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Storie di mare e avventura
Storie di mare e avventura
Storie di mare e avventura
E-book967 pagine14 ore

Storie di mare e avventura

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Info su questo ebook

Herman Melville
Robert L. Stevenson
Joseph Conrad
Rudyard Kipling
Jack London

La raccolta comprende alcuni romanzi brevi, tra i più rappresentativi del genere (Billy Budd il marinaio, I Merry Men, La spiaggia di Falesà, Il negro del «Narciso», Tifone, Capitani coraggiosi e Racconti della pattuglia guardiapesca). Attraversiamo i mari delle Americhe e d'Europa, di volta in volta accompagnati dalla rigida morale vittoriana di Stevenson, dalla genuina passione di Melville, dalla fervida e colorata immaginazione di Kipling, dall'affascinante e raffinata narrazione di Conrad, dalla scrittura qui allegra e pervasa di giovanile spensieratezza di London. Con una scelta di letture in cui il mare e l'avventura sono i protagonisti indiscussi, l'intento è quello di proporre una carrellata dinamica e puntuale della letteratura moderna di lingua inglese, attraverso la voce di cinque dei suoi autori più importanti.

LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854146761
Storie di mare e avventura

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    Anteprima del libro

    Storie di mare e avventura - AA.VV.

    Indice

    In cinque sul mare, di Riccardo Reim

    HERMAN MELVILLE

    Billy Budd il marinaio

    ROBERT LOUIS STEVENSON

    I Merry Men

    La spiaggia di Falesà

    JOSEPH CONRAD

    Il negro del «Narciso»

    Tifone

    RUDYARD KIPLING

    Capitani coraggiosi

    JACK LONDON

    Racconti della pattuglia guardiapesca

    Nota biografica

    403

    Titolo originale: Billy Budd, Sailor, traduzione di Flaminio Di Biagi; The Merry Men, traduzione di Riccardo Reim; The Beach of Falesà, traduzione di Gianni Pilo; The Nigger of the «Narcissus», Typhoon, traduzione di Bruno Oddera; Captains Courageous, traduzione di Anna Maria Speckel; Tales of Fish Patrol, traduzione di Maria Eugenia Morin.

    Prima edizione ebook: agosto 2012

    © 1993, 1990, 1995, 1992 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-4676-1

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Herman Melville, Robert Louis Stevenson,

    Joseph Conrad, Rudyard Kipling, Jack London

    Storie di mare

    e avventura

    Billy Budd il marinaio, I Merry Men, La spiaggia di Falesà,

    Il negro del «Narciso», Tifone, Capitani coraggiosi,

    I racconti della pattuglia guardiapesca

    A cura di Riccardo Reim Edizioni integrali

    Edizioni integrali

    Newton Compton editori

    In cinque sul mare

    Nella prospettiva dell’epica la vita è un mare. Non vi è nulla di più epico del mare. Naturalmente, si possono assumere verso il mare comportamenti molto diversi. Per esempio ci si può sdraiare sulla spiaggia, ascoltare la risacca e raccogliere le conchiglie che esso porta. E quello che fa il poeta epico. Si può anche viaggiare per mare. Per molti scopi e senza uno scopo. Ci si può mettere in viaggio e poi, una volta raggiunto il mare aperto, senza nessuna contrada all’orizzonte, percorrere mare e cielo. E quello che fa il romanziere. Egli è veramente solitario, silenzioso. Mentre l’uomo epico si limita a riposarsi. Nell’epos il popolo riposa dopo il lavoro quotidiano: ascolta, sogna, raccoglie. Il romanziere si è distaccato dal popolo e da ciò che esso fa. La culla del romanzo è l’individuo nella sua solitudine, che non sa più pronunciarsi in forma esemplare sulle sue faccende più importanti, non ha nessuno che lo consigli e non può dare consigli a nessuno. Scrivere un romanzo significa rappresentare la vita umana in modo da spingere all’estremo l’incommensurabile.

    Walter Benjamin, Crisi del romanzo

    «Tutta la storia della mia vita è per me più bella di qualsiasi poema»: sono parole di Robert Louis Stevenson¹, ma potrebbero appartenere tanto a Joseph Conrad che a Herman Melville, come pure a Rudyard Kipling o a Jack London... Per tutti e cinque, infatti, la vita vissuta era stata, fin dal principio, altrettanto straordinaria del più incredibile dei romanzi; e ancora per tutti e cinque, sempre a voler fare di Stevenson (il più popolare ed emblematico, forse, del gruppo) una sorta di portavoce esemplare, può valere la bella osservazione di Emilio Cecchi quando nota che «un autore ricchissimo come lui di senso del romanzo, in qualche modo poteva peccare di eccesso romanzesco quando, con tutta la sua scaltra discrezione e la sua facoltà di dare alle immagini la positività di un documento, si metteva ad architettare un romanzo»². Come a dire - calzando senza troppa fatica tali parole anche sugli altri quattro - che a questi scrittori sufficit posare semplicemente gli occhi all’intorno e rivedersi nelle cose, lasciandosi in un certo senso galleggiare sulla loro superficie spinti dal soffio della memoria. Che tali cose, poi, possano essere trasfigurate dalla sapienza ingenua del loro sguardo capace di creare, con la materia immediata del mondo, il più vertiginoso e disarmante dei miracoli, non farebbe che confermare una volta di più l’impossibilità di aggiungervi altro anche con le più acute invenzioni. L’India favolosa dei Jungle Books e le avventure marinare di Captains Courageous (togliendone, è ovvio, il travestimento americano di circostanza) prendono davvero vita in Kipling non durante la sua prima infanzia felice in Oriente e neppure nei suoi successivi, numerosi viaggi per mare e per terra, bensì - servendogli da rifugio - negli anni terribili trascorsi in quella terrorizzante house of desolation della zia paterna a Southsea, tra angherie e tormenti di ogni genere, così come i Tales of the Fish Patrol di Jack London, per fare un altro esempio, devono molto di più alla lettura proprio dei libri di Kipling (guarda caso) che alle effettive scorribande giovanili del loro autore, little tramp e ladro di ostriche nella baia di San Francisco... Moby Dick non è certo soltanto l’avvincente resoconto delle esperienze di caccia alla balena fatte da Melville nei Mari del Sud, ma una vera e propria Odissea americana alla cui «gigantesca concezione» anche Hawthorne sente di dover rendere omaggio; e viene da chiedersi, ripensando a certe stregate atmosfere, se non sarà stato durante qualche violento accesso di febbre che il ragazzo Stevenson avrà visto stagliarsi d’un tratto all’orizzonte del suo letto di malato («il mio letto è come una barchetta...»³) la favolosa isola del tesoro descritta in seguito nel suo capolavoro...

    L’eccesso romanzesco (o il suo pericolo) sarebbe dunque una specie di particolarissimo backwardglance dovuto a qualche strana malattia congenita o a una sorta di bizzarra tara ereditaria... In effetti, questo group of five (assai più omogeneo di quanto non sembri a prima vista) di lingua inglese (Conrad incluso, anche se fu di madrelingua polacca) ha in comune - oltre, beninteso, al gusto per l’avventura più o meno realisticamente appagato - infanzie difficili e caratteri ribelli: Conrad (Teodor Jòzef Konrad Korzeniovski, per l’anagrafe) a soli dodici anni è già orfano di ambedue i genitori, e appena diciassettenne parte per Marsiglia imbarcandosi come semplice marinaio; Melville, costretto a interrompere gli studi dalla morte del padre, lavora come mozzo sulla nave Highlander che dall’America fa rotta per Liverpool; Jack London, figlio illegittimo di un astrologo ambulante e di una sedicente spiritista, si fa precocemente adulto sui moli di Oakland insieme a ladri e contrabbandieri, per poi essere vagabondo, truffatore, corrispondente di guerra, operaio, fattorino, impiegato postale, commerciante, marinaio, ladruncolo, cercatore d’oro e, sempre, onnivoro divoratore di carta stampata; Kipling porterà in eterno su di sé la bruciante nostalgia di un mondo di fiaba e di avventura al quale era stato incomprensibilmente strappato, nonché le insanabili tracce dei maltrattamenti subiti («Quando delle labbra giovani hanno bevuto a lungo le acque amare dell’Odio, del Sospetto e della Disperazione, tutto l’Amore del mondo non riuscirà mai a cancellare quel ricordo»)⁴; Stevenson, infelicissimo per la propria salute cagionevole che lo costringe (in aspra polemica con il padre) a dedicarsi a studi giuridici portati a termine soltanto per dovere, senza mai esercitare di fatto l’avvocatura, sarà prima il vittoriano ribelle, poi il bianco Tusitala⁵ venerato dagli indigeni che viene sepolto come un re sulla vetta del monte Vaea, nelle isole Samoa...⁶.

