posto era dietro la bara nella lenta processione diretta verso il cimitero fra i palmeti, dove i parenti di Duraid lo aspettavano nel mausoleo di famiglia.

    Prima di tornare al Cairo, Atalan Abou Sin andò a stringerle la mano e a offrire qualche parola di condoglianze. «Che terribile vicenda, Royan. Ho parlato personalmente con il ministro dell’Interno. Credimi, prenderanno gli animali responsabili di questo abominio. Ti prego di prenderti tutto il tempo che ti serve prima di tornare al museo» le disse.

    «Sarò in ufficio lunedì» rispose lei, e il ministro prese un’agendina dalla tasca interna del completo scuro a doppiopetto. La consultò e prese un appunto, poi alzò di nuovo lo sguardo su di lei.

    «Allora vieni da me al ministero, nel pomeriggio» le disse. «Alle quattro.» Si avviò verso la Mercedes in attesa, mentre Nahoot Guddabi si faceva avanti per stringerle la mano. Aveva un colorito giallognolo e macchie color caffè sotto gli occhi scuri, ma era alto ed elegante, con folti capelli ondulati e denti bianchissimi. Il suo completo di sartoria era impeccabile ed emanava un sentore di costosa acqua di colonia. La sua espressione era seria e triste.

    «Era un brav’uomo. Avevo la più alta stima di Duraid» disse a Royan, e lei annuì senza ribattere a quella palese menzogna. Non correva buon sangue fra Duraid e il suo vice. Il marito non aveva mai permesso a Nahoot di lavorare sui papiri di Taita e in particolare non gli aveva mai dato accesso al settimo papiro, e questo aveva innescato un aspro antagonismo fra i due.

    «Spero che farai richiesta per il posto di direttore, Royan» le disse. «Saresti assolutamente qualificata.»

    «Grazie, Nahoot, sei molto gentile. Non ho ancora avuto modo di pensare al futuro, ma non sarai tu a fare richiesta?»

    Lui annuì. «Naturalmente. Ma questo non significa che non debba farlo nessun altro. Magari mi soffierai il posto da sotto il naso.» Fece un sorriso compiacente. Lei era una donna in un paese arabo, e lui era il nipote del ministro. Nahoot sapeva bene quanto era più forte la sua posizione. «Rivalità amichevole?» le chiese.

    Royan fece un sorriso triste. «Come minimo vorrei un rapporto amichevole. In futuro avrò bisogno di tutti gli amici che riuscirò a trovare.»

    «Sai di avere molti amici. Tutti al dipartimento ti vogliono bene, Royan.» Almeno quello era vero, immaginava. Nahoot proseguì in tono mellifluo: «Posso darti un passaggio al Cairo? Sono certo che mio zio non avrà nulla in contrario».

    «Grazie Nahoot, ma ho qui la mia macchina e stasera devo restare all’oasi per gestire alcuni affari di Duraid.» Questo non era vero. Quella sera Royan aveva intenzione di tornare all’appartamento di Giza, ma per motivi che non capiva bene neanche lei voleva che Nahoot conoscesse i suoi spostamenti.

    «Allora ci vediamo al museo lunedì.»

    Royan lasciò l’oasi non appena riuscì a sottrarsi ai parenti, amici di famiglia e contadini, molti dei quali avevano lavorato per la famiglia di Duraid per quasi tutta la propria vita. Si sentiva intontita e isolata, tutte le frasi di condoglianze e le esortazioni pietose per lei non avevano significato e non le davano alcun conforto.

    Anche a quell’ora tarda la strada asfaltata che attraversava il deserto era trafficata, con colonne di veicoli che procedevano spediti nelle due direzioni: il giorno dopo era venerdì, il giorno della preghiera. Sfilò il braccio ferito dalla fasciatura che lo sosteneva e la sua guida non ne fu particolarmente intralciata. Riuscì ad arrivare a destinazione abbastanza in fretta. Ma erano comunque passate le cinque del pomeriggio quando superò la linea verde che tagliava la scura desolazione del deserto, segnando la sottile striscia di terra irrigata e coltivata lungo le sponde del Nilo, la grande arteria dell’Egitto.

    Come sempre, avvicinandosi alla capitale il traffico si fece più intenso ed era quasi completamente buio quando Royan arrivò al palazzo di Giza con vista sia sul fiume sia sui massicci monumenti di pietra svettanti contro il cielo scuro, che per lei incarnavano il cuore e la storia della sua terra.

    Lasciò la vecchia Renault verde di Duraid nel garage sotterraneo e salì all’ultimo piano in ascensore.

    Entrò nell’appartamento e si bloccò sulla porta. Il salotto era stato messo a soqquadro, perfino i tappeti erano stati sollevati e i quadri strappati dalle pareti. Quasi in stato di trance, si fece largo fra i resti di mobili distrutti e suppellettili fracassate. Passando diede uno sguardo alla camera da letto e vide che non era stata risparmiata. I suoi abiti e quelli di Duraid erano sparpagliati sul pavimento e le ante degli armadi erano spalancate. Una era stata strappata dai cardini. Il letto era rovesciato, lenzuola e cuscini buttati alla rinfusa.

    Dal bagno arrivava un odore forte di cosmetici e profumi versati, ma non aveva ancora la forza di entrarci. Sapeva già che cosa avrebbe trovato. Invece proseguì nel corridoio fino alla grande stanza che avevano usato come studio e laboratorio.

    Nella confusione, la prima cosa che notò e che la colpì al cuore fu l’antica scacchiera che Duraid le aveva regalato per il matrimonio. La tavola di avorio e giaietto era spezzata in due, e i pezzi erano stati lanciati per tutta la stanza con una violenza esagerata e vendicativa. Si chinò a raccogliere la regina bianca. Le era stata staccata la testa.

    Tenendo la regina nella mano sana, si diresse come una sonnambula verso la propria scrivania, sotto la finestra. Il suo computer era distrutto. Avevano spaccato lo schermo e fatto a pezzi l’hard disk, probabilmente con un’ascia. Alla prima occhiata capì che non erano rimaste informazioni utili, non c’era modo di ripararlo.

    Abbassò gli occhi sul cassetto dove teneva i floppy disk. Come gli altri, era stato estratto e buttato sul pavimento. Erano tutti vuoti, ovviamente: oltre ai dischetti erano spariti anche i quaderni di appunti e le fotografie. I suoi ultimi legami con il settimo papiro erano andati perduti. Dopo tre anni di lavoro, non esisteva più alcuna prova che fosse mai esistito.

    Si accasciò sul pavimento, oppressa da un senso di sconfitta e di infinita stanchezza. Il dolore al braccio si riacutizzò, si sentiva sola e vulnerabile come mai nella vita. Non avrebbe mai pensato di sentire così disperatamente la mancanza di Duraid. Le sue spalle cominciarono a sussultare, sentì le lacrime raccogliersi dalle profondità del suo animo. Cercò di trattenerle, ma le bruciavano le ciglia e alla fine le lasciò scorrere. Restò seduta fra le macerie della sua vita e pianse fino a esaurire ogni energia, poi si rannicchiò sul tappeto disseminato di rifiuti e cadde in un sonno di sfinimento e disperazione.

    * * *

    Il lunedì mattina era riuscita a ripristinare un po’ d’ordine nella propria vita. La polizia era venuta a raccogliere la sua deposizione, poi aveva sistemato la maggior parte del disastro. Aveva perfino riparato la testa della regina bianca con la colla. Quando uscì dall’appartamento per salire sulla Renault verde il braccio stava meglio e, se non allegra, sicuramente si sentiva molto più ottimista e sicura di quello che doveva fare.

    Quando arrivò al museo per prima cosa andò nell’ufficio di Duraid, ma scoprì con fastidio che Nahoot l’aveva preceduta. Stava supervisionando il lavoro di due agenti della sicurezza che raccoglievano gli effetti personali del marito.

    «Avresti potuto avere la delicatezza di lasciarlo fare a me» gli disse freddamente, e lui rispose con il suo sorriso più smagliante.

    «Scusami Royan, pensavo di rendermi utile.» Stava fumando una delle sue grosse sigarette turche. Royan detestava quell’odore muschiato e penetrante.

    Si diresse alla scrivania di Duraid e aprì il cassetto in alto a destra. «L’agenda di mio marito era qui dentro. Adesso è sparita. L’hai vista?»

    «No, non c’era niente in quel cassetto.» Nahoot guardò i due agenti per conferma e quelli scossero la testa, strisciando i piedi. Non era poi così importante, pensò Royan. Nell’agenda non c’era molto che avesse un’importanza vitale. Duraid si era sempre affidato a lei per registrare e archiviare i dati più importanti, la maggior parte dei quali era nel suo computer.

    «Grazie Nahoot» lo congedò. «Mi occuperò io di quel che resta da fare. Non voglio distoglierti dal tuo lavoro.»

    «Per qualsiasi cosa, Royan, sono a disposizione.» La lasciò con un lieve inchino.

    Non ci mise molto a finire di sistemare le cose di Duraid. Disse alle guardie di portare gli scatoloni nel suo ufficio in fondo al corridoio e di impilarli contro la parete. Fino all’ora di pranzo lavorò per sistemare tutti i propri affari e quando ebbe finito mancava ancora un’ora all’appuntamento con Atalan Abou Sin.

    Se voleva mantenere la promessa fatta a Duraid avrebbe dovuto assentarsi per un po’. Per prendere congedo da tutti i suoi tesori preferiti scese verso l’ala aperta al pubblico dell’enorme edificio.

    Il lunedì era una giornata di grande affluenza e le sale espositive del museo erano invase da gruppi di turisti. Seguivano pedissequamente le rispettive guide, come pecore dietro al pastore. Si affollavano intorno ai reperti più famosi. Ascoltavano le guide che recitavano i loro discorsi preconfezionati in tutte le lingue di Babele.

    Le sale al secondo piano, dedicate ai tesori di Tutankhamon, erano gremite e non si fermò a lungo. Riuscì comunque a raggiungere la vetrina che conteneva la grande maschera mortuaria dorata del faraone bambino.

    Come sempre, di fronte allo splendore e al sentimento che ne spiravano, il respiro e il battito cardiaco accelerarono. Eppure mentre la osservava, sballottata da una coppia di turiste di mezza età, sudate e prosperose, si chiese, come aveva fatto spesso in passato, con quale sfarzo dovevano essere stati posti nei templi funerari i grandi faraoni della dinastia ramesside, se perfino un sovrano debole e insignificante aveva potuto essere inumato con una creazione così miracolosa a coprire i lineamenti mummificati. Ramses II, il più grande di tutti, aveva regnato per sessantasette anni e aveva trascorso decenni ad accumulare il proprio tesoro funerario, raccogliendo oggetti preziosi da tutti gli immensi territori che aveva conquistato.

    Subito dopo Royan andò a porgere i suoi rispetti al vecchio re. Dopo trenta secoli Ramses II dormiva con espressione rapita e serena sui lineamenti scarni. La sua pelle riluceva lievemente, quasi come il marmo. Le ciocche rade di capelli erano bionde e tinte con l’henné. Le mani, impregnate della stessa sostanza, erano lunghe, affusolate ed eleganti. Era coperto soltanto da una tela grezza di lino. I tombaroli avevano perfino tolto le bende alla mummia per prendere gli amuleti e gli scarabei inseriti fra i diversi strati, e il corpo era rimasto quasi nudo. Quando i suoi resti erano stati scoperti, nel 1881, nella stanza che nascondeva le mummie reali all’interno del complesso di Deir el-Bahari, a rivelare il suo lignaggio c’era solo un foglio di papiro appuntato sul petto.

    C’era probabilmente una morale in quella storia, pensava Royan, ma davanti a quei patetici resti si chiese di nuovo, come aveva fatto tante volte insieme a Duraid, se lo scriba Taita avesse detto la verità, se da qualche parte fra le remote, selvagge montagne dell’Africa un altro grande faraone dormisse indisturbato, circondato da tutti i suoi tesori intatti. Il solo pensiero le causò un brivido di eccitazione, sentì arrivare la pelle d’oca, la sottile peluria scura che si drizzava alla base della nuca.

    «Ti ho fatto una promessa, marito mio» sussurrò in arabo. «Lo farò per te, in tua memoria, perché tu hai aperto la strada.»

    Dopo un’occhiata all’orologio da polso, discese la scalinata principale. Le restavano quindici minuti prima di dover uscire per l’appuntamento con il ministro e sapeva esattamente come impiegare quel lasso di tempo. Voleva visitare una delle sale laterali, meno frequentate. Era raro che le guide ci portassero i turisti, a meno che non la usassero come scorciatoia per raggiungere la statua di Amenofi.

    Royan si fermò davanti alla teca vetrata che si estendeva fino al soffitto della stanzetta. Era ricolma di piccoli manufatti, attrezzi e armi, amuleti, recipienti e utensili: i più recenti risalivano alla ventesima dinastia del Nuovo Regno, del 1100 a.C., mentre i più antichi giungevano dalle nebbie dell’Antico Regno, vecchio di cinquemila anni. La catalogazione di quella massa di oggetti era solo rudimentale. Molti non avevano nemmeno una descrizione.

    All’estremità più lontana, sullo scaffale in basso, erano esposti gioielli, anelli e sigilli. Accanto a ogni sigillo c’era un pezzetto di cera su cui era impresso il disegno.

    Royan si inginocchiò per esaminare più da vicino uno di quei reperti. Il piccolo sigillo blu di lapislazzuli al centro del supporto mostrava una splendida incisione. Per gli antichi si trattava di un materiale raro e prezioso, che non esisteva in natura nell’impero egizio. Sulla cera accanto al sigillo era impresso un falco con un’ala spezzata e la semplice scritta al di sotto dell’immagine era chiara per Royan: TAITA, LO SCRIBA DELLA GRANDE REGINA.

    Sapeva che si trattava dello stesso uomo, perché sui papiri si firmava con il falco mutilato. Si chiese chi avesse trovato quell’oggettino, e dove. Forse qualche contadino l’aveva sottratto dalla tomba perduta dell’antico scriba e schiavo, ma lei non l’avrebbe mai saputo.

    «Mi stai prendendo in giro, Taita? È tutto una specie di scherzo elaborato? Stai ridendo di me anche adesso, dalla tomba, dovunque possa essere?» Si chinò per avvicinarsi ancora, fino a posare la fronte sulla superficie fresca del vetro. «Sei un amico, Taita, o sei il mio implacabile avversario?» Si alzò e scosse la polvere dalla camicetta. «Staremo a vedere. Giocherò con te e vedremo chi sarà più furbo» promise.

    * * *

    Il ministro la fece attendere solo qualche minuto prima che il segretario la accompagnasse alla sua presenza. Atalan Abou Sin indossava un completo lucido di seta scura e sedeva alla scrivania, anche se Royan sapeva che di solito preferiva sedersi a terra, su un cuscino sopra i tappeti che ricoprivano il pavimento, con un abbigliamento più comodo. Lui notò la sua occhiata e sorrise con aria seccata. «Oggi pomeriggio ho un incontro con degli americani.»

    A Royan piaceva il ministro. Era sempre stato gentile con lei ed era a lui che doveva il suo impiego al museo. Molti altri uomini nella sua posizione avrebbero rifiutato la richiesta di Duraid di avere un’assistente donna, e per di più la sua stessa moglie.

    Le chiese come stava e lei gli mostrò il braccio fasciato. «I punti cadranno entro dieci giorni.»

    Chiacchierarono educatamente per un po’. Solo gli occidentali avrebbero avuto l’impudenza di affrontare direttamente l’argomento più importante. Tuttavia, per risparmiargli l’imbarazzo, Royan colse la prima opportunità che lui le offrì per dire: «Ho bisogno di un po’ di tempo per me stessa. Devo elaborare il lutto e decidere che cosa fare del resto della mia vita, ora che sono vedova. Ti sarei grata se volessi prendere in considerazione la mia richiesta di un permesso non retribuito di almeno sei mesi. Voglio andare a stare da mia madre, in Inghilterra».

    Atalan sembrava sinceramente preoccupato per lei e rispose: «Ti prego, non lasciarci per troppo tempo. Il lavoro che hai fatto è inestimabile. Abbiamo bisogno che ci aiuti a proseguire da dove ha lasciato Duraid». Non riuscì però a nascondere del tutto il sollievo. Royan sapeva che si aspettava di sentire una richiesta per il posto di direttore del museo. Doveva averne parlato con il nipote. Ma era anche un uomo troppo gentile per poter godere nel dirle che non sarebbe stata scelta. La situazione in Egitto stava cambiando, le donne stavano uscendo dai ruoli tradizionali ma non a tal punto, né così rapidamente. Sapevano entrambi che il posto di direttore sarebbe andato a Nahoot Guddabi.

    Atalan la accompagnò alla porta dell’ufficio e la congedò con una stretta di mano. Scendendo in ascensore Royan provò un senso di liberazione.

    Aveva lasciato la Renault al sole, nel parcheggio del ministero. Quando aprì la portiera l’abitacolo era così rovente che avrebbe potuto cuocerci una pagnotta. Abbassò tutti i finestrini e cominciò a muovere velocemente la portiera del guidatore per far uscire l’aria calda, ma quando scivolò al volante la superficie del sedile le bruciò comunque la pelle delle cosce.

    Appena superati i cancelli si trovò imbottigliata nel traffico del Cairo. Procedette a passo d’uomo, dietro un autobus stracarico che eruttava sulla Renault una nuvola continua di diesel blu. Il problema del traffico sembrava non avere soluzione. C’erano così pochi parcheggi che le auto si fermavano ai bordi delle strade anche in terza e quarta fila, strozzando il flusso dei veicoli in movimento.

    Quando l’autobus che aveva davanti frenò, costringendola a fermarsi, Royan sorrise ripensando alla vecchia battuta sul fatto che chi parcheggiava a ridosso del marciapiede poi doveva abbandonare l’auto, perché diventava impossibile districarla dalle altre. Forse conteneva un po’ di verità, perché alcuni dei veicoli che vedeva non venivano spostati da settimane. I parabrezza erano completamente oscurati dalla polvere e molti avevano le gomme a terra.

    Guardò nello specchietto retrovisore. A pochi pollici dal suo paraurti c’era un taxi e al di là di quello il traffico era decisamente intasato. Solo i motociclisti avevano libertà di movimento. Ne vide arrivare uno che si destreggiava nell’ingorgo con abbandono quasi suicida. Aveva una Honda rossa da duecento cavalli talmente impolverata che il colore era quasi irriconoscibile. Sul sellino era appollaiato un passeggero e sia lui sia il guidatore si erano coperti la metà inferiore del viso con i lembi dei copricapi bianchi, per proteggersi dai gas di scarico e dalla polvere.

    Passando dal lato sbagliato, la Honda si insinuò nello stretto passaggio fra il taxi e le auto parcheggiate accanto al marciapiede, senza lasciare alcuno spazio di manovra sui lati. Il tassista fece un gesto osceno con il pollice e l’indice e chiamò Allah a testimone della follia e stupidità del motociclista.

    La Honda rallentò leggermente raggiungendo la Renault di Royan e il passeggero si sporse per far cadere qualcosa nell’abitacolo attraverso il finestrino aperto. Immediatamente il motociclista accelerò, in modo tanto improvviso da sollevare per un momento la ruota anteriore. Diede gas e sfrecciò via nello stretto vicolo che si diramava dalla strada principale, rischiando di investire un’anziana passante.

    Quando il passeggero della moto si voltò a guardarla, il vento sollevò il lembo di cotone bianco che gli copriva il viso e lei, sconvolta, riconobbe l’uomo che aveva visto l’ultima volta alla luce dei fari della Fiat, sulla strada vicino all’oasi.

    «Yusuf!» Mentre la Honda scompariva, Royan guardò l’oggetto che l’uomo aveva buttato sul sedile accanto a lei. Era di forma ovoidale e la superficie metallica riquadrata era dipinta di verde militare. Aveva visto quegli oggetti talmente spesso nei vecchi film di guerra che lo riconobbe all’istante come una granata a frammentazione; contemporaneamente si rese conto che la sicura era volata via e che la bomba sarebbe esplosa entro pochi secondi.

    Senza pensare, afferrò la maniglia e si gettò con tutto il peso contro la portiera, che si spalancò facendola rotolare in strada. Il piede le scivolò sulla frizione e la Renault scattò in avanti, schiantandosi contro l’autobus fermo.

    Mentre Royan si sdraiava sull’asfalto, fra le ruote del taxi, la granata esplose. Dalla portiera aperta del guidatore uscì una cascata di fiamme, fumo e detriti. Il finestrino posteriore esplose, ricoprendola di frammenti di vetro trasparente, e la detonazione le ferì i timpani.

    Allo shock dell’esplosione seguì un silenzio sbalordito, disturbato soltanto dal tintinnio delle schegge di vetro che cadevano, poi all’improvviso si scatenò un baccano di gemiti e grida. Royan si mise a sedere, stringendosi al petto il braccio ferito. Ci era caduta pesantemente sopra e i punti le facevano un male da morire.

    La Renault era distrutta, ma vide che la sua borsa a tracolla di pelle era stata sbalzata fuori dalla portiera e giaceva sulla strada a poca distanza. Si alzò faticosamente in piedi e andò a raccoglierla barcollando. Intorno a lei regnava la confusione. Alcuni passeggeri dell’autobus erano feriti e una scheggia di granata o di lamiera aveva colpito una bambina sul marciapiede. La madre urlava e tergeva il visino insanguinato con il foulard. La piccola si agitava fra le sue braccia e gemeva pietosamente.

    Nessuno prestava attenzione a Royan, ma lei sapeva che la polizia sarebbe arrivata in pochi minuti. Erano addestrati a reagire immediatamente agli attacchi dei terroristi fondamentalisti. Sapeva che se

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