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Il ramo di Giuda
Il ramo di Giuda
Il ramo di Giuda
E-book501 pagine

Il ramo di Giuda

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Info su questo ebook

Un'epica avventura tra fede e eresia. Da Gerusalemme del 33 d.C. a Lione nel 1692 e Roma nel 2014, Il ramo di Giuda svela un terribile segreto legato al tradimento di Giuda. Unisciti ai protagonisti per scoprire chi fu Jacques Aymar, il rabdomante con un pericoloso potere, e i malvagi Cainiti. Un romanzo  che ti terrà incollato alle pagine fino alla sorprendente verità.
Preparati ad essere affascinato dal lato oscuro della Storia!

Gerusalemme, 33 d.C.  
Mentre ancora pencola dall'albero, alcuni uomini tirano giù il corpo di Giuda il traditore, spezzando il ramo a cui si è impiccato e facendone una sacra reliquia del Male. Sono Cainiti, setta eretica che venera tutti i "peggiori" dell'umanità, secondo l'insegnamento delle Scritture. 
  
Lione, 1692   
Un duplice omicidio alla Taverna dell'Alloro spinge le autorità a convocare Jacques Aymar, un rabdomante la cui bacchetta, detta la Sanguinaria, pare abbia la capacità di scovare i criminali. Ma la cosa giunge alle orecchie del dispotico principe di Condé, affetto da licantropia e capo dei Cainiti. 
  
Roma, 2014 
Durante la Settimana Santa il gesuita Martin de Murua viene assassinato. Studiava un antico codice sulle sette eretiche, assieme al confratello Luca Giuliano, che chiede aiuto al cognato bibliofilo e alla sorella sensitiva. La scoperta di un disegno raffigurante l'Ultima Cena, ricco di riferimenti cabalistici al "bastone di Giuda", li sospingerà da Canterbury a Napoli alla ricerca della misteriosa forcella di legno. Ma i pericolosi Figli di Caino sono già sulle loro tracce... 
LinguaItaliano
Data di uscita4 ott 2023
ISBN9791280324375
Il ramo di Giuda

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    Anteprima del libro

    Il ramo di Giuda - Carlo Animato

    CARLO ANIMATO

    Il ramo di Giuda

    Solo il Traditore conosceva la Verità

    romanzo

    Immagine che contiene Elementi grafici, design Descrizione generata automaticamente

    EDIZIONI IL VENTO ANTICO

    Pagina di benvenuto

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    Informazioni su questo libro

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    Indice

    About this Book

    Gerusalemme, 33 d.C.

    Mentre ancora pencola dall'albero, alcuni uomini tirano giù il corpo di Giuda il traditore, spezzando il ramo a cui si è impiccato e facendone una sacra reliquia del Male. Sono Cainiti, setta eretica che venera tutti i peggiori dell'umanità, secondo l'insegnamento delle Scritture.

    Lione, 1692

    Un duplice omicidio alla Taverna dell'Alloro spinge le autorità a convocare Jacques Aymar, un rabdomante la cui bacchetta, detta la Sanguinaria, pare abbia la capacità di scovare i criminali. Ma la cosa giunge alle orecchie del dispotico principe di Condé, affetto da licantropia e capo dei Cainiti.

    Roma, 2014

    Durante la Settimana Santa il gesuita Martin de Murua viene assassinato. Studiava un antico codice sulle sette eretiche, assieme al confratello Luca Giuliano, che chiede aiuto al cognato bibliofilo e alla sorella sensitiva. La scoperta di un disegno raffigurante l'Ultima Cena, ricco di riferimenti cabalistici al bastone di Giuda, li sospingerà da Canterbury a Napoli alla ricerca della misteriosa forcella di legno. Ma i pericolosi Figli di Caino sono già sulle loro tracce.

    Serie

    I Romanzi

    Questo libro è un'opera di finzione e, tranne che nel caso di fatti storici, qualsiasi somiglianza con persone reali, vive o morte, è puramente casuale. È stato fatto ogni sforzo per ottenere le autorizzazioni necessarie con riferimento a materiale protetto da copyright, sia illustrativo che citato. Ci scusiamo per eventuali omissioni al riguardo e saremo lieti di rendere i riconoscimenti appropriati in qualsiasi edizione futura. 

    a Nina e Mario,

    e furon questi i due forti avversari

    che m’hanno generato

    Quella di Jacques Aymar è una storia vera, e poco nota. L’ho romanzata facendone una metafora della dualità, dualità che è ben raffigurata dalla forma evidente della bacchetta del rabdomante. Il romanzo si snoda su tre piani temporali, raccontati in un vivace alternarsi di vicende, capitolo dopo capitolo.