    Cinque autori, inglesi, dunque (con buona pace dei meri dati anagrafici), tutti e cinque estremamente prolifici, tutti e cinque vissuti e morti nell’arco di poco più di cento anni, dal 1819 (nascita di Melville) al 1936 (morte di Kipling): tutti e cinque, anche, animati dall’urgenza di dire molte cose che si riallacciano alla giovinezza e alla loro protesta giovanile di uomini e di letterati prigionieri di un secolo egoista e timoroso. Di qui le grandi fughe nel tempo e nello spazio, di cui il mare, con il suo fascino e la sua immutabilità (esistono luoghi e anni quando l’orizzonte «si congiunge nello stesso azzurro tra acque e cielo»?)diviene un’immancabile, ideale scenario di cui nessuno, prima o poi, riesce a fare a meno.

    «Se storie marine, su arie marine, / Tempeste e avventure, calura e gelo, / Se golette, isole e marinai abbandonati, / E bucanieri e oro sepolto, / E tutte le antiche fantasie, narrate / Esattamente al modo di una volta, / Possono ancora piacere, come a me piacquero un tempo...»: questi versi «al compratore esitante» premessi a Treasure Islandsembrano riassumere felicemente in poche righe temi e suggestioni di un intero genere, nel quale Stevenson riuscì a essere - come in tutti gli altri generi che volle affrontare, essendo un artista di estrema, persino eccessiva versatilità (ulteriore punto in comune con il resto del gruppo) - un indiscusso maestro. Un genere, si badi bene, che, se scade a banale narrazione di intrattenimento a metà strada tra il genere picaresco e quello à sensation su sfondi più o meno esotici nei numerosissimi quanto sciatti epigoni, è ben altro nelle pagine dei capiscuola che, proprio in quanto tali, di quel genere hanno creato e non seguito - anzi, spesso felicemente infranto - le regole. Il mare, in loro, si fa di volta in volta omerico e biblico, idillica culla del mito o sconvolta bolgia dantesca: un terreno aldilà, un inesplorabile regno del terrore dalle immense profondità che sfuggono all’intelligenza umana, dove può vivere un mostro come la balena bianca Moby Dick, abbagliante simbolo del Male e dell’assurdità del mondo, contro la quale il capitano Achab lotta implacabilmente e inutilmente... Può essere, anche, spettatore impassibile e implacabile come un dio, simbolo del caso e dei suoi ciechi colpi che atterrano l’individuo, testimone di tragedie semplici e terribili (The Nigger of the Narcissus di Conrad, Billy Budd di Melville)⁹; può trasformarsi in una spietata arena di conflitti umani e sociali, come avviene nei racconti di London, o più semplicemente divenire un provvidenziale maestro di vita, come in Captains Courageous di Kipling... E ancora, può offrire a ogni minuto del giorno, nell’infinito inseguirsi delle onde, una caleidoscopica tavolozza di colori, cangianti a ogni raggio di sole: verde, blu cupo, azzurro, celeste pallido, giallastro, violetto, dorato, plumbeo, bianco abbagliante, cristallino, rosso infuocato, nero come la pece; può avere cento, mille, innumerevoli voci: suadenti sussurri che ripetono incomprensibili parole magiche antiche come il mondo (Island Night’s Entertainments di Stevenson, di cui fa parte quel perfetto gioiello che è The Beach of Falesà), il terrificante risucchio delle onde che sembrano ribollire sotto le violente raffiche del vento e della pioggia (Typhoon di Conrad) o vengono sconvolte dall’agghiacciante forza infera del più mostruoso dei suoi orridi abitanti (Moby Dick di Melville), il familiare, quieto sciabordio che l’orecchio non ode neppure più (Tales of the Fish Patrol di London), il sinistro, altero scherno di chi sa - sa con divina certezza - di avere sempre ogni avversario in suo assoluto potere (The Merry Men di Stevenson)...

    Questa antologia, ovviamente, non ha la minima pretesa di risultare esauriente neppure rispetto ai cinque autori trattati, di cui ognuno avrebbe meritato un numero di pagine almeno pari a quello dell’intero volume. Una tale raccolta intende soltanto fornire delle tracce, indicando un percorso - uno dei possibili percorsi - da seguire o meno: certo, non sarà facile neppure per il lettore più smaliziato sottrarsi all’atmosfera di quiete opprimente gravida di misteriosa minaccia che pesa come un maligno sortilegio sul Narcissus, o a quella di puro, fisico terrore di Typhoon, di cui Conrad riesce a farci sbigottiti testimoni, come non sarà facile dimenticare il ritrovamento dello scheletro in fondo alle acque di Sandag Bay - che Stevenson costruisce per indizi, con la sapienza di un grande giallista - o l’allucinante inseguimento finale sulla scogliera descritto nei Merry Men... E se Captains Courageous rimane un libro un po’ corrivo, certamente un’opera minore rispetto a Kim e ai Jungle Books, altrettanto certamente vale però la pena di rileggerlo (chi non l’ha avuto in regalo per il suo dodicesimo o tredicesimo compleanno?) al di fuori delle collane per ragazzi, dove quasi sempre viene sconciato da tagli o riassunto ¹⁰. Il London marino dei Tales of the Fish Patrolpotrà costituire una sorpresa per chi dello scrittore ricorda soltanto le atmosfere di White Fang, Children of the Frost o The Call of the Wild, mentre con Billy Budd, uno dei libri più estremi e sottili di Melville (pubblicato postumo nel 1924, nel pieno revival della fortuna critica dello scrittore), torniamo ai grandi capolavori, da annoverare tra le opere sicuramente più importanti e innovative della letteratura americana del secondo Ottocento. Resta il lungo racconto The Beach of Falesà, al quale abbiamo già accennato (inspiegabilmente meno noto di titoli come The Isle of Voices o The Bottle Imp), impareggiabile esempio di «realismo nell’irrealt໹¹ a proposito del quale Emilio Cecchi, ricordandone «le trovate da maestro e le alzate di genio», scrive: «Io ho applaudito con la compunzione con cui si applaudono i portenti che non sapremo far mai, ma ai quali la bontà di Dio ci permette, qualche volta, di assistere dietro le quinte, o dalla buca del suggeritore»¹².

    RICCARDO REIM

    ¹ R.L. STEVENSON, Vailima Letters (vol. II, 160), Londra, 1895.

    ² E. CECCHI, R.L. Stevenson ieri e oggi, in R.L.STEVENDON, Romanzi e racconti, Roma 1950; attualmente (con un parziale aggiornamento) anche in R.L. STEVENSON, Nei mari del Sud, Roma 2002.

    ³ Si tratta di un verso infantile di Stevenson, a proposito del quale G.K. Chesterton scrive: «Il ritratto che Stevenson fa di se stesso, vagabondo su una strada in inverno con le dita livide dal freddo, è senz’altro un ritratto ideale: era proprio questa la libertà che non riuscì mai ad avere. Poteva solo spostarsi da un luogo all’altro; o persino da un’avventura all’altra. C’è una strana precisione nella semplicità di un suo verso infantile che dice: il mio letto è come una barchetta. In tutte le sue svariate esperienze, il suo letto era una barca e una barca il suo letto». (G.K. CHESTERTOM, R.L. Stevenson, Londra 1921).

    ⁴ Era il soprannome che gli indigeni delle isole Samoa avevano dato allo scrittore: Tusitala, il narratore di storie.

    ⁵ Sono parole di un dialogo infantile tra Kipling e sua sorella, riportate tanto dallo scrittore in Something of Myself, for my Friends Known and Unknown (postumo, Londra 1937) che dalla sorella, Mrs. Fleming, nelle sue memorie. Vedi a questo proposito l’interessante introduzione di Edmund Wilson Il Kipling che nessuno ha letto, in R. Kipling, Kim – Capitani coraggiosi – Racconti, Roma 1967.

    ⁶ Una commossa ed efficace descrizione del funerale di Stevenson si deve al figliastro Lloyd Osbourne, oggi riportata in R.L. STEVENSON, Romanzi di mare e di avventura, Roma 1966, (vol. I): «(...) Il corpo di Stevenson giacque esposto per tutta la mattina, e i capi delle varie tribù si succedettero uno dopo l’altro per presentargli l’ultimo omaggio. Ognuno portava un ie tonga, uno di quei preziosissimi e antichissimi tappeti tessuti con tale finezza da riuscire morbidi e pregevoli come seta, e il cui valore è proporzionato all’antichità. Con un ie tonga in mano, ciascun capo si avanzava solo, e fermandosi a pochi metri dal corpo gli rivolgeva la parola come se fosse stato vivo. Era un rito commovente, e alcune di quelle orazioni furono straordinariamente eloquenti. Un vecchio capo che non avevo mai visto fino a quel momento, e i cui lineamenti duri e l’espressione tetra mi avevano a tutta prima impressionato molto sfavorevolmente, offrì il più bel tappeto e pronunciò un discorso che ci fece piangere. (...) Un numero inaudito di bei tappeti furono portati e distesi sul corpo di Stevenson: tanti, che la bandiera che lo avvolgeva ne fu interamente ricoperta: e tra essi alcuni così antichi, che erano diventati quasi neri e bisognava maneggiarli con gran cura. I Samoesi non possiedono nulla di più prezioso. Il ie tonga rappresenta gioielli, ricchezze, posizione sociale: alcuni di essi particolarmente famosi hanno addirittura un nome individuale; altri conferiscono al loro proprietario un rango elevatissimo e costituiscono un attributo inseparabile dell’aristocrazia indigena: per essi si sono commessi omicidi; intorno a essi nascono furiose contestazioni tra famiglia e famiglia, rivalità intestine che durano per generazioni e generazioni (...)».

    ⁷ R. KIPLING, The Seven Seas, Londra 1896.

    ⁸ R.L. STEVENSON, Al compratore esitante, in Treasure Island, Londra 1883.

    ⁹ A proposito di Billy Budd, ritenuto da molti una delle creazioni più perfette e inesorabili dello scrittore, ci sembra quanto mai esatto e calzante il giudizio di Nemi D’Agostino: «Billy Budd appare semplice come una fiaba – la fiaba del Bel Trovatello dagli occhi stellari, del Cattivo che lo perseguita e del Buon Vecchio che lo ama. Solo che la fiaba è una tragedia greca». Secondo alcuni, l’ingiustizia accettata e subita rende la figura del protagonista assimilabile a quella di Cristo.

    ¹⁰ Oltre a Kipling, anche Stevenson (soprattutto con Tresure Island), London (White Fang, Martin Eden, The Call of the Wild) e paradossalmente, Melville con Moby Dick (svuotato di ogni metafora e ridotto a un puro racconto di avventura) hanno conosciuto e continuano a conoscere un’enorme fortuna presso il pubblico più giovane. Per rendere l’idea del loro successo, basterà dire che soltanto in Italia si possono contare più di cento edizioni per ragazzi di Captains Courageous, e circa centotrenta edizioni di Treasure Island.

    ¹¹ S. ROSATI, Presentazione a R.L. STEVENSON, Tutte le opetre. Vol. II, L’isola del tesoro – Racconti, Milano 1963-1987.

    ¹² Vedi nota 2.

    HERMAN MELVILLE

    Billy Budd il marinaio

    (Una storia dall’interno)

    Dedicato a

    JACK CHASE

    Inglese

    Ovunque quel gran cuore si possa trovare

    qui sulla Terra o all’ancora in Paradiso

    Capocoffa di maestra

    Sulla fregata americana

    Stati Uniti

    ¹

    ¹ Melville fu davvero imbarcato su questa nave tra il 1843 e il 1844. Jack Chase era un capocoffa, più anziano del giovane Melville, descritto a lungo in White Jacket, e che probabilmente fu il modello di Bel Marinaio che ispirò Billy Budd (n.d.t.).

    Capitolo primo

    Al tempo in cui non c’erano ancora le navi a vapore, o perlomeno allora più frequentemente che ai nostri giorni, chi se ne andasse a zonzo lungo le banchine di un qualsiasi porto di mare importante si sarebbe di quando in quando trovato attratto d’improvviso da un gruppo di marinai color del bronzo, equipaggio di navi da guerra o marinai di mercantili in abiti da festa, a terra in libera uscita. In certe occasioni affiancavano, o piuttosto a mo’ di guardia del corpo davvero circondavano, qualche figura superiore della loro stessa categoria, che si muoveva insieme a loro come Aldebaran tra le luci minori della sua costellazione. Quell’insigne personaggio era il «Bel Marinaio» dei tempi meno prosaici sia delle flotte militari che di quelle mercantili. Senza una traccia percettibile di vanagloria in sé, anzi con la noncurante disinvoltura della regalità naturale, sembrava accettare lo spontaneo omaggio dei suoi commilitoni di bordo.

    Mi sovviene di un esempio in qualche modo notevole. A Liverpool, oramai mezzo secolo fa, vidi sotto l’ombra del grande sudicio muraglione del Molo Principe (un ostacolo ormai rimosso da lungo tempo) un comune marinaio di un nero così intenso che doveva assolutamente essere un indigeno africano del sangue non adulterato di Cam – una figura armoniosa molto al di sopra dell’altezza media. Le due cocche di un vivace fazzoletto di seta gettate con noncuranza attorno al collo danzavano sull’ebano scoperto del suo torace, alle orecchie aveva dei grandi cerchi d’oro, e un berretto scozzese delle Highlands con una fascia di tartan metteva in risalto la sua testa ben fatta. Era un caldo mezzogiorno di luglio; e la sua faccia, lustra di sudore, raggiava di barbaro buonumore. Tra facezie gioviali a destra e a sinistra, i denti bianchi balenanti alla vista, avanzava festoso, al centro di una ciurma dei suoi commilitoni di bordo. Questa era composta da un tale assortimento di tribù e coloriti che li avrebbe resi ben adatti a sfilare agli ordini di Anacharsis Clootz² davanti al tribunale della prima Assemblea Francese quali Rappresentanti della Razza Umana. Ad ogni tributo spontaneo reso dai viandanti a quella specie di nera divinità – una sosta e un’occhiata, e meno frequentemente un’esclamazione – il variopinto corteo faceva mostra di gloriarsi dell’oggetto di un simile tributo, nello stesso modo in cui i sacerdoti assiri si gloriavano del loro grande Toro scolpito allorquando si prostravano i fedeli.

    Torniamo all’argomento. Se in certi casi ricordava un po’ un Murat³ di mare nel modo di esibire la propria persona a terra, il Bel Marinaio del periodo in questione non aveva niente dell’azzimato Billy-il-dannato, un personaggio divertente quasi estinto adesso, ma che occasionalmente si incontra, e in una forma ancora più divertente dell’originale, al timone dei battelli sul tempestoso canale di Erie o, più verosimilmente, a vantarsi nelle bettole lungo l’alzaia. Invariabilmente provetto nel suo rischioso mestiere, era anche in misura maggiore o minore un possente pugilatore o un lottatore. Aveva forza e bellezza. Sul suo valore si raccontavano storie. A terra era il campione; a bordo il portavoce; in ogni occasione appropriata sempre il primo tra tutti. Nel terzarolare le vele di gabbia in un fortunale, eccolo lì, a cavalcioni della varea sopravvento del pennone, il piede nel marciapiede come una staffa, entrambe le mani che strattonavano il matafione come una briglia, in atteggiamento molto simile a quello del giovane Alessandro che trattiene il fiero Bucefalo. Una figura superba, come scagliata in alto dalle corna del Toro contro il cielo tonante, vociando allegramente alla gagliarda fila di uomini lungo il pennone.

    L’indole morale era raramente in disaccordo con le fattezze fisiche. Invero, se non così armonizzati da quella, l’avvenenza e il vigore, sempre attraenti quando si trovano riuniti in un uomo, difficilmente avrebbero potuto attirare quella sorta di leale omaggio che il Bel Marinaio riceveva in certi casi dai suoi meno dotati compagni.

