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Il principe mai bambino: Vivere o sopravvivere
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Il principe mai bambino: Vivere o sopravvivere
E-book470 pagine7 ore

Il principe mai bambino: Vivere o sopravvivere

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Info su questo ebook

Sono uno dei tanti Principi mai stati bambini, ormai diventato uomo, a cui è stata strappata l’infanzia, addirittura da suo nonno. Sì, sono “uno dei tanti” che ha subìto abusi perché siamo più di quanto si possa pensare.Non ho fatto studi in psicologia, ma ho trovato il coraggio di parlare al mondo della mia vicenda, sperando così di essere d’aiuto a chi questo coraggio non lo ha e “sopravvive” per inerzia, invece di vivere un’esistenza che merita e di cui ha pieno diritto come chiunque.Dio possa benedirvi grandemente.
Per voi sarò Marco Adelbrandi, ho quarantatré anni e sono felicemente sposato con Deborah. Sono papà di una splendida bimba, Gaia. Con noi c’è anche il nostro bambinone, Attila, uno splendido meticcio.
LinguaItaliano
Data di uscita19 mar 2024
ISBN9791281815001
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    Anteprima del libro

    Il principe mai bambino - Marco Adelbrandi

    PREFAZIONE

    Buongiorno a tutti, mi presento: sono Marco Adelbrandi e sono qui per mettere nero su bianco quanto la vita mi ha riservato.

    Non è stato affatto facile arrivare alla decisione di parlare degli abusi che ho subito da bambino.

    Il motivo?

    Mettetevi nei miei panni: esternare al mondo intero quello che mi è capitato non è facile, anche se l’ho fatto usando nomi e luoghi di fantasia.

    Perché?

    Perché ogni pagina scritta mi fa rivivere momenti molto duri della mia vita e condividerli con il mondo intero è per me come se il mio vissuto non fosse più solo mio, ma diventasse parte della vita di tutti.

    Sono comunque molto contento di essere riuscito a realizzare questo mio progetto, che spero dal profondo del cuore possa essere di aiuto a molte persone e, soprattutto, a molti sopravvissuti: i primi perché possano comprendere e non giudicare il comportamento del nostro prossimo a priori; i secondi perché sappiano che esiste la speranza di poter tornare a vivere, che basta crederlo e fare un duro lavoro su se stessi. 

    Tutto ciò che questo libro racconta sono le mie esperienze, le mie cadute, le mie battaglie, i miei sentimenti e il mio duro lavoro. Nulla di quello che è scritto qui è un’invenzione. 

    Inizialmente, in questo libro figurava il mio nome e cognome ed era scritto in prima persona, perché dopo il mio percorso non avevo più vergogna di esternare al mondo quello che avevo passato, anche se sto ancora lavorando su alcuni strascichi dell’abuso.

    Quindi non mi vergognavo di espormi in prima persona. Porto ormai una cicatrice che non fa più male, ma è lì e non intendo rimuoverla con un intervento chirurgico: sono fiero e orgoglioso di portarla, di guardarla per non dimenticare mai.

    L’avevo fatto perché volevo metterci personalmente la faccia, dare un’identità e un volto a tutti coloro che i lettori avrebbero incontrato in questo libro. All’inizio avevo cominciato a scrivere per liberare su carta il mio inconscio, i miei pesi, le mie ferite, come un esercizio terapeutico; poi, man mano che andavo avanti, ho sentito dentro di me il desiderio di condividere tutto con il mondo, per poter raccontare di questa piaga che ci circonda. Quando, però, ho esposto alla mia famiglia l’intenzione di pubblicare questo scritto, mi hanno esplicitamente richiesto di non menzionare nessuno di loro.

    Tuttavia se avessi rimosso dal libro i miei familiari, che come me sono attori – anche se non protagonisti – di questa vicenda, la storia sarebbe stata incompleta e inconcludente.

    Alla fine, quindi, ho deciso di cambiare i loro nomi, perché li amo e devo rispettare il loro desiderio di restare nell’anonimato. Per questo ho anche scelto di cambiare i nomi dei luoghi, perché da essi non si potesse risalire a loro.

    Sono certo che, nonostante la presenza dei nomi di fantasia, il beneficio che trarrete dalla mia storia sarà lo stesso, se non addirittura maggiore, perché in questo modo vi sto anche trasmettendo che è fondamentale il rispetto del prossimo, soprattutto quando anche lui ha subìto lo stesso trattamento.