    L’Autore dichiara di aver trattato la materia dell’opera da puro filosofo, e che dalla medesima né egli trae, né i suoi lettori debbono trarre un argomento, benché minimo, contrario ai santi dogmi della nostra Cattolica Religione, dei quali si protesta veneratore e seguace.

    PERSONAGGI

    a Lione

    François Rambaud, luogotenente criminale

    Augustin, il suo segretario

    Philibert La Chapelle, procuratore del re

    Jean Baptiste Dulieu, rappresentante dei mercanti

    Bernard Lafont, capo della polizia

    Gilbert Agneli, vicecancelliere sussidiario del tribunale

    Jacques Aymar Vernay, rabdomante

    Pierre Le Lorrain abate di Vallemont, scrittore

    Henri Jules de Bourbon-Condé, principe e pari di Francia

    a Roma

    Lorenzo Gallicchio, bibliofilo

    Vichi Giuliano, la sua fidanzata

    Francesco Saverio Fienga, fotografo

    padre Luca Giuliano, gesuita

    padre Martín de Murua, bibliofilo

    monsignor Emanuele Lisai, capo dei Cainiti

    frate Francesco Pasquino, nunzio apostolico

    Andrea Euplio, erudito napoletano

    a Napoli

    Sgueglia Gennaro, presepiaro

    don Egidio, boss di Forcella

    Gennaro suo figlio, l’uomo dalle scarpe immacolate

    a Venezia

    Ludovico Canal, conte

    a Canterbury

    Alfred Church, archivista della Cattedrale

    Poiché non c’è nulla di nascosto che non sarà rivelato

    o di segreto che non sarà portato a conoscenza.

    Ireneo di Lione

    – Quell’anima là su c’ha maggior pena, –

    disse ’l maestro – è Giuda Scariotto,

    che ‘l capo ha dentro e fuor le gambe mena.

    Dante Alighieri

    Prologo

    Gerusalemme, Anno Domini 33

    Allora Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò le trenta monete d'argento ai sommi sacerdoti e agli anziani dicendo: «Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente». Ma quelli dissero: «Che cosa ci riguarda? Ora veditela tu!». Ed egli, gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò e andò a impiccarsi.

    Ed egli morì sospeso, affinché colui che aveva offeso gli angeli in cielo e gli uomini in terra fosse separato dalla sfera degli angeli e da quella degli uomini, e venisse associato ai demoni dell’aria.

    Capitolo 1

    Lione, 5 luglio 1692

    Quel sabato sera, l’ultimo quarto di luna era una cicatrice nel cielo sopra il pergolato dell’Osteria dell’Alloro.

    «È ora di chiudere» brontolò Antoine contro i tre clienti abituali, i quali, alticci com’erano, non mostravano alcuna intenzione di sloggiare.

    «Portaci piuttosto dell’altro rosso, padrone» farfugliò Jean Remilly, operaio nelle seterie reali.

    Estienne Ranet, aiutante nella tipografia paterna, che già da un po’ sbadigliava senza ritegno, gli fece eco: «Sì, e tira fuori un vino che sia fatto con l’uva».

    «Io penso che…» cominciò il muratore Louis Ray, che era il più sbronzo di tutti. Il resto del suo pensiero, però, si perse in un borbottio incomprensibile.

    Antoine, per tutta risposta, si mise a raccattare fiaschi e bicchieri. «Tornatevene a casa, se ne avete una, razza di buoni a nulla che non siete altro.»

    La sortita fu accolta da un mezzo applauso, una pernacchia e un rutto.

    «Perché ci maltratti, o cantiniere? Noi ti siamo affezionati.»

    «In fondo tu lo sai che ti vogliamo bene.»

    «E non ti scordare che…»

    «Adesso basta!» tuonò il taverniere, che di giorno faceva il ciabattino, e grazie ai due mestieri aveva ammassato un bel po’ di denaro. Aveva un fisico imponente nonostante i suoi sessant’anni. Incrociò le braccia, si mise a gambe larghe e diede una voce alla moglie: «Marie, vieni a darmi una mano a chiudere».

    «Sentitelo, chiama i rinforzi» sghignazzò l’operaio tessile.

    E l’apprendista stampatore: «Marie, oh Marie!», parodiò.

    «Disgraziati, vi posso menare tutti e tre con una mano sola.» Adesso l’oste scuoteva le loro sedie con malacreanza. «Ma se non ve lo ricordate voi, il regolamento di polizia proibisce di servire da bere dopo le dieci.»

    «Leggi e divieti…» sbuffò il tipografo. «Ogni giorno ce n’è una nuova. Io mi domando dove andremo a finire!»

    «In questo Paese c’è troppo sole e poca libertà» bofonchiò il muratore, reso coraggioso dal vino.