    Un astro centrale di questo tipo, almeno all’aspetto, e qualcosa di simile anche per indole, seppure con importanti varianti rese chiare col procedere della storia, era occhi-di-cielo Billy Budd – o Bimbo Budd⁴, come più familiarmente, in circostanze che verranno spiegate in seguito, era giunto infine a essere chiamato – di ventuno anni, gabbiere di parrocchetto della flotta britannica verso la fine dell’ultimo decennio del diciottesimo secolo. Non era stato molto tempo prima dell’epoca della narrazione seguente che era entrato al servizio del Re, poiché era stato arruolato a forza sul Canale d’Irlanda, preso da un mercantile inglese che rientrava in patria e imbarcato a bordo di un settantaquattro cannoni diretto al largo, la nave di Sua Maestà Britannica Bellipotent; nave che, cosa non insolita in quei tempi burrascosi, era stata obbligata a salpare con un equipaggio a corto rispetto al necessario. Individuato Billy a una prima rapace occhiata ancora dal barcarizzo, l’ufficiale di reclutamento, il tenente di vascello Ratcliffe, ci si avventò, perfino prima che l’equipaggio del mercantile fosse formalmente adunato sul cassero per la sua ponderata ispezione. E solo lui fu scelto. Fosse perché gli altri marinai quando furono schierati di fronte a lui si dimostrarono non poter reggere il confronto con Billy, o fosse perché si fece degli scrupoli nel lasciare il mercantile troppo a corto di uomini, comunque sia, l’ufficiale si accontentò della sua prima scelta istintiva. Con grande sorpresa dell’equipaggio della nave, e con molta soddisfazione del tenente, Billy non fece alcuna obiezione. Ma, invero, qualsiasi obiezione sarebbe stata altrettanto vana come le proteste di un cardellino scaraventato in gabbia.

    Notando quella rassegnata acquiescenza, quasi lieta, si potrebbe dire, il capitano del mercantile gettò al marinaio uno sguardo sorpreso di muto rimprovero. Il capitano del mercantile era uno di quei degni mortali che si trovano in ogni vocazione, perfino nelle più umili – il tipo di persona che tutti si trovano d’accordo nel definire «un uomo rispettabile». E – meno strano da raccontare di quanto possa sembrare – con tutto che fosse uso a solcare acque tempestose, a lottare da una vita con gli elementi ribelli, non c’era nulla che quell’anima schietta amasse in cuor suo più della semplice pace e tranquillità. Per il resto, aveva cinquant’anni o giù di lì, un po’ propenso alla corpulenza, una faccia simpatica, senza fedine, e di un colorito piacevole – una faccia piuttosto paffuta, dall’espressione umana e intelligente. Nelle belle giornate con un buon vento e ogni cosa a posto, una certa intonazione musicale nella sua voce sembrava essere la conseguenza genuina e senza impedimenti del suo intimo più segreto. Agiva con grande prudenza, grande coscienziosità, e v’erano occasioni in cui queste virtù erano causa di eccessiva inquietudine. Durante una traversata, fintanto che la sua imbarcazione si trovasse in prossimità di qualsiasi costa, non c’era sonno per il Capitano Graveling. Lui prendeva a cuore quelle serie responsabilità che alcuni comandanti di mercantili non assumono con altrettanta gravità.

    Ora, mentre Billy Budd si trovava giù nel castello di prora a raccogliere le sue cose, il tenente del Bellipotent, burbero e corpulento, per niente sconcertato dal fatto che il Capitano Graveling avesse omesso di offrire le consuete forme di ospitalità in un’occasione per lui così sgradita, omissione provocata semplicemente da preoccupazioni e pensieri, si invitò senza tante cerimonie nel quadrato ufficiali, e prese anche una fiaschetta dall’armadietto dei liquori, recipiente che i suoi occhi esperti avevano subito scoperto. Infatti era uno di quei lupi di mare in cui tutta la fatica e il cimento della vita di mare durante le grandi e interminabili guerre del suo tempo non avevano mai intaccato il naturale istinto per le gioie dei sensi. Il suo dovere lo faceva sempre fedelmente; ma il dovere è alle volte un arido obbligo, e lui propendeva a irrigarne l’aridità, quantunque possibile, con un fertilizzante decotto di acquavite. Per il proprietario della cabina non restò altro che interpretare la parte dell’ospite suo malgrado, con quanta grazia e vivacità fossero consentite. Come necessari complementi della fiasca, collocò in silenzio bicchiere e brocca d’acqua davanti all’irrefrenabile invitato. Ma scusandosi del suo non fargli compagnia in quel frangente, restò a guardare tristemente l’ufficiale che per niente imbarazzato diluiva con ponderazione il proprio grog con un po’ d’acqua, poi lo tracannava in tre sorsi, allontanava da sé il bicchiere vuoto, seppure non così distante da non poter essere più a portata di mano, si sistemava sulla sedia e allo stesso tempo faceva schioccare le labbra con gran soddisfazione, guardando fisso in faccia l’ospite.

    Terminate queste procedure, il capitano ruppe il silenzio; e un afflitto rimprovero si annidava nel suo tono di voce: «Tenente, voi mi portate via il migliore dei miei marinai, il gioiello tra tutti».

    «Sì, lo so», replicò l’altro, riagguantando immediatamente il bicchiere come preliminare a un secondo rifornimento. «Sì, lo so. Mi dispiace».

    «Chiedo perdono, ma non capite, tenente. State a sentire. Prima di imbarcare quel giovanotto, il mio castello di prora era una rissosa tana di topi. Erano tempi cupi, ve lo dico io, qui a bordo del Rights. Ero preoccupato al punto che la mia pipa non m’era di alcun conforto. Ma poi è arrivato Billy; ed è stato come un prete cattolico che ristabilisca la pace tra degli irlandesi schiamazzanti. Non che lui abbia fatto loro prediche o detto o compiuto niente di particolare; ma da lui emanava una forza virtuosa, che addolciva gli animi inaspriti. Lo presero in simpatia come i calabroni la melassa; tutti tranne il bullo della cricca, l’irsuto omaccione dalle fedine rosso fuoco. Lui invero, forse per invidia del nuovo arrivato, e convinto che un simile buono e soave individuo, come lui lo indicava beffardo di fronte agli altri, difficilmente poteva avere l’ardore di un gallo da combattimento, cercò in tutti i modi di darsi da fare per scatenare una brutta lite tra di loro. Billy era paziente con lui e ci ragionava insieme con calma – è un poco come me, tenente, che detesto tutto ciò che ricorda un litigio – ma non ci fu verso. Così un giorno, durante il secondo gaettone, Fedine Rosse, in presenza d’altri, con il pretesto di mostrare a Billy da dove esattamente si tagliava una bistecca di lombo – dato che il tizio un tempo aveva fatto il macellaio – insolentemente gli diede una puntata nelle costole. Veloce come il lampo Billy fece volare il braccio. Molto probabilmente non aveva intenzione di arrivare a tanto, ma in tutti i modi assestò al grosso stolto una terribile legnata. Fu una questione di circa trenta secondi, direi. E, il Signore vi benedica, lo zoticone restò sbalordito dalla rapidità. E ci credereste, tenente, Fedine Rosse adesso davvero stravede per Billy – stravede per lui, oppure è il più grande ipocrita che io abbia mai conosciuto. Ma tutti stravedono per lui. Alcuni di loro gli fanno il bucato, gli rammendano i vecchi pantaloni; il falegname nei momenti di ozio gli sta facendo un piccolo grazioso cassettone. Chiunque farebbe qualunque cosa per Billy; e siamo una famiglia felice qui. Ma ora, Tenente, se quel giovanotto se ne va – so quel che succederà a bordo del Rights. Ci vorrà molto tempo prima che io, risalendo in coperta dal pranzo, possa ancora appoggiarmi all’argano a fumare in pace la pipa – sì, ci vorrà ancora molto tempo, penso. Eh, sì, tenente, mi portate via il gioiello tra tutti loro; mi portate via il mio paciere!». E con ciò il brav’uomo ebbe davvero il suo daffare nel reprimere un singhiozzo incombente.

    «Ebbene», disse il tenente, che aveva ascoltato tutto quello con divertito interesse e che ormai si era fatto allegro a forza di goccetti; «ebbene, siano benedetti i pacieri, specialmente i pacieri che danno battaglia. E tali sono le settantaquattro bellezze, di alcune delle quali vedete sporgere il naso dai boccaporti di quel vascello da guerra in panne laggiù in mia attesa», indicando attraverso il finestrino del quadrato il Bellipotent. «Ma coraggio! Non vi abbattete, vecchio mio. Diamine, vi garantisco fin d’ora l’approvazione reale. Siate sicuro che Sua Maestà sarà contentissimo di sapere che in tempi in cui le sue gallette non vengono ricercate dai marinai con l’avidità che si dovrebbe, tempi in cui per di più alcuni capitani di mercantili provano un rancore segreto per aver dovuto prestare uno o due marinai per l’imbarco militare; Sua Maestà, dico, sarà contentissimo di venire a sapere che almeno un capitano concede lietamente al Re il fiore del suo gregge, un marinaio che con eguale fedeltà non fa obiezioni. – Ma dov’è la mia bellezza? Ah», guardando attraverso la porta aperta del quadrato, «eccolo qua; e, per Giove, si trascina dietro il suo cassettone – Apollo con il baule! – Il giovane», facendoglisi incontro, «non puoi portare quella grossa cassa a bordo di una nave da guerra. Lì le casse sono per lo più casse di proiettili. Metti i tuoi stracci in una sacca, ragazzo. Stivali e sella per il soldato di cavalleria, sacca e branda per il marinaio di una nave da guerra».

    Il trasferimento dal cassettone alla sacca fu compiuto. E, dopo aver visto il suo marinaio salire a bordo della lancia e averlo poi seguito là sotto, il tenente di vascello si spinse al largo dal Rights-of-Man. Quello era il nome del mercantile, sebbene il suo capitano e l’equipaggio lo abbreviassero alla maniera dei marinai in quello di Rights. Il pervicace proprietario di Dundee era un devoto ammiratore di Thomas Paine⁵, il cui libro in risposta alle accuse fatte da Burke alla Rivoluzione francese era stato a quell’epoca pubblicato da un certo tempo e si era diffuso dappertutto. Nel battezzare il proprio vascello col titolo del volume di Paine l’uomo di Dundee era un po’ come quell’armatore suo contemporaneo, Stephen Girard di Filadelfia, le cui simpatie, in sintonia con la propria terra di nascita e i suoi filosofi illuminati, le manifestava chiamando le proprie navi coi nomi di Voltaire, Diderot, e via dicendo.

    Ma in quel momento, quando la barca scivolò sotto la poppa del mercantile, e l’ufficiale e i vogatori notarono – alcuni con amarezza e altri con un ghigno – il nome scritto a caratteri d’oro lassù; fu proprio allora che la nuova recluta saltò in piedi dalla prora dove il nocchiere lo aveva mandato a sedersi, e agitando il cappello in saluto ai suoi silenziosi commilitoni che lo guardavano dall’alto del coronamento di poppa, augurò ai compagni un allegro addio. Poi, facendo un saluto quasi alla nave stessa, «E addio anche a te, vecchio Rights-of-Man».

    «Seduto, signore!», ruggì il tenente, assumendo all’istante tutto il rigore del suo grado, seppure reprimendo a stento un sorriso.

    Senza dubbio, l’atto di Billy era una temibile infrazione al decoro navale. Ma su quel decoro lui non aveva mai ricevuto istruzioni; e in considerazione di ciò il tenente non avrebbe usato tanta durezza nel riprenderlo se non fosse stato per l’addio finale alla nave. Lo prese invece piuttosto come volto ad esprimere un sottinteso motto di spirito da parte della nuova recluta, una subdola allusione all’arruolamento forzoso in generale, e al suo in particolare. E tuttavia, più verosimilmente, se di fatto si trattava di satira, non lo era certo per intenzione, poiché Billy, seppure felicemente dotato della giovialità che danno la buona salute, la giovinezza, e un cuore libero, non aveva affatto un’indole capace di satira. Gliene mancavano sia la volontà che la sinistra destrezza. Trattare con doppi sensi e insinuazioni di qualsiasi sorta era cosa alquanto estranea alla sua natura.

    Per quanto riguarda il suo arruolamento forzato, lo sembrava prendere più o meno come era abituato a prendere un qualsiasi cambiamento di tempo. Come gli animali, pur senza essere filosofo, era, senza saperlo, in pratica un fatalista. E poteva darsi che gli stesse piuttosto bene questa svolta avventurosa nelle sue faccende, la quale prometteva uno sbocco verso scenari insoliti ed emozioni esaltanti.

    A bordo del Bellipotent il nostro marinaio mercantile fu subito classificato come marinaio scelto e assegnato alla guardia di tribordo della coffa di trinchetto. Si trovò presto a suo agio in quel servizio, del tutto gradito dagli altri per il suo bell’aspetto senza pretenziosità e una sorta di aria gioviale e spensierata. Non v’era uomo più allegro a mensa, al momento del rancio: in marcato contrasto con certi altri individui che facevano parte come lui dell’equipaggio che era stata arruolato a forza; perché questi, quando non si trovavano in servizio attivo, erano alle volte, e specialmente nell’ultimo gaettone allorché l’avvicinarsi del crepuscolo invogliava a sognare, soggetti a cadere in un umore malinconico che in alcuni sapeva di tetra scontrosità. Ma essi non erano così giovani come il nostro gabbiere di parrocchetto, e non pochi di loro dovevano aver conosciuto qualche specie di focolare, altri forse avevano lasciato mogli e bambini in condizioni, fin troppo probabile, difficili, e quasi tutti dovevano aver apprezzato parenti e amici, mentre per Billy, come si vedrà ben presto, tutta la sua famiglia consisteva praticamente in lui solo.

    ² Il barone di Clootz, in Prussia, noto come Jean Baptiste du Val-de-Grâce (1755-1794): un nobiluomo divenuto cittadino francese, giacobino, ateista, assertore delle idee rivoluzionarie per cui spese il proprio patrimonio, rinunciando al titolo. Morì sulla ghigliottina durante il Terrore per ordine di Robespierre. Il 19 giugno 1790 presentò all’Assemblea Costituente una «ambasciata del genere umano»: abitanti dei quartieri poveri di Parigi vestiti con i costumi di 36 nazioni diverse, e si proclamò «oratore di tutti gli uomini», cambiando il proprio nome in Anacharsis (n.d.t.).

    ³ Gioacchino Murat (1767-1815), nominato Re di Napoli da Napoleone nel 1808, noto per le uniformi e i vestiti carichi ed abbaglianti, ma anche per il carattere ardito e romantico (n.d.t.)

    ⁴ In inglese «Baby Budd». Billy è diminutivo di William. Budd può voler ricordare bud (bocciolo, gemma, germoglio) o buddy (amico, compagno) o magari la pace interiore di un Budda (n.d.t.)

    ⁵ Thomas Paine (17371809), teorico dell’indipendenza americana, amico di Beniamino Franklin, e autore di opuscoli favorevoli allo spirito rivoluzionano. Nel 1791 pubblicò appunto il popolarissimo Rights of Man (I diritti dell’uomo) (n.d.t.)

    Capitolo secondo

    Sebbene il nostro gabbiere di parrocchetto appena nominato fosse accolto bene in coffa e sui ponti di batteria, qui non era certo quell’astro centrale che era stato precedentemente tra quegli equipaggi di navi minori della marina mercantile, i soli equipaggi con cui fino allora era stato associato.

    Era giovane; e malgrado la propria struttura corporea quasi pienamente sviluppata, all’aspetto appariva persino più giovane di quanto fosse in realtà, a causa di una perdurante espressione adolescenziale nel volto ancora glabro, quasi femminile per la purezza della carnagione, ma dove, grazie alla vita d’alto mare, il giglio era alquanto scomparso e la rosa trovava qualche difficoltà ad affiorare visibilmente attraverso l’abbronzatura.

    Il repentino passaggio dalla semplicità della vita precedente al mondo più ampio e scaltro del grande vascello da guerra avrebbe potuto ben confonderlo – autentico novizio della complessità di quella vita innaturale –, se nel suo carattere ci fosse minimamente stata presunzione o vanità. Tra la sua eterogenea massa di uomini, il Bellipotent annoverava parecchi individui che quantunque di grado inferiore erano di stampo non comune, marinai particolarmente recettivi a quell’aria che la costante disciplina marziale e la ripetuta presenza in battaglia possono trasmettere in certa misura anche a uomini ordinari. Come Bel Marinaio, la posizione di Billy Budd a bordo del settantaquattro pezzi era in qualche modo analoga a quella di una bellezza rustica trapiantata dalla provincia e messa in concorrenza con le dame d’alto lignaggio della corte. Ma questo cambio di condizioni lui lo notò appena. E allo stesso modo non si avvide che qualcosa in lui suscitava un sorriso ambiguo in uno o due dei volti più duri tra le casacche azzurre⁶. Né era meno inconsapevole dell’effetto singolarmente favorevole che la sua figura e il suo contegno avevano sugli ufficiali gentiluomini del cassero, più intelligenti. Né avrebbe potuto essere altrimenti. Forgiato nello stampo particolare dei migliori esemplari fisici di quegli inglesi in cui la sciatta sassone non sembra affatto risentire della mescolanza coi normanni o con altro sangue, mostrava in viso quell’espressione umana di un’indole calma e serena che in certi casi gli scultori greci davano al loro eroe forte, Ercole. Ma quell’espressione era ancora sottilmente modificata da un’altra e penetrante caratteristica. L’orecchio, piccolo e proporzionato, l’arco del piede, la curva della bocca e delle narici, persino la mano callosa tinta di arancio-fulvo come il becco dei tucani, una mano che parlava ad un tempo di drizze e di secchio del catrame; ma, soprattutto, qualcosa che faceva pensare a una madre specialmente favorita da Amore e dalle Grazie; tutto ciò indicava stranamente una discendenza in aperto contrasto con la sorte toccatagli. Quel mistero si fece meno misterioso per un fatto che venne fuori quando Billy all’argano fu formalmente iscritto nei ruoli di servizio. Alla domanda dell’ufficiale, un piccolo gentiluomo dai modi vivaci, che casualmente gli chiedeva, tra le altre cose il luogo di nascita, lui rispose: «Perdonate, signore, non lo so».

    «Non sai dove sei nato? Chi era tuo padre?»

    «Lo sa Dio, signore».

    Colpito dalla franca semplicità di queste risposte, l’ufficiale chiese ancora: «Ne sai nulla delle tue origini?»

    «No, signore. Ma ho sentito dire di essere stato trovato in un elegante cesto foderato di seta appeso una mattina al battente della porta di un brav’uomo a Bristol».

    «Trovato, hai detto? Be’», spingendo all’indietro la testa e squadrando la nuova recluta dalla testa ai piedi; «be’, pare che sia stato un ritrovamento niente male. Spero che ne trovino altri come te, ragazzo mio; la flotta ne ha estremo bisogno».

    Sì, Billy Budd era un trovatello, presumibilmente un illegittimo, e, evidentemente, non di bassa condizione. La nobile origine era in lui altrettanto evidente quanto in un purosangue.

    Quanto al resto, senza avere affatto un po’ dell’acume del serpente o la minima traccia della sua saggezza, né tuttavia essendo una colomba, possedeva quel tipo e quel grado di intelligenza che va di pari passo alla non convenzionale rettitudine di una creatura umana sana, un uomo cui non sia ancora stato offerto il controverso pomo della conoscenza. Era analfabeta; non sapeva leggere, ma sapeva cantare, e come l’usignolo analfabeta era alle volte l’autore delle sue canzoni.

    Coscienza di sé ne sembrava avere poca o nulla, o al massimo quanta ne possiamo ragionevolmente attribuire a un sanbernardo.

    Vivendo d’abitudine in mezzo agli elementi e conoscendo la terra quasi soltanto come riva, o, piuttosto, come quella parte del globo terracqueo riservata provvidenzialmente alle balere, alle donnine facili, e ai birrai, in breve a ciò che i marinai chiamano «paese della cuccagna», la sua indole semplice era rimasta incontaminata da quelle storture morali che non sempre sono incompatibili con quella cosa manipolabile che va sotto il nome di rispettabilità. Ma i marinai che frequentano il paese della cuccagna sono senza vizi? No; ma i loro cosiddetti vizi contengono spesso meno malanimo che non nei terraioli, perché sembrano derivare non tanto dalla cattiveria quanto da un’esuberante vitalità a lungo repressa: franche manifestazioni del tutto consone a leggi naturali. Per sua indole, coadiuvata dalle concomitanti influenze della sua sorte, Billy sotto molti aspetti era poco più di una specie di barbaro incontaminato, molto simile forse a ciò che presumibilmente poteva essere Adamo prima che l’urbano e incivilito serpente si insinuasse contorcendosi in sua compagnia.

    E qui si consideri che andando apparentemente a rafforzare la dottrina della Caduta dell’uomo, una dottrina ormai desueta al popolo, è da osservare che laddove certe virtù pristine e non adulterate caratterizzino particolarmente chiunque porti l’uniforme esterna della civilizzazione, esse appariranno ad un esame approfondito non essere derivate da abitudini o da convenzioni, ma essere invece piuttosto fuori dell’influenza di queste, come se davvero eccezionalmente trasmesse da un periodo antecedente alla città di Caino⁷ e all’uomo inurbato. La personalità contraddistinta da tali qualità rivela, per un gusto non viziato, un sapore incontaminato come quello delle bacche, mentre l’uomo pienamente civilizzato, perfino in un riuscito esemplare della stirpe, ha per quello stesso palato morale una punta dubbia come di vino adulterato. Per qualunque erede smarrito di queste primitive qualità il quale venga trovato, come Kaspar Hauser⁸, a vagare stupefatto in una qualunque capitale cristiana dei nostri tempi, rimane ancora valida la famosa invocazione del poeta dall’animo gentile rivolta, quasi duemila anni fa, al buon campagnolo lontano dai suoi luoghi nella Roma dei Cesari:

    Povero e onesto, fedele in parole e pensieri,

    Cosa ti ha mai, Fabiano, condotto in città?

    Sebbene il nostro Bel Marinaio avesse altrettanta bellezza maschile quanto ci si possa mai aspettare di vedere; pure, come la bella donna in uno dei racconti minori di Hawthorne, una piccola cosa gli faceva difetto⁹. Nessuna imperfezione visibile per la verità, come nella signora; no, ma un’occasionale disposizione a un difetto vocale. Malgrado nell’ora del pericolo o della furia degli elementi, fosse tutto quello che un marinaio dovrebbe essere, tuttavia sotto l’impulso improvviso di una forte emozione la sua voce, altrimenti singolarmente musicale, come a esprimere l’armonia interiore, era soggetta a sviluppare un’esitazione organica, di fatto più o meno una sorta di balbettio, se non peggio. In questo particolare Billy rappresentava un sorprendente esempio di come il malizioso intruso, l’invidioso guastafeste dell’Eden, metta ancora più o meno il proprio zampino in ogni spedizione di uomini consegnata sul pianeta Terra. In ogni caso, in un modo o nell’altro, si assicura di infilare il suo bigliettino da visita, quanto basta a ricordarci: qui c’è anche il mio zampino.

    L’ammettere una simile imperfezione nel Bel Marinaio dovrebbe essere non solo prova che non viene presentato come un eroe convenzionale, ma anche che la storia in cui è il personaggio principale non è invenzione romanzesca.

    ⁶ Marinai, così chiamati per il colore delle uniformi (n.d.t.)

    ⁷ La Bibbia narra che Caino, dopo l’uccisione di Abele, si diede a costruire una città: Enoc. È uno degli innumerevoli riferimenti biblici che affollano il racconto di Melville (n.d.t.)

    ⁸ Un giovane tedesco dall’origine misteriosa, forse nato nel 1812, trovato a vagabondare per le strade di Norimberga nel 1826, e fino allora vissuto forse in isolamento coatto. Fu preso in protezione da un conte che lo fece studiare, ma morì poco dopo (n.d.t.)

    ⁹ Il racconto di Hawthorne è The Birthmark (La voglia): il marito di una donna bellissima vuole eliminare una voglia sulla guancia di lei, altrimenti perfetta, ma eliminato quel simbolo della condizione mortale, la donna, allegoricamente, muore (n.d.t.)

    Capitolo terzo

    Al momento dell’arbitrario arruolamento di Billy Budd a bordo del Bellipotent, quella nave era in rotta per raggiungere la flotta del Mediterraneo. Non trascorse molto tempo che il ricongiungimento fu effettuato. Come ogni nave di quella flotta il settantaquattro pezzi partecipò alle sue manovre, sebbene a volte, date le sue superiori qualità veliche, in mancanza di fregate, venne distaccata per compiti diversi come l’esplorazione e talvolta per incarichi meno temporanei. Ma di tutto ciò la nostra storia non si interessa molto, limitata com’è alla vita all’interno di una particolare nave e agli avvenimenti di un singolo individuo.

    Era l’estate del 1797. Nell’aprile di quell’anno c’era stato il tumulto di Spithead, seguito in maggio da una seconda e ben più grave sommossa della flotta al Nore. Quest’ultima è nota, senza che in questo ci sia esagerazione alcuna, come «il Grande Ammutinamento». Si trattò invero di una dimostrazione più minacciosa per l’Inghilterra di quanto non lo fossero i contemporanei proclami del Direttorio francese e delle sue armate, che andavano facendo conquiste e proseliti. Per l’Impero britannico l’Ammutinamento del Nore fu ciò che uno sciopero nella compagnia dei vigili del fuoco sarebbe per una Londra minacciata da un incendio generale. In un simile momento di crisi – in cui il regno avrebbe ben potuto anticipare il famoso segnale che qualche anno dopo avrebbe divulgato lungo tutto il fronte delle navi da guerra quanto in quell’occasione l’Inghilterra si aspettava dagli inglesi¹⁰ – sulle teste d’albero dei tre ponti e dei settantaquattro ormeggiati nella propria rada – una flotta che era il braccio destro di una Potenza allora quasi l’unica libera e conservatrice del Vecchio Mondo – le casacche azzurre, a migliaia, issarono con acclamazioni la bandiera britannica, avendone strappato via il simbolo dell’unione e la croce; trasformando, con questa mutilazione, la bandiera della legge consolidata e della libertà ben salda, nella rossa meteora della rivolta senza freni e senza limiti. Un giustificabile malcontento scaturito da disagi reali nella flotta aveva preso fuoco in un irragionevole incendio, come da braci vive spinte dal vento attraverso la Manica dalla Francia in fiamme.

    L’avvenimento fece suonare ironiche per qualche tempo le ardenti strofe di Dibdin – come bardo non di poco aiuto al governo inglese in quella congiuntura europea¹¹ – strofe che celebravano, tra l’altro, la devozione patriottica del marò inglese: «E quanto alla mia vita, appartiene al Re!».

    Un episodio siffatto, nella grande storia navale dell’Isola, fu naturalmente minimizzato dagli storici; uno di loro (William James) ammette candidamente che di buon grado lo trascurerebbe non fosse che «l’imparzialità impedisce la ritrosia». Eppure la sua citazione non è un racconto, quanto un accenno, che tocca appena i dettagli. Né questi sono facilmente reperibili nelle biblioteche. Come per altri avvenimenti che accadono in ogni epoca in tutti gli Stati, compresa l’America, il Grande Ammutinamento ebbe caratteristiche tali che l’orgoglio nazionale e insieme le regole della politica lo avrebbero di buon grado oscurato dietro lo sfondo della storia. Fatti del genere non possono essere ignorati, ma c’è una maniera assennata di trattarli dal punto di vista storico. Se un individuo rispettabile si astiene dal divulgare ogni cosa inopportuna o nociva per la sua famiglia, in circostanze analoghe una nazione può senza biasimo essere altrettanto discreta.

    Sebbene la prima rivolta – quella di Spithead – dopo trattative tra il governo e i caporioni, e concessioni del primo davanti ad alcuni gravi abusi, fosse stata ricomposta con difficoltà, e nonostante ciò le cose per il momento rappacificate; pure, l’imprevisto riaccendersi al Nore dell’insurrezione su ancora più larga scala, e accentuata nelle conferenze che seguirono da richieste giudicate dalle autorità non solo inammissibili ma aggressive e insolenti, indicò – qualora la Bandiera Rossa non bastasse a dimostrarlo – quale fosse lo spirito che animava gli uomini. Una repressione conclusiva, comunque, ci fu; ma solo resa possibile forse dalla indefessa lealtà del corpo di fanteria marina e da uno spontaneo ritorno di lealtà tra influenti porzioni degli equipaggi.

    In un certo senso l’Ammutinamento del Nore può essere considerato simile alla violenta esplosione di una febbre contagiosa in un organismo costituzionalmente sano, che subito se ne libera respingendola.

    A ogni modo, da quelle migliaia di ammutinati provenivano alcuni dei marò che non molto tempo dopo – spinti a tanto solo da patriottismo, o da istinto combattivo, o da entrambi – contribuirono a far guadagnare a Nelson un titolo nobiliare con la vittoria del Nilo, e la più splendida di tutte le corone navali a Trafalgar¹². Per gli ammutinati, quelle battaglie, e Trafalgar in special modo, furono una plenaria, e gloriosa assoluzione. Tra tutto ciò che contribuisce a costituire uno spettacolare dispiegamento navale e un’eroica magnificenza militare, quelle due battaglie, Trafalgar specialmente, spiccano incomparabili negli annali dell’umanità.

    ¹⁰ Allude al segnale che Nelson alzò nell’imminenza della battaglia di Trafalgar (1805) alla flotta inglese che, in linea di fila, dirigeva contro Villeneuve: «L’inghilterra si aspetta che ciascuno faccia il proprio dovere» (n.d.t.)

    ¹¹ Il Charles Dibdin (1745-1814), fu poeta e autore di canti patriottici che esprimevano fedeltà al Re e all’autorità (n.d.t.)

    ¹² Nelson fu creato baronetto dopo la vittoria del Nilo (1 agosto 1798); fu poi fatto visconte nel 1801; ma a Trafalgar, la corona nobiliare che, con la morte, conseguì fu la fama (n.d.t.)

    Capitolo quarto

    In questa faccenda dello scrivere, per quanto si possa essere risoluti a mantenersi sulla strada maestra, diversi sentieri secondari hanno un fascino a cui non ci si può facilmente sottrarre. Mi accingo a vagabondare per uno di questi sentieri. Se il lettore vorrà tenermi compagnia ne sarò felice. Almeno, possiamo prometterci quel piacere che malignamente si dice esservi nel peccato, perché un peccato letterario sarà infatti la divergenza.

    Molto probabilmente non è un’osservazione originale che le invenzioni del nostro tempo hanno infine prodotto un cambiamento nel condurre la guerra per mare, di livello pari alla rivoluzione causata in qualsiasi tipo di guerra dall’iniziale introduzione dalla Cina in Europa della polvere da sparo. La prima arma da fuoco europea, un rozzo congegno, fu, come ben si sa, scartata da non pochi cavalieri come un arnese indegno, buono appena, semmai, per soldati troppo codardi per combattere incrociando ferro con ferro in un leale combattimento. Ma come a terra il valore cavalleresco, pur privato del suo blasone, non cessò con i cavalieri, neppure sui mari – anche se oggigiorno, negli scontri, un certo tipo di ostentato coraggio galante sia caduto in disuso, in quanto difficilmente praticabile nelle mutate circostanze – le più nobili qualità di condottieri navali come Don Giovanni d’Austria, Doria, Van Tromp, Jean Bart, la lunga schiera degli ammiragli inglesi, e i Decatur americani del 1812 sono diventate obsolete come i loro vascelli di legno.

    Non di meno, a chi sappia tenere il presente nella giusta considerazione senza sottostimare il passato, può essere perdonato, se la solitaria vecchia carcassa di Portsmouth, il Victory di Nelson, sembri star lì a galleggiare, non solo come il fatiscente monumento di una gloria imperitura, ma anche come un poetico rimprovero, mitigato dall’aspetto pittoresco, ai Monitor¹³ e agli ancor più potenti scafi delle corazzate europee. E ciò non soltanto perché tali scafi siano brutti a vedersi, inevitabilmente privi dell’armonia e delle maestose linee delle antiche navi da guerra, ma anche per altre ragioni.

    Ci sono alcuni, forse, che pur non del tutto insensibili a quel poetico rimprovero a cui si è ora alluso, possono tuttavia, per esaltare il nuovo corso, esser disposti a pararlo di scherma; e ciò fino all’iconoclastia, se necessario. Per esempio, sollecitati dalla vista della stella intarsiata sul cassero poppiero del Victory, che indica il punto dove cadde il Grande Marinaio, questi marziali utilitaristi¹⁴ possono fare considerazioni insinuanti, suggerendo che la gallonata ostentazione della propria persona da parte di Nelson, durante la battaglia, fu non soltanto non necessaria, ma neppure militaresca, anzi, con un sapore di folle temerarietà e di vanità. E possono aggiungere anche, che a Trafalgar non ci fu in effetti che una sfida alla morte; e morte venne; e che se non fosse stato per questa bravata, l’ammiraglio vittorioso sarebbe probabilmente sopravvissuto alla battaglia, e in tal modo, invece di ottenere che le sagaci disposizioni date morendo venissero annullate dal suo successore al comando, lui stesso, una volta risolto favorevolmente lo scontro, avrebbe potuto condurre la sua flotta malconcia all’ancoraggio, evitando la deplorevole perdita di vite umane dovuta ai naufragi nella tempesta naturale che seguì a quella bellica.

    Bene, dovessimo trascurare il più che discutibile punto se per varie ragioni sarebbe stato possibile far ancorare la flotta, è abbastanza plausibile che allora i Benthamiti della guerra¹⁵ insisterebbero sulla questione. Ma interrogarsi su quello che «avrebbe potuto essere» è costruire su terreno paludoso. E, senza dubbio, nel prevedere l’esito più favorevole di uno scontro, e negli ansiosi preparativi per esso – segnando con boe la rotta fatale e tracciandone una mappa, come a Copenhagen¹⁶ – pochi comandanti sono stati così diligentemente circospetti come questo temerario espositore della propria persona in combattimento.

    La prudenza personale, anche quando dettata da tutt’altro che considerazioni egoistiche, certamente non è una virtù speciale in un militare; mentre uno smodato amore per la gloria, che infiammi un impulso meno ardente, cioè l’onesto senso del dovere, è la prima. Se il nome di Wellington non suona tanto una squilla per il sangue come il più semplice nome di Nelson, la ragione si può forse dedurre da quanto detto sopra. Alfred nella sua ode in morte del vincitore di Waterloo¹⁷ non si avventura a chiamarlo il più grande soldato di ogni tempo, mentre invece nella stessa ode invoca Nelson come «il più grande marinaio dalla creazione del mondo».

    A Trafalgar, Nelson, proprio sul punto di iniziare il combattimento, sedette a scrivere le sue ultime brevi volontà testamentarie. Se, sotto il presentimento che la più magnifica di tutte le vittorie dovesse coronarsi con la sua morte gloriosa, una specie di ragione sacerdotale lo spinse a rivestire la propria persona di tutte le gemmate testimonianze delle sue imprese scintillanti; se essersi adornato così per l’altare e per il sacrificio sia stato davvero vanagloria, allora ogni frase più eroica delle grandi odi epiche e dei grandi drammi è affettazione e ampollosità, poiché in tali frasi il poeta non fa che tradurre in versi quelle esaltazioni del sentimento che un’indole come Nelson, quando gliene sia offerra l’occasione, può trasformare in azioni.

    ¹³ Il Monitor fu una delle prime navi corazzate, usata dai nordisti nel 1862, durante la Guerra Civile americana; diede, poi il nome a un’intera classe di navi piuttosto basse e tozze (n.d.t.)

    ¹⁴ Vedi la nota successiva.

    ¹⁵ Dal nome di Jeremy Bentham (1748-1832), filosofo e legislatore inglese, fondatore dell’utilitarismo, una dottrina filosofica tesa a valutare il comportamento umano in base ai piaceri e alle sofferenze sensibili, secondo i cui princìpi ciò che è utile è buono e può essere determinato. Le sue idee, orientate socialmente, vennero in epoca vittoriana intese in maniera rigida, e il suo pensiero illuminato e anticipatorio venne ridotto a un razionalismo meccanico e calcolante. E a questa interpretazione fa qui probabilmente riferimento Melville (n.d.t.)

    ¹⁶ La battaglia di Copenhagen (2 aprile 1801), in cui Nelson guidò la flotta con boe dentro il canale annientando i danesi (n.d.t.)

    ¹⁷ Ode on the Death of the Duke of Wellington (1852), di Alfred Tennyson (1809-1892), poeta vittoriano inglese. Wellington fu il generale che sconfisse Napoleone a Waterloo, nel 1815 (n.d.t.)

    Capitolo quinto

    Sì, la sommossa del Nore fu repressa. Ma non tutti i motivi di malumore furono eliminati. Se, per esempio, ai fornitori non fu più permesso di impiegare alcuni sistemi ovunque peculiari della loro genia, come fornire uniformi scadenti, razioni avariate o non giuste nel peso, tuttavia l’arruolamento forzato, per dirne una, continuò. Per abitudine sanzionata nei secoli, e giuridicamente mantenuta da un Lord Cancelliere recente come Mansfield, questo modo di equipaggiare la flotta, metodo ormai caduto in una specie di sospensiva legale, ma mai formalmente abolito, in quegli anni non si poteva di fatto abbandonare. La sua abolizione avrebbe paralizzato la flotta, indispensabile, totalmente a vela, senza forza vapore, con le sue innumerevoli vele e le migliaia di cannoni, insomma, tutto manovrato solo a forza di muscoli; una flotta ancor più affamata di uomini, dato che in quell’epoca stava moltiplicando le proprie navi di ogni classe in conseguenza delle circostanze presenti e future che maturavano sul Continente sconvolto.

    Il malcontento aveva anticipato i Due Ammutinamenti e, più o meno nascosto, sopravvisse a essi. Non era dunque irragionevole temere qualche ritorno di disordine, sporadico o generale. Una dimostrazione di questo timore: nello stesso anno di questa storia, Nelson, allora Contrammiraglio Sir Orazio, trovandosi con la flotta a largo della costa spagnola, ricevette dall’ammiraglio comandante in capo l’ordine di trasferire la sua insegna dal Captain al Theseus; e la ragione era questa: siccome quest’ultima nave era appena allora giunta in linea dalla madrepatria, dove aveva preso parte al Grande Ammutinamento, si temeva risultasse pericolosa a causa dell’umore dell’equipaggio; e si pensava che un ufficiale come Nelson fosse l’unico in grado, non certo di terrorizzare la ciurma fino a una vile sottomissione, ma di riconquistare gli uomini, in forza della sua sola presenza e della personalità eroica, a una fedeltà se non entusiastica come la sua, almeno altrettanto leale.

    Così avvenne che per qualche tempo, su più d’un cassero, covò una notevole apprensione. In navigazione furono rinforzate le cautele e la vigilanza contro un ritorno di fiamma. In qualsiasi momento si poteva verificare uno scontro. Quando capitava, i tenenti di vascello assegnati alle batterie sentivano incombere su di sé, in qualche caso, la necessità di stare a spada sguainata dietro gli uomini che servivano ai cannoni.

    Capitolo sesto

    Ma a bordo del settantaquattro su cui Billy tesava ora la sua branda, pochissimo nelle maniere degli uomini e nulla di evidente nel contegno degli ufficiali avrebbe potuto suggerire a un normale osservatore che il Grande Ammutinamento fosse un evento recente. Nel loro atteggiamento generale e nella loro condotta gli ufficiali di una nave da guerra traggono istintivamente il loro registro dal comandante, quando lui abbia quell’ascendente nel carattere che dovrebbe avere.

    Il capitano di vascello onorevole Edward Fairfax Vere, per dargli il suo titolo completo, era uno scapolo di quarant’anni o giù di lì, un marinaio di spicco anche in un tempo prolifico di uomini di mare rinomati. Sebbene apparentato con la più alta nobiltà, la sua promozione non era stata affatto dovuta alle influenze legate a tale circostanza. Era stato in servizio a lungo, aveva partecipato a diversi scontri, proponendosi sempre come ufficiale attento al benessere dei suoi uomini, ma mai tollerante verso un’infrazione alla disciplina; profondamente versato nella scienza della propria professione e intrepido fino al limite della temerarietà, sebbene mai scriteriatamente. Per il suo valore nelle acque delle Indie Occidentali, come aiutante di bandiera sotto Rodney nella vittoria finale di quell’ammiraglio su De Grasse, fu promosso alle funzioni di capitano di vascello.

    A terra, in abiti borghesi, quasi nessuno lo avrebbe preso per un marinaio, tanto più che lui non infiorettava mai i suoi discorsi non professionali con termini marinareschi, e grave nel comportamento, mostrava di apprezzare ben poco l’umorismo fine a se stesso. Era in sintonia con queste sue caratteristiche il fatto che, durante una traversata in cui nulla richiedeva la sua azione preminente, lui era il più riservato degli uomini. Ogni uomo di terraferma, osservando questo signore non notevole per statura e che non indossava vistose decorazioni uscire dal suo alloggio in coperta, e notando la silenziosa deferenza degli ufficiali che si ritraevano sottovento, lo avrebbe preso per un ospite del Re, un civile a bordo di una regia nave, un qualche inviato, discreto ma altamente onorevole, in transito verso una destinazione importante. Ma in realtà una tale riservatezza di comportamento poteva derivare da una certa genuina modestia virile, che alle volte accompagna un’indole risoluta, una modestia che si manifesta in ogni contingenza che non richieda un’azione decisa, che in qualunque ceto e condizione si mostri, suggerisce una virtù di natura aristocratica. Come diversi altri uomini impegnati in vari rami delle più eroiche attività del mondo, il Capitano Vere, sebbene sufficientemente pratico all’occasione, a volte tradiva una certa tendenza d’animo sognatrice. Solo, in piedi sul lato sopravvento del cassero, una mano stretta sulle sartie, soleva guardare con occhio assente verso il mare vuoto. Quando poi gli veniva presentata qualche questione di poco conto, che interrompeva il corso dei suoi pensieri, mostrava una certa irascibilità; ma subito la reprimeva.

    In marina era popolarmente conosciuto con l’appellativo di «lo stellato Vere». Come una tale definizione fosse stata cucita addosso a uno che, per quanto di solide qualità, non ne aveva affatto di brillanti, si spiega così: un parente prediletto, Lord Denton, uomo aperto di cuore, era stato il primo a incontrarlo e a congratularsi con lui al suo ritorno in Inghilterra dalla crociera nelle Indie Occidentali; e

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