    Devo confessare che ci ho riflettuto molto prima di apportare il cambiamento; sono stato tanto combattuto, ma alla fine sono arrivato alla conclusione che, come scrivo nel mio libro, ognuno di noi ha il suo carattere, la sua sensibilità. Ciascuno vive questa esperienza a suo modo.

    Se io intendo metterci la faccia, gli altri potrebbero anche non volerlo. È mio compito tutelarli e rispettarli in nome dell’amore che ho per loro. Ogni persona che subisce un abuso deve essere libera di gestire quell’esperienza della sua vita come meglio ritiene:

    non è affatto un mio diritto sbandierare i loro nomi, riaprendo così le loro ferite. Non posso essere io a rendere pubbliche le loro sofferenze. 

    Per quanto mi riguarda, ho scelto di raccontare la mia storia con tutti i particolari, talvolta anche crudi, senza inventare nulla, perché spero che questa mia franchezza e questo mio coraggio possano essere uno stimolo e un aiuto per le persone a cui è dedicato il mio libro.

    Mi riferisco a quelle persone che vivono nell’ombra; quelle persone che, per paura o vergogna, vivono passivamente l’esperienza più brutta che, a parer mio, possa esistere.

    Il mio grido è per i bambini e gli adolescenti, i giovani e gli adulti, ma anche per gli anziani, tutti voi che siete costretti, più che a vivere questo incubo, a conviverci in silenzio, di nascosto, per paura di ritorsioni o di non essere creduti, per la vergogna di un giudizio del mondo.

    A volte, nonostante si sia vittime impotenti, il mondo intorno a noi ci condanna o ci giudica perché ritiene che ce la siamo cercata, oppure che abbiamo taciuto o che ci siamo inventati certe storie solo per cavalcare la cresta dell’onda, la moda del momento.

    Ho sentito tanti commenti e tante reazioni, quando è uscito il caso Weinstein, che mi hanno fatto rabbrividire. Oltre a quelli più comuni di cui ho accennato poc’anzi, il commento più grosso è stato, a mio parere: «Si sveglia adesso, dopo tutto questo tempo».

    Amici, dal mio percorso ho imparato una cosa importante: non c’è un tempo prefissato nel quale ognuno di noi riesce a esternare quello che ha subìto. Non esiste alcuna regola scritta: bisogna innanzitutto essere pronti ad accettarlo, a riportarlo nel nostro conscio e infine a parlarne.

    Potresti farlo subito, è vero, ma potrebbero anche volerci anni prima che la tua psiche accetti il torto subìto e che il tuo Io sia pronto a vomitarlo. Inoltre sono convinto che la solidarietà tra abusati possa essere uno stimolo a trovare in noi stessi il coraggio per parlarne; chi, invece, scambia tutto questo per una moda, vuol dire che non ha proprio idea di cosa un abuso può creare in una persona.

    Anche mantenendo l’anonimato, però, non è facile scrivere un libro di tale portata, perché ogni parola e ogni pagina rievocano in me ricordi dolorosi di situazioni surreali che ho vissuto; nei due anni e mezzo in cui mi sono dedicato a questo libro, sono stato costantemente assalito da ansie e pensieri.

    Ci ho impiegato così tanto tempo perché ho dovuto prendermi delle soste quando scrivevo, in quanto a volte sentivo la necessità di prendermi una pausa emotiva.

    In realtà sono stato combattuto per anni, esattamente dal 2016, se scrivere un libro sulla mia esperienza o meno. Ho perfino pregato Dio perché si servisse di me per aiutare il mio prossimo.

    L’ho iniziato tante volte e altrettante l’ho interrotto. Ho dato diversi titoli al libro, ho scritto pagine su pagine, ma poi, rileggendole, non mi davano il calore che intendevo trasmettere, erano soltanto una cronistoria di fatti e non quello che volevo che fossero.

    A un certo punto, ho anche accantonato l’idea di scriverlo.

    Mille pensieri mi balzavano in testa: non ne sono ancora totalmente guarito e voglio già aiutare gli altri? A patto che riesca davvero a scriverlo, chi mai si prenderebbe la briga di pubblicare il libro di un emerito sconosciuto?

    Tuttavia, dentro di me, man mano che andavo avanti, il desiderio di condividerlo cresceva. Anche una volta deciso di accantonare l’idea, quel pensiero continuava a restare radicato in me; e quando ciò accade, pur rimanendo silente, prima o poi esso reclama il suo posto.