    Antoine non gli badò, continuando a sfregare il tavolo con uno strofinaccio sudicio color vinaccia. La moglie, intanto, era uscita a dargli man forte. Era un donnone senza grazia, appena meno massiccia del marito, collo da elefante, peluria ispida sotto il naso, e capelli stopposi, malamente raccolti dentro una cuffia, che sfuggivano da tutte le parti.

    «Così sia» esordì, asciugandosi le mani grandi sul grembiule con gesti impazienti. «Ma se ti sentono le guardie di re Luigi, ti fucilano sul posto, e il sole te lo giochi.»

    «Madama…» barcollando sulle gambe, il tipografo sollevò una mano vuota per aria, impugnando un boccale inesistente. «Avremmo certo brindato alla vostra saggezza, se quel cialtrone che vi siete sposato non ci avesse privato del piacere e dello spirito perché teme di pagare una misera multa al Re.»

    «Con tutti i soldi che prende da noi» sottolineò l’operaio, ricadendo pesantemente sulla sedia.

    «Proprio…» concordò il terzo.

    L’aria intimidatoria, l’ostessa si rimboccò le maniche e mostrò due braccia vigorose. «Come dite voi. Ma sono stanca. E se non ve ne andate subito, le guardie le chiamo io!»

    La minaccia poté più dell’arsura. E dopo essersi salutati più volte, ciascuno dei tre zigzagò verso casa, mentre Antoine e Marie riportavano i tavoli e le sedie dentro la cantina.

    Y

    «Padrone!»

    Richiamato da una voce stentorea, il taverniere apparve sull’uscio, un lume tra le mani, intanto che si preparava a chiudersi dentro. Si trovò faccia a faccia con un forestiero, naso camuso e capelli rossicci.

    «Cosa volete? Siamo chiusi» disse Antoine, squadrando il nuovo arrivato alla luce della lampada. Un rumore più in là e si accorse che, pochi passi più indietro, nella penombra, c’era un altro tizio, tarchiato gli sembrava; e poi un altro, più basso, che gli dava le spalle.

    «Siamo nuovi del paese» riprese il forestiero. «Da stamane lavoriamo alle manifatture della seta, siamo usciti per fare due passi e ci è venuta sete. Ci chiedevamo se poteste venderci un po’ del vostro…»

    «Siete forestiero e non conoscete la lingua che si parla qui? Vi ho detto che l’osteria è chiusa.»

    Quello materializzò tra le dita una moneta nuova d’argento. «Non vogliamo disturbarvi, padrone» sorrise mellifluo. «Se poteste fare uno strappo e ci deste un paio di bottiglie, ce le porteremmo con noi all’ospizio. Spero che questa basti a compensare il vostro fastidio.»

    L’oste era come ipnotizzato da quel tondino di metallo lucido, che brillava alla luce della lampada, e che ripagava lautamente sia il vino sia il disturbo. «Vi do il vino e voi ve ne andate?» chiese comunque, più per mantenere il punto che per sincerarsene.

    «Due bottiglie del migliore, e non ci vedrete più fino a domani.»

    «All’Osteria dell’Alloro solo vino di prima qualità, signor mio!»

    «Non ne dubitiamo» gli sorrise ancora il forestiero. «Noi perciò siamo qua…»

    Capitolo 2

    Gerusalemme, Anno Domini 33

    Nel cielo livido del tardo pomeriggio, schiaffeggiato da un vento stizzoso alzatosi all’improvviso, il cadavere pencolava dal tronco contorto. Sotto nuvole plumbee, quello era l’unico albero superstite nel campo brullo. Una corda di pescatore tratteneva il corpo per aria, sfregando il collo dello sventurato e la base del ramo ferito, da cui colava un po’ di liquido giallastro. L’albero non aveva messo ancora le foglie, ciononostante era già ricoperto di fiori. Migliaia di boccioli color rosa intenso punteggiavano tutti i rami, tranne quello riverso sotto il peso odioso dell’impiccato. Lì, come innocenti in fuga dalla morte, i fiori si erano precipitati sul terreno lasciando il ramo nudo e scuro, simile a un moncherino premuto contro il cielo.

    Tre uomini scendevano ora dalla collina, avvicinandosi cauti al campo del vasaio. Due di loro imbracciavano una scala da giardiniere e una sacca. Quando raggiunsero l’improvvisata forca sostarono dinanzi all’albero in silenzio. Uno stormo di corvi minaccioso li spiava, le penne carbone arruffate dal vento che muggiva infilandosi tra i crepacci.

    Il più vecchio dei tre aveva la barba nera, i capelli bianchi, la fronte solcata da una ragnatela di linee profonde. E occhi d’un blu forestiero, inusuali per quelle contrade, però appena visibili sotto il copricapo che gli proteggeva il volto dalla polvere. Le sue mani tracciarono per aria dei gesti nervosi. I complici – due giovani dalla carnagione bruciata dal sole e dai lineamenti identici – compresero senza necessità di parole.

    Sotto il cadavere, uno di loro posizionò la scala, la poggiò al tronco e vi salì lesto, mettendosi a cavalcioni del ramo. L’altro gli allungò una sega; poi stese un telo di lino grezzo sotto l’albero e abbracciò le gambe dell’appeso, ponendosi alle sue spalle. Il gemello passò una fettuccia di tessuto sotto le ascelle del morto, si accertò che l’imbracatura fosse ben salda e cominciò a resecare il cappio. La corda già tesa allo spasimo ben presto cedette sotto il peso dell’impiccato. Il corpo martoriato ricadde in avanti tentando di vorticare su se stesso; ma l’uomo in alto, anche se a fatica, lo tenne fermo grazie alle briglie, rilasciandolo lentamente finché non raggiunse il suolo.

    Adesso il suicida venne adagiato rispettosamente sul tessuto, ricomposto, circondato e pulito. Mani pietose mondarono il corpo con una spugna imbevuta d’acqua e aceto, che dissolse il sangue rappreso. Unguento di Aleppo fu spalmato sul collo livido, segato e scorticato dal cavo penetrato fin dentro la carne. Un pettine pietoso portò via le foglie dai capelli seccati dal vento. Un panno immacolato deterse il sudore e raccolse la bava; un altro, del color dell’ambra nera, raccolse gli escrementi fuorusciti dagli intestini.

    Giunse infine il tempo di andare. Il vecchio teneva entrambe le mani sul viso. Quando le abbassò, aveva il volto rigato di lacrime, che asciugò strusciandovi contro il braccio. Impugnò la sega e la diede a uno dei due. Quindi alzò la sinistra tremante contro il cielo e puntò il suo indice scheletrico contro l’orizzonte. Contro l’albero. Contro il ramo.

    Messa la mano destra a taglio sul collo, fece un gesto netto di cesura. Allora il gemello alto risalì sulla scala e cominciò a potare…

    Capitolo 3

    Napoli, 17 aprile 2014 (giovedì santo)

    Secondo la storia sacra, da Betlemme a Gerusalemme intercorsero trentatré anni. Secondo la geografia, invece, le due località distano solo venti minuti. Poco più di sette chilometri affiancati per buona parte da un muro fatto di cemento e odio, cicatrice palestinese che divide eterni nemici.

    Quella mattina, tuttavia, sugli scaffali in legno della Premiata Ditta Cavalier Sgueglia Gennaro, al civico dieci di via san Gregorio Armeno, la distanza fra le due città di Terrasanta – o, per meglio dire, dal Natale alla Pasqua – si riduceva a due metri scarsi. Senza divisioni o steccati, entro i muri solidi di un laboratorio invaso da centinaia di pastori in vendita, nell’attesa di trasferirsi sui presepi di chiese e famiglie. Sotto lo sguardo impassibile di un’umanità di terracotta, allineata sulle mensole ruvide con criterio e misura, il tragitto tra Natività e Passione durava appunto tre passi, né più e né meno come dentro ogni negozio dell’intera strada.

    Un trillo attutito di cellulare.

    La chiamata risuonò in mezzo a pecorai solleciti, angeli glorificanti e diavoli scornati, re magi, comete e dromedari, appena appena sfiorati da una leggera coltre di polvere. Altre scansie, sulla parete opposta, ospitavano in promiscuità caverne mediorientali, mercati meridionali di generi alimentari, ruderi di templi romani, cascatelle, laghetti, osterie napoletane. E via via, lungo il perimetro del terraneo, giacevano ammucchiati pacchi di sughero legati con spaghi, vasche piene di licheni debordanti e sacchetti di neve finta.

    Driin, driin, driin.

    Il cellulare continuava a squillare, mentre pensavo che le feste di fine anno distavano ancora otto mesi, ma le truppe natalizie erano già lì tutte schierate per il grande evento. E se per il momento sembravano solo intente a combattere contro muffa e inedia, in realtà erano già pronte a balzare in scena sui notturni dirupi dell’arrivo del Re dei Re.

    Driin, driin, driin.

    «È il vostro telefono?» mi chiese il vecchio bottegaio, seduto su una seggiola in un angolo del suo esercizio.

    «No» dissi laconico, intanto che ammiravo un piccolo diorama verticale affollato di figurine in miniatura.

    «In vacanza lo spegne, per evitare seccature» precisò la bionda che mi accompagnava.

    Driin, driin, driin.

    «Allora deve essere il mio. Il fatto è che non ricordo mai dove lo metto.» Il cavalier Sgueglia, ottant’anni compiuti, le mani callose dell’artigiano e un paio di occhiali spessi come fondi di bottiglia, si guardò intorno.

    Però gli squilli cessarono. «E siete di Roma?» aggiunse.

    Io annuii appena, senza distogliere l’attenzione dal presepe protetto sotto una campana di vetro tirata a lucido, la quale rifrangeva l’immagine di un uomo col mio volto: quarant’anni, capelli e occhi scuri, zigomi morbidi, barba sale e pepe.

    «Si vede subito!» esclamò il vecchio, spingendo meglio le lenti sulla sella del naso rubizzo. «E cosa fate nella vita, a Roma?»

    «Si occupa di libri antichi» rispose al mio posto la bionda, come a giustificare la mia taciturnità.

    Il bottegaio meditò quelle parole e se ne stette tranquillo per un po’. Finse di sistemare una decina di re magi neri già inginocchiati in attesa dell’Epifania, già perfettamente sistemati a uno a uno accanto alle file di gaspari e melchiorri in sella ai loro cammelli, ma alla fine non si trattenne più: «Signora, voi che venite dalla capitale, ve lo volete comprare un papa?».

    «In che senso, scusi?» domandò lei, che era molto più giovane e curiosa di me, sgranando i suoi occhi verde muschio.

    Da un mobiletto d’angolo, l’uomo trasse una serie di statuine: alcune con l’abito liturgico, pallio mitria e pastorale; altre con mozzetta e stola diplomatica; altre ancora vestite di bianco. Tutte, però, raffigurate in atteggiamento ieratico, con la mano destra sollevata e benedicente. «Qui ci sta il papa nuovo» spiegò. «Quello è il pontefice dimissionato, quell’altro è quello buono, il santo… Li trovate rassomiglianti?»

    «Sì, ma…»

    «Li faccio tutti io, con queste mani. Chiedete, signurì, noi qua teniamo tutto il Vaticano!»

    Vichi mi cercò col suo sguardo bellissimo, e perso, a causa di una maculopatia che da anni le erodeva lentamente la vista.

    «Lorenzo, che dici? Un papa ci può servire?»

    «Potresti comprarne uno per Luca» risposi, sbucando al di sotto di un angelo in stile settecentesco, avvolto in un panno antichizzato color avorio. Il putto guardava verso l’alto, impugnava una cetra e sorrideva all’Ineffabile, tenendosi per aria con le ali spiegate appese a un filo dondolante attaccato al soffitto del terraneo adibito a negozio.

    Al mio suggerimento la mia fidanzata annuì. «Cavaliere, mi dia allora la statuina più recente. Sa, anche mio fratello è gesuita come il papa in carica.»

    «Ma tu guarda la combinazione!» esclamò Sgueglia Gennaro, battendo le mani al caso e all’affare. S’impegnò subito a scegliere il pezzo migliore.

    «Amore, devo mostrarti assolutamente una cosa.»

    La trassi a me e le indicai un vecchio tavolo col ripiano di marmo cipollino. Vi era poggiata una vetrinetta impolverata più alta che larga, contenente la riproduzione d’un monte spiraliforme sul quale sostavano delle figurine. Da sole o in gruppi, parevano impegnate in una sorta di pellegrinaggio funebre. Il mobiletto sembrava di scarso valore, col legno oltraggiato dai tarli e le lastre opacizzate dal tempo.

    Vichi avvicinò la testa all’armadio.

    «Che strani pastori, non ne ho mai visti di simili.»

    «Nemmeno in qualcuno dei tuoi viaggi nel tempo?» chiesi.

    «Se lo dici così, mi fai somigliare all’ufficiale di bordo di una nave galattica, invece la mia è soltanto un po’ di sensitività. E comunque no, mai viste statuette così, sennò me le ricorderei.»

    Le sorrisi. «Perché questi non vengono da Betlemme, come tutti gli altri. Questi qui vivono a Gerusalemme.»

    «Lore, e che vuol dire?»

    «Signurì, vostro marito vuole dire che sono pastori da settimana santa, non da natale. E quello non è il Vesuvio ma è il Monte Calvario!» Materializzatosi alle nostre spalle, il cavaliere accese un interruttore volante sul tavolo e diede luce all’interno dell’armadietto antico. Adesso, dietro i vetri, apparve più nitida una misteriosa processione che si inerpicava lungo tre rampe di sughero, composta da incappucciati vestiti di bianco e di nero, donne in gramaglie, centurioni romani, uomini di varie razze, apostoli e pie donne.

    Sulla sommità del monte, il Cristo in croce restava affiancato dai due ladroni, le croci ravvicinate che si stagliavano contro il cielo e il destino. In fondo alla scena, in un margine, solitario e di un’oscena bruttezza, il Traditore si era impiccato al suo rachitico albero maledetto. Aveva la testa circondata da un nimbo nero e, sotto di lui, un vecchio cellulare color rosa confetto, modello a conchiglia, col display illuminato, ricominciò a suonare.

    «Questo non mi pare uno dei simboli della passione» notai, consegnandolo al negoziante, che stringeva ancora tra le mani la figurina del papa di terracotta.

    «Ecco dov’eri finito, disgraziato!» Il cavalier Sgueglia, strapazzò l’apparecchio per spegnerlo: «Deve essere mia moglie Carmela, ma la richiamo dopo».

    «Scusate, avete il pastore dell’allenatore del Napoli?» In quel momento la voce di un nuovo avventore distolse il negoziante e lo fece allontanare.

    Vichi rituffò la testa contro i vetri affumati.

    «È bellissimo, tesoro, ma chissà quale prezzo chiede, ammesso che sia in vendita. E poi crede che siamo già marito e moglie, l’hai sentito, no?»

    «Allora facciamoci un regalo nuziale e festeggiamo» risposi, abbracciandola da dietro. Ma proprio in quell’istante Sgueglia tornò da noi e ci staccammo.

    «Cavaliere» gli dissi, «a me questa rappresentazione in terracotta piace. Perché mi ricorda i cortei religiosi allestiti nei giorni dolorosi della Pasqua dalle confraternite andaluse.»

    «Professò, questo tipo di presepe pasquale ha una tradizione antica assai. Si chiama sepolcro a personaggi, ma non c’è bisogno che andate così lontano. Basta che vi fate un salto in costiera, da Sorrento ad Amalfi a Procida, in questa settimana santa, e le processioni le fanno pure là, tali e quali… Allora, vi interessa l’oggetto?»

    Guardai Vichi, che guardò il bottegaio e gli sorrise: «Cavaliè, ci interessa».

    «E allora per gli occhi belli della vostra signora… e pure perché tiene un fratello gesuita… poi perché so’ contento che questi pezzi finiscono a Roma, a casa vostra… vi faccio un prezzo speciale, con tutto il mobile, quanto è vero che mi chiamo Sgueglia, cavalier Gennaro!» E accompagnò l’offerta generosa baciandosi le punte delle dita.

    Il cellulare rosa confetto squillò ancora.

    «Risponda a sua moglie, coraggio.»

    Questa volta l’artigiano mi diede retta e affibbiò a Vichi il pastore del papa.

    «Carmela, dimmi.»

    Due parole, poi ammutolì. Dapprima smozzicò un ma che diav…?, quindi non spiccicò più parola per un bel pezzo. Lo vidi impallidire dinanzi ai nostri occhi, guardandosi attorno. Mormorò nell’ordine un , un signorsì, un sissignore e un sempresialodato, e staccò il ricevitore dall’orecchio. Lo tenne sospeso per aria, allontanandolo con un’espressione stralunata e puntandocelo contro.

    «Cavaliere, che c’è? Sua moglie non sta bene?»

    Imbambolato, l’altro scosse la testa. «Non è mia moglie, signora. Cercano voi due. Fate presto.»

    «Noi?»

    «È il gesuita» chiarì il vecchio, con un’aria preoccupata, passandole il telefonino. «Fate presto.»

    «Tuo fratello Luca?» chiesi incredulo. «Ma come ha fatto a…?»

    Vichi mi fece spallucce e riaffidò la statuetta del papa al bottegaio.

    «Fate presto, per carità di Dio!» esclamò Sgueglia Gennaro, guardando il cellulare come se potesse esplodere da un momento all’altro. «Quello continua a ripetere che è tutta una questione di vita o di morte!»

    Capitolo 4

    Lione, 6 luglio 1692

    Quella mattina il Luogotenente Criminale François Rambaud aveva un diavolo per capello – letteralmente – e il parrucchiere Pierre tentava di porvi rimedio con l’arte sua. Due giorni prima, l’irritato funzionario gli aveva ordinato una nuova parrucca, più alta e più gonfia di quella sfoggiata dal Procuratore del Re nell’ultima serata musicale a casa del magistrato de Bourg. Fra decotti, impiastri, polveri e tinture, l’acconciatore aveva lavorato anche di notte per soddisfare il suo capriccioso cliente, e la consegna del nuovo posticcio era stata preventivata per il giorno seguente.

    Rambaud, invece, l’aveva fatto chiamare precipitevolissimevolmente, nonostante fosse domenica e il toupet non fosse ancora terminato; e lui aveva dovuto scapicollarsi a servirlo con tutta la pazienza e il mestiere di cui era capace.

    Adesso, per l’ultima prova, Pierre stava risistemando la parrucca, gonfia come un soufflé al formaggio, sulla testa quasi del tutto calva del bizzoso cliente, irrequieto in poltrona dinanzi alla toeletta. E ora gli si affannava d’intorno, abbondando in forcine, cipria e acqua di colonia.

    Fermo in piedi, accanto allo specchio, al segretario di Rambaud toccava il compito di leggere a voce alta la pubblicazione di certi casi giudiziari finiti dentro i codici.

    Il quarantenne Augustin Granet, alto e curvo come un giunco piegato dal vento, fisicamente insignificante ma dotato di acuta intelligenza e maniere acconce, era al servizio del Luogotenente da dieci anni, sei mesi e otto giorni.

    «Il signor Guiard, prete cappellano di Villeberny, aveva una tresca con Jeanne Baudot, sua parrocchiana, moglie di Gabriel Bizot, assente da casa per servizio del Re…»

    «Ti ho detto che la volevo più alta» brontolò Rambaud insoddisfatto contro il parrucchiere, sollevando una mano verso il soffitto. «È dall’altezza che si misura l’importanza, e io non posso essere da meno del Procuratore, per la cipolla!»

    «Eccellenza, vi assicuro che questa lo supera di almeno tre dita» sospirava Pierre, col pettine sospeso a mezz’aria.

    «E no, non basta! Ti avevo chiesto che fosse anche più gonfia. È dal volume che si valuta l’autorevolezza, dovresti saperlo.»

    «Senza dubbio alcuno, eccellenza. E io, come voi avete richiesto, ho aggiunto stanotte altre due dozzine di boccoli.»

    «Però monsieur La Chapelle è sempre più folto di me» borbottò stizzito. In effetti era una vera e propria fatica quotidiana, quella di sottoporsi al complicato e importante rituale di superare tutti gli altri nell'abbigliamento, nella conversazione e nelle apparenze.

    «Mi permetto di contraddirvi ma fidatevi delle mie parole: questa volta il Procuratore del Re non prevarrà!» sospirò l’acconciatore con la restante pazienza. Quindi fece una pausa, sistemando un ricciolo ribelle; poi spostò il busto all’indietro, lo squadrò con sguardo professionale e ratificò, scandendo ogni sillaba: «Siete divino, monsieur. Di-vi-no».

    Rambaud si rimirò nello specchio. «Trovi?»

    «In questa città nessuno, eccellenza, e dico nessuno, indossa parrucche con la stessa ammirevole grazia.»

    Il complimento piacque al cliente, gli spianò le sopracciglia corrucciate e parve placarlo.

    «Continua, Augustin.»

    «Ora Gabriel Troquette, suo cognato, e Jean Bizot, procuratore speciale di tutti i suoi beni, sorpresero il prete nella casa della Baudot, alle dieci di sera, e lo picchiarono…»

    «Pierre, maledizione! Fa’ piano con queste forcine.» Il Luogotenente alzò il braccio minaccioso.

    «Vi chiedo scusa, eccellenza, ma tenete ferma la testa ancora un poco.»

    Il segretario riprese da dove si era interrotto: «Quello si lamentò delle mazzate, e ottenne un decreto di arresto contro i due; questi chiesero alla Corte il rilascio e il permesso di render pubblico l’adulterio. Il permesso fu loro accordato dal Parlamento di Dijon nel luglio scorso».

    Smarritosi nella nuvola di talco all’odor di lavanda provenzale, che ora pioveva sulla capigliatura, come sale arabo sul dolce, Rambaud tossì per un po’. «Sì, Augustin, ricordo il caso. Questa zompettina di Jeanne Baudot si oppose in giudizio, sostenendo che l’unico a poterla accusare di adulterio era il marito, che però era assente. Non è così?»

    «Perfettamente, eccellenza. Ma le fu replicato che non veniva accusata la donna, bensì il prete, e che la decisione non nuoceva alla donna poiché si trattava soltanto di punire il libertinaggio del sacerdote.»

    «Preti dissoluti. Non pensano che alle femmine e al denaro.» Il Luogotenente si lisciò un boccolo impertinente, inquietandosi subito al tatto. La bocca gli si distorse in una smorfia cattiva. «Diamine, ma che cosa hai usato per la mia parrucca, Pierre? Lana di pecora? Crine di cavallo? E me li fai pagare per capelli veri?»

    «Eccellenza, volete scherzare! Non metterei mai in posa sulla vostra testa dei prodotti così dozzinali. Voi mi offendete…»

    «Con quello che mi costi, ti pago anche per sopportare le mie offese.»

    Bussarono alla porta. Il segretario aprì uno spiraglio dell’uscio, dando ascolto al maggiordomo.

    «Cosa vogliono, Augustin, di domenica e a quest’ora?»

    «Eccellenza, hanno rinvenuto due cadaveri in un’osteria, dalle parti della Loge du Change.»

    «Chi li ha trovati?»

    «Un vicino.»

    «È già stato avvertito qualcuno?»

    «Il prevosto dei mercanti, che sta andando sul posto in rappresentanza della categoria. E naturalmente monsieur Philibert La Chapelle, appena tornato da Parigi.»

    «C’è anche il Signor Procuratore? Di bene in meglio! Pierre, se hai fatto un buon lavoro in altezza e profondità, lo verificheremo subito. E augurati che tu abbia avuto ragione, sennò, per la cipolla…»

    Capitolo 5

    Gerusalemme, Anno Domini 33

    Una ruvida tavola di cedro, grande quanto l’unico battente della porta, apparve sull’uscio del laboratorio, oscurandolo. Ondeggiava pericolosamente nell’aria, come vela in balia di venti inesistenti, quasi fosse nel mezzo di una burrasca sul lago Tiberiade. L’apprendista che la trasportava faceva del suo meglio per non soccombere sotto quel peso. Entrò in bottega col suo carico e con un ultimo sforzo raggiunse i due cavalletti, posti l’uno di fronte all’altro, abbattendovi il legno proveniente dalle foreste libanesi. Il tonfo sordo richiamò il padrone, il quale accorse dalla stanza affianco per aiutare il ragazzo a sistemare il legname con criterio. L’uomo fissò una zeppa sul pavimento per bloccare un trespolo difettoso, poi assicurò l’asse con quattro morsetti per incastrarlo e lavorarlo meglio.

    Dopo aver passato la mano callosa sul ripiano, saggiandone le asperità, il carpentiere si chinò sul traversone grezzo per scrutarne i dossi. Saggiò qua e là, valutò l’imbarcatura del legno, quindi impugnò la pialla per spianare e assottigliare secondo misura. Ma l’attrezzo – un parallelepipedo più lungo che largo, con in mezzo una feritoia da cui sporgeva uno scalpello di ferro – non cominciò nemmeno la sua corsa che tre individui fecero irruzione nel laboratorio, ansanti e preoccupati, come se avessero qualcuno alle calcagna.

    Quello più vicino all’ingresso si affacciò sull’uscio, appiattendosi contro lo stipite per non farsi notare. E restò lì, in attesa. Soltanto quando fu convinto che nessuno li seguiva, parve calmarsi e si affiancò ai compagni, uno dei quali reggeva un fardello ingombrante. D’istinto, l’apprendista afferrò un’ascia e si parò davanti agli intrusi, senza sapere bene però cosa fare.

    A quel punto il più vecchio dei nuovi arrivati, barba nera e chioma candida, fissò l’artigiano con i suoi occhi d’un blu intenso. Gli altri, di pelle olivastra, sostavano alle sue spalle, a un passo di distanza, in evidente stato di soggezione.

    «È tutto a posto, Nethanel. Puoi abbassare il tuo attrezzo, ora.» Il padrone rassicurò il ragazzo. Poi, ancora con la pialla in mano, si affacciò sulla soglia per controllare personalmente che non sopraggiungesse nessun altro.

    Il falegname non pareva affatto meravigliato da quell’incursione in bottega, quasi fosse preparato all’intrusione di quei tre. Dopo aver poggiato lo strumento di lavoro su una panca, si frugò in tasca e diede all’apprendista una moneta, ordinandogli di andare in piazza a comprare del vino rosso dolce di Galilea. Il giovane si fece ripetere un paio di volte la commessa, quindi diede un’ultima occhiata ai nuovi clienti e uscì.

    Non appena furono soli, l’artigiano andò incontro al vecchio autorevole. Si diedero la mano, incrociandole in uno strano modo: non a palmi aperti, bensì alternando le dita dell’uno e dell’altro, ripiegandole sulle nocche. Dopo la stretta vigorosa si abbracciarono fraternamente. Tre volte. A lungo. Il bottegaio ripeté gli abbracci e il segno con il tipo dalla carnagione abbronzata, che gli sorrise, come se già si conoscessero. Invece quello che reggeva il pacco, somigliante all’altro servente, ma di statura maggiore, si limitò a un semplice inchino, poiché mostrava chiaramente di non volersi separare dal suo prezioso involto.

    «L’avete dunque con voi!» esclamò il carpentiere con una certa trepidazione.

    Il vecchio schioccò due dita per aria e il gemello più alto si fece avanti, reggendo l’involucro lungo, spigoloso, ingombrante. Il suo incedere aveva ora qualcosa di sacrale, che cozzava con la semplicità della bottega.

    Sotto lo sguardo autoritario del vegliardo, a braccia tese, consegnò il pacco all’artigiano, il quale lo depose sulla tavola naturale di cedro

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