    Così è stato per me: una mattina ho deciso di mandare il mio progetto via e-mail a diversi editori. All’inizio era più per placare quel mio pensiero tornato a farsi strada nella mia vita, pur essendo sicuro che nessuno l’avrebbe preso in considerazione.

    Invece con mia sorpresa, e con mia grande gioia, qualcuno mi rispose.

    Molti – ne sono certo – si chiederanno il perché del titolo che ho scelto. 

    Anche per quello sono stato molto combattuto: il titolo di un libro è molto importante, perché deve racchiudere in poche parole il senso e il contenuto che in esso l’autore vuole esprimere. 

    In pratica è il biglietto da visita dello scrittore, con cui questi cerca di farsi conoscere e attirare l’attenzione del lettore. 

    All’inizio la mia scelta verteva su un versetto del Salmo di Davide L’Eterno è il mio pastore (il numero 23):

    Quand’anche camminassi nella valle della morte

    Mi sembrava molto calzante con la storia che stavo narrando, perché io ho davvero camminato nella valle della morte. Io ho vissuto per trentacinque anni, e forse più, nella valle della morte.

    Seppur bello, il titolo era un po’ troppo lungo e non esprimeva appieno il significato di quanto volevo trasmettere, perché purtroppo siamo in tanti a camminare in quella valle della morte, che per ciascuno racchiude esperienze diverse.

    A un certo punto sono venuto a conoscenza di una vicenda che mi ha sconvolto nel profondo e che ha iniziato a radicare in me la convinzione che renderlo pubblico sarebbe stata la scelta corretta. 

    Si trattava della storia di Noa Pothoven, una ragazza olandese che si è lasciata morire dopo aver subìto un abuso in tenera età. 

    Una mattina lessi quell’articolo mentre sul mio smartphone guardavo le ultime notizie. 

    Le frasi che mi avevano colpito moltissimo erano state gli estratti delle sue ultime ore di vita da lei postate su Instagram:

    È finita, non ero viva da troppo tempo, sopravvivevo e ora non faccio più neanche quello. Respiro ancora, ma non sono più viva.

    Sono molto debole, non inviatemi messaggi perché non posso gestirli e non cercate di convincermi che sto sbagliando, questa è la mia decisione ed è definitiva.

    Ho pensato molto a lei e alla sua storia; tuttora mi si drizzano le antenne ogni qualvolta leggo qualche articolo simile: noi abusati siamo molto sensibili a vicende che trattano quell’argomento. 

    Dopo aver letto l’articolo, ho fatto una riflessione e un confronto con la mia situazione, con la mia vita e con quella di noi vittime. 

    Sono arrivato alla conclusione che tutti noi, dopo quanto ci è capitato, abbiamo smesso di vivere e ci siamo limitati a sopravvivere. 

    A quel punto, l’ultimo pensiero di Noa ha toccato la mia anima ed è diventato il nuovo titolo: 

    Vivere o sopravvivere

    Era davvero molto calzante, perché io e tanti come me ci siamo limitati a sopravvivere, mentre soltanto alcuni, alla fine, sono riusciti finalmente a vivere. Ma c’era ancora qualcosa che non mi convinceva fino in fondo: esprimeva bene il concetto, è vero, ma mancava quel pizzico di mio, quello che alla fine, per intenderci, è mancato nella mia esistenza e, di conseguenza, mi ha costretto a sopravvivere. 

    E per ultimo, ecco il titolo attuale: Il principe mai bambino

    Mi è venuto in mente come una cosa naturale e mi ha entusiasmato all’istante. È stato accolto di buon grado anche dal gruppo di amici revisori. 

    Però, perché principe?

    In primis, perché il principe, in quanto figlio di un re, è visto nell’immaginario collettivo come un privilegiato, una persona, insomma, che può avere praticamente tutto quello che desidera; cosa che in parte è accaduta anche a me. 

    Il secondo motivo, non meno importante, è radicato in quello in cui non ho mai smesso di credere nonostante tutto.

    Noi tutti, quando nasciamo, siamo dei figli di Dio. Poi ognuno, durante la vita, fa le sue scelte, come aveva fatto il figliol prodigo.

    Tali decisioni, a volte, ci portano a prendere tutto quello che ci spetta, cioè la nostra eredità, e ad andare via di casa. 

    Qualcuno la prende come una scelta definitiva, mentre altri, come nel mio caso, rientrano in sé e tornano alla casa del Padre, il quale è lì fuori ad aspettare, senza aver mai perso le speranze. 

    Dio, nostro Padre, è un Re, e noi, per diritto di nascita, siamo dunque principi

    Mai bambino perché è una fase della vita che non ho mai vissuto, è un periodo che non ho mai avuto il piacere di conoscere, perché sono stato scaraventato dall’essere un infante a essere un adulto, pur non avendone i mezzi. 

    Questo, come vedrete, sarà la causa di tante cose e, soprattutto, del mio non vivere e del mio sopravvivere.

    In onore di Noa, che mi ha dato la spinta per portare a termine questo mio progetto, ho comunque deciso, però, di inserire il suo ultimo pensiero non più come titolo del libro bensì come sottotitolo.

    Per rendere l’idea di quello che ho subìto, dei danni, del mio duro lavoro, vi capiterà di trovare in qualche capitolo degli estratti con le date di quando, appena all’inizio del mio lavoro con Girolamo (mio consulente e amico), la mia psiche riversava pensieri, ricordi e sensazioni per alleggerirsi e per guarire interiormente il mio Io ferito.

    Al settimo capitolo ho dato un sottotitolo, fede e psicologia, per spiegare alcuni argomenti che forse per molti saranno sconosciuti e che ho trattato – e tratto ancora – durante l’accompagnamento con Girolamo.

    Avendo frequentato due anni di corso in relazione di aiuto, e quindi non essendo ancora un consulente finito, ho preso spunto nel mio scritto da un libro molto bello e interessante scritto da un bravissimo e preparatissimo psicologo francese, che ho avuto l’onore di conoscere e di sentire insegnare dal vivo, che si chiama Jacques Poujol.

    Questo libro si chiama L’Accompagnamento psicologico e spirituale, è un vero manuale per imparare a conoscersi e a iniziare ad avere le basi per aiutare gli altri. Lo consiglio vivamente, come consiglio tutti i libri scritti da Jacques, al quale vanno i miei cari saluti e i miei più grandi ringraziamenti per il suo aiuto e sostegno.

    CAPITOLO 1

    Presentazione

    Il mio nome è Marco Adelbrandi, sono nato e vivo a Verona. Sono un ragazzino di quarantacinque anni, sposato con Deborah, una donna unica, e padre di Gaia, la nostra piccola pulcina di cinque anni.

    Dimenticavo: con noi c’è anche Attila, un bel meticcio di quasi nove anni, preso dal canile nel gennaio del 2016.

    Sono l’ultimo di sei figli. La mia famiglia è composta dai miei genitori, quattro sorelle con i loro mariti, un fratello con sua moglie, e sette nipoti, di cui tre sposati, e due pronipoti. Quando ci riunivamo tutti insieme, eravamo una squadra di calcio con la cosiddetta panchina lunga: ben ventisette persone! Diciamo che, se avessimo organizzato una riunione di famiglia durante il periodo di lockdown, ci avrebbero multato per assembramento.

    Io e mio fratello siamo figli di un padre, mentre le mie quattro sorelle sono figlie del primo marito di mia mamma, che purtroppo è morto giovane, lasciandola vedova e sola, con quattro figlie piccole.

    Sono nato con un insegnamento religioso cristiano evangelico, poiché mio papà era cattolico non praticante, mentre mia mamma era evangelica praticante.

    Per questo motivo, a parte gli obblighi imposti da mio papà, quali battesimo e comunione, in realtà più per tradizione che per fede, ho frequentato l’ambiente evangelico.

    Per gran parte della mia vita, essere evangelico mi faceva sentire perfetto. Ero convinto che solo noi evangelici avevamo la verità in mano, mentre tutti gli altri erano dei non credenti, ai quali serviva che noi li ravvedessimo, aprissimo loro gli occhi.

    Quando ho conosciuto Deborah, che era cattolica sebbene non più praticante, ero convinto che Dio mi avesse dato la missione di farla ravvedere. Quanto mi sbagliavo.

    Oggi non penso più che se sei evangelico sei meglio del cattolico; ritengo invece che, se lo sei solo di nome, qualsiasi credo tu abbia non ha alcuna valenza. Non è la religione che ti rende diverso, è il credere in Dio, e seguire per quanto possibile le orme di Gesù.

    Purtroppo ognuno di noi pensa di essere nel giusto e condanna il suo prossimo. Così ho fatto anch’io per gran parte della mia vita, senza ragionare sul fatto che l’insegnamento di Cristo, invece, dice: Non giudicare e non sarai giudicato.

    Da bambino ho iniziato a frequentare assiduamente la scuola domenicale e, in estate, facevo dei campi vacanze cristiani con i bambini delle varie chiese d’Italia.

    Andavamo in Svizzera.

    Si tratta di esperienze che ricordo con molto piacere e con molta gioia nel cuore. Forse anche con un po’ di tristezza, per quel tempo lontano e per quanto abbiamo passato in quei ritrovi.

    In quei campi eravamo tutti dei ragazzini e venivamo suddivisi per fasce d’età nelle attività del giorno.

    Tutto era incentrato sul vivere insieme nel rispetto dell’educazione e negli insegnamenti d’amore di nostro Signore.

    I monitori erano gli addetti all’organizzazione del campo e si occupavano di tenere le lezioni; il Pastore di riferimento era il responsabile del campo e colui che celebrava le riunioni la sera; inoltre, c’erano i cuochi.

    Infine c’eravamo noi, bambini e ragazzi di ogni età, dai sei fino ai sedici anni, di ogni regione, di ogni estrazione sociale: tutti insieme a vivere quell’avventura.

    Dovevamo darci tutti da fare: a turno si puliva, si apparecchiava e si sbrigavano le faccende, così che tutta la ruota girasse in maniera corretta.

    C’era anche tempo per giocare insieme e per divertirsi.

    Il solo fatto di essere scaraventato in quell’avventura, ma soprattutto di doverti responsabilizzare, ti rendeva fiero e ti riempiva di gioia.

    Purtroppo, però, i campi finivano e si ritornava nel mondo, con le sue regole.

    La mia vita, quindi, proseguiva apparentemente in maniera normale.

    Da quel periodo, fino all’elaborazione dell’abuso, ho vissuto due vite, una delle quali era solo di facciata per chi mi stava intorno.

    In quella ero stato prima bambino, poi ho percorso le tappe di adolescente, ragazzo e infine adulto, come tutte le persone normali, con le relative gioie, problemi, successi e fallimenti.

    Poi c’era la mia vita reale, quella che, dopo l’abuso subìto, ha condizionato il mio carattere, la mia psiche e, di conseguenza, il mio modo di vivere.

    Essa era tutt’altro che normale, a differenza di come poteva sembrare la mia vita di facciata; anzi, era orribile: dentro di me vivevo un inferno, costellato da un’enorme sofferenza, da tristezza, senso di inadeguatezza e di inferiorità, di colpevolezza per l’assenza di limiti e di regole.

    Se nella mia vita di facciata sono stato prima bambino, poi adolescente, ragazzo e infine adulto, in quella reale è stato tutto molto diverso: dopo l’abuso, sono stato catapultato dall’essere un infante di tre anni a essere subito un adulto, saltando quindi le tappe intermedie. Infatti, l’orrore che ho vissuto mi ha fatto entrare in contatto con il sesso fine a se stesso, con i soldi, la depravazione, la prevaricazione: tutte cose che un bambino non può riuscire a elaborare. Così, sono diventato un adulto di quattro anni senza i mezzi per esserlo: mi sono creato delle barriere, che mi sono servite per sopravvivere ma che hanno condizionato, e non poco, la mia cosiddetta vita normale di facciata. Esse mi hanno reso insensibile, apparentemente forte e incapace di esternare i miei sentimenti, sia di gioia che di sofferenza. Ero praticamente un automa o, come mi definiva mia moglie Deborah, una pentola di ghisa.

    Il motivo? Semplice: non volevo farmi vedere fragile dal mondo attorno a me, né sensibile e con dei sentimenti, perché nessuno avrebbe più dovuto abusare di me, non lo avrei più permesso.

    Le scuole elementari sono trascorse normalmente, non serbo nessun ricordo particolare, a parte ciò che accadde in terza: un ragazzo si aggregò alla mia classe; aveva degli handicap sia motori che mentali. Io e lui abbiamo legato molto, tanto che è diventato un mio grande amico.

    Questo ragazzo mi aveva fatto subito tenerezza, perché era sempre solo e, a volte, veniva anche deriso; ma io, a mio modo, lo proteggevo, perché non doveva vivere l’inferno che vivevo io. I bambini, purtroppo, sanno essere molto cattivi con chi è diverso, seppur nella loro semplicità e innocenza.

    Mio padre mi aveva iscritto in una scuola di calcio di cui un suo collega era presidente.  Era una bella squadretta, e io amavo il calcio.

    Passai così il periodo delle scuole elementari, con le amicizie tra i bambini della chiesa e del mio cortile, con i quali giocavo a calcio, a nascondino e ad altri intrattenimenti di gruppo.

    Era tutto all’insegna dell’innocenza e della semplicità, cose che oggi con i computer, i telefonini e i social media sono stati un po’ persi.

    Posso dire che è stata una bella infanzia di facciata; a raccontarlo sembra quasi un’infanzia normalissima. Tuttavia, nonostante non possa lamentarmene, ero sempre a combattere con i miei demoni.

    Poi da giugno, quando le scuole finivano, i miei nonni paterni ci caricavano sul treno e andavamo a Matera dai parenti, dove, quando ad agosto la grande azienda in cui lavoravano i miei genitori chiudeva, ci raggiungevano anche loro. Questo andò avanti fino al 1982, anno della dipartita di mia nonna.

    L’unico periodo che ricordo con molto dolore è stato nel 1984: avevo sei anni quando Lorella, la mia sorella più grande, si è sposata.

    Ho sofferto molto per questo.

    Ogni venerdì mi trasferivo da loro, dormivo in mezzo a lei e al neo maritino. Chissà quanto ne era contento!

    Comunque, per Lorella e Totò io ero come un figlio, mentre lei per me era come una mamma.

    Il periodo delle medie è quello che ricordo come il più brutto della mia vita, almeno dal punto di vista scolastico e dei miei compagni di classe.

    La mia vita in famiglia procedeva normalmente e in chiesa andava sempre bene, con la scuola domenicale e il catechismo.

    Avevo iniziato, però, a fare qualche marachella in giro con gli amici.

    Frequentavo sempre gli amici del cortile dov’ero nato, con i quali giocavo a calcio.

    In estate continuavo ad andare ai campeggi, in cui facevo magnifiche esperienze con il Signore e con gli amici di tutta Italia.

    In quegli anni, però, un’altra mia sorella si sposò.

    Angelica, la terza in ordine di età, se ne andava.

    Anche in questa occasione ho patito molto, perché lei era l’anima della casa. Era la più simile a me: compagnona e ribelle, ma al contempo timorata di Dio e una persona di gran cuore.

    Arrivai quindi alle superiori!

    A differenza di quello che mi avevano consigliato alle medie, cioè di andare a una scuola di basso livello, io scelsi di frequentare ragioneria.

    In classe ero un leader, un amicone, il ragazzo più simpatico, che faceva sempre battute.

    Ero simpatico anche ai professori, sebbene abbia sempre rischiato il 7 in condotta, perché troppo esuberante. Di conseguenza, anche il mio rendimento scolastico era molto buono: avevo la media del 7. Mi piacevano le lezioni e le materie; ero uno di quelli dotati di buona memoria e intuito, di conseguenza non passavo la mia vita sui libri per raggiungere certi risultati.

    Comunque sia, passavo la maggior parte del tempo con i miei amici del cortile.

    Eravamo in tanti, una bella comitiva, tutti nati in quel complesso di palazzi che formavano un cortile enorme con annesso giardino, e per questo i nostri genitori potevano lasciarci andare liberi senza avere patemi d’animo.

    I primi due anni delle superiori volarono pressoché come ho raccontato; l’unica nota negativa fu che iniziai a fumare a causa delle compagnie che frequentavo, soprattutto a scuola. Ovviamente tutto in gran segreto dalla mia famiglia, nella quale quel vizio era assente.

    Inoltre, iniziarono a comparirmi alcune macchie sulla pelle: sulle dita, intorno agli occhi e sui genitali. Mi feci visitare da un dermatologo: era vitiligine, una malattia psico-somatica che schiarisce la pigmentazione della pelle.

    Con il passare del tempo, grazie a Dio, la situazione in buona parte regredì e mi rimasero solo delle macchie sulle dita e sui genitali.

    Nell’età dell’adolescenza, avere una malattia di quel tipo è parecchio debilitante a livello psicologico, perché non si può fare a meno di sentirsi diversi.

    Il mio inconscio, represso dalla mia armatura, non poteva essere ascoltato e reclamava attenzione tramite il mio corpo.

    Nell’estate del 1994, nel mese di luglio, in seguito alle continue esperienze meravigliose con il Signore e dopo una seria riflessione, ho deciso di dichiarare davanti a Dio e davanti agli uomini la mia appartenenza a Lui.

    Ho scelto così di farmi battezzare nell’acqua.

    È stato magnifico. Ho provato un’emozione enorme nel dichiarare il mio immenso amore per Lui con quel gesto, che racchiude un significato molto forte, come indicato dalle parole pronunciate dal mio maestro: chi avrà creduto e sarà battezzato, sarà salvato.

    Nel settembre 1994 riprese la scuola.

    Dopo il biennio, scelsi di frequentare una specializzazione nuova per l’epoca: ragioniere programmatore.

    La mia frequentazione in chiesa continuava, comunque.

    Tuttavia, a volte, la domenica facevo un po’ fatica a svegliarmi, visto che il sabato sera facevo tardi.

    Il 31 agosto 1996, Stefania si unì a nozze con Raffaele.

    Fu davvero triste per me: la mia casa, in cui eravamo sei figli, si era ridimensionata a tre. Un altro pezzo del mio cuore se n’era andato.

    Sicuramente per lei c’era grande gioia per la sua nuova vita, anche perché si andava a unire con un grande uomo, ma per me era un ennesimo cambiamento: un nuovo indizio che la vita come la conoscevo non ci sarebbe più stata.

    È triste pensare che quello che è stato non potrà più essere.

    A quel punto, dato che ormai avevo iniziato il giro delle vacanze da solo, per non gravare troppo sui miei genitori, iniziai a lavorare al mercato con un fratello della chiesa nei mesi di giugno e luglio.

    L’anno della quinta superiore iniziò nel migliore dei modi...

    Ero a casa di Raffaele e Stefania, quando mi prese un dolore lancinante al fianco.

    Raffaele mi accompagnò al pronto soccorso e venni ricoverato per circa una ventina di giorni per accertamenti.

    Mi rivoltarono con un calzino, ma alla fine non trovarono nulla di anomalo e fui dimesso. La diagnosi fu di colite spastica, dovuta al cibo e allo stress nervoso che tenevo dentro.

    Era ancora il mio inconscio che voleva emergere.

    Alla fine presi il diploma di maturità con 48.

    In quell’anno frequentavo sempre le discoteche, con gli amici della scuola o della chiesa. Continuavo a fumare le sigarette e iniziai anche con le canne.

    Il mio spirito iniziò a risentirne, finché a un certo punto abbandonai la Chiesa.

    A settembre del 2000 fui assunto in un concessionario di auto nel settore post-vendita, dove lavoro tutt’oggi.

    Iniziai in una piccola sede, che poi nel 2012 fu accorpata alla sede principale.

    Dal 2016 sono responsabile della carrozzeria.

    La mia vita fu molto sregolata fino al 20 marzo 2004, quando conobbi Deborah, che sposai il 30 settembre 2006.

    Il nostro matrimonio è stato fantastico; all’inizio avevamo deciso di comune accordo di non avere figli, e così abbiamo potuto girare il mondo.

    Qualche tempo dopo, decidemmo di provare ad avere un figlio, ma non avemmo successo.

    Andò tutto bene fino alla prima crisi, agli inizi del 2016; grazie a Dio, è rientrata dopo pochi mesi e dal luglio dello stesso anno iniziammo la ricerca di una casa più grande nello stesso complesso dove abitavamo. A settembre finalmente trovammo un’occasione: si trovava a qualche scala di distanza da quella vecchia, ma era proprio la casa che volevamo, o meglio l’avremmo fatta diventare come la volevamo.

    Il 29 settembre facemmo il compromesso; l’atto sarebbe avvenuto un anno e mezzo dopo, a marzo/aprile 2018, ma dopotutto non avevamo alcuna fretta, dato che dovevamo ancora mettere in vendita la nostra.

    Durante il viaggio in Tanzania e Seychelles, per i nostri dieci anni di matrimonio, concepimmo la nostra stella, quando ormai non ci pensavamo più.

    L’acquisto della nuova casa più grande sembrava fatto apposta!

    Gaia nacque il 17 luglio 2017 alle 17:53!!

    Purtroppo però, nel settembre 2017, arrivò la seconda e più grande crisi.

    Proprio nel bel mezzo della crisi sono stato sottoposto a una biopsia renale, dalla quale mi è stato diagnosticato il Lupus eritematoso sistemico. Un’altra malattia psicosomatica.

    Non c’era niente da fare: il mio corpo non era d’accordo con la mia scelta di vita.

    Come si suol dire, i mali non vengono mai da soli!

    Alla fine superammo anche questa seconda crisi, seppur molto duramente: grazie a Dio e a due uomini che Lui mise sul mio cammino.

    Così il 26 marzo 2018 facemmo l’atto di vendita della nostra casa e il giorno dopo quello di acquisto della nuova.

    Il 7 febbraio del 2019 mio padre è andato con il Signore e quasi diciannove mesi dopo, il 1° settembre 2020, la mia mamma lo ha raggiunto.

    Oggi ho una bellissima famiglia e moltissimi amici, ma, come vale per tutti noi, sono pochi quelli che posso definire veri.

    In seguito a questa breve descrizione, la mia vita può sembrare normale a tutti gli effetti, ma, come vi avevo già anticipato, qui ho messo in risalto prevalentemente la facciata esterna di quel palazzo che è la mia vita, non vi ho parlato molto del suo interno, cosa che farò nei capitoli successivi.

    Anche perché posso assicurarvi che, almeno inizialmente, per noi abusati la cosiddetta vita normale viene realmente vissuta così negli anni in cui subiamo gli abusi, sebbene può capitare che, inconsciamente, mandiamo dei segnali.

    Diventati adolescenti e poi adulti, avendo adottato dei meccanismi di difesa per poter sopravvivere, continuiamo a vivere una vita normale, devastata però sia a livello sociale, che psicologico e comportamentale da ciò che abbiamo subìto, ma mai associandolo razionalmente a esso.

    Solamente a trentotto anni, una volta che ho iniziato a realizzare ciò che ho subìto, a parlarne e poi a elaborarlo, posso dire con certezza che una vita così normale come quella descritta non l’ho vissuta affatto, e tutti i miei comportamenti a livello sociale, psicologico e comportamentale erano da attribuire alla mia triste infanzia, come vi esporrò nei prossimi capitoli.

    Quindi penso possiate capirmi quando dico che non è facile scrivere un libro del genere, perché finora nessun altro, a parte la mia famiglia e pochissime persone, era a conoscenza del mio segreto; però da oggi non lo sarà più, anche se in forma anonima, dato che sto per raccontarlo al mondo intero.

    Da domani chiunque leggerà questo libro, sia chi mi avrà riconosciuto sia chi non l’avrà fatto, non so con quali occhi mi vedrà, come vedrà il protagonista di questa storia.

    La mia speranza è che non mi guardino con commiserazione, tristezza, pena – che sono comunque sentimenti legittimi –, perché quello che io voglio trasmettere è forza, speranza, dignità e onore.

    Sono i sentimenti che dobbiamo avere tutti noi che abbiamo subìto abusi, perché non ce la siamo cercata, non l’abbiamo voluto; purtroppo ci è capitato, ma con questi atteggiamenti positivi abbiamo la possibilità di riabilitarci.

    Alcune cose che ho scritto in questa presentazione potrebbero sembrarvi dei dettagli trascurabili, ma vi assicuro che capirete più avanti che non lo sono, anzi!

    DAI MIEI SCRITTI

    12 ottobre 2017. Personale.

    Girolamo mi ha chiesto di scrivere chi sono e cosa so fare. Non è un compito facile, perché quando chiunque parla di sé, quando si chiede chi è, di solito entra in crisi.

    Almeno, così è per me. Di solito penso poco a chi sono realmente. In questo periodo, però, in proporzione a tutta la mia vita, mi è capitato spesso di pensare a me e a chi sono realmente.

    Beh, chi sono?

    Io sono Marco Adelbrandi, un trentanovenne sposato con Deborah e padre di una figlia stupenda, Gaia.

    Nel mio intimo, però, chi sono?

    Sono un ragazzo la cui vita è stata condizionata da un orco e da un sistema di omertà e di complicità occulta.

    Sono un ragazzo che da bambino ha bruciato delle tappe fondamentali per la sua crescita e la sua maturazione.

    Sono un ragazzo al quale è stato prospettato e imposto il sesso non come una cosa divina, frutto dell’amore come concepito da Dio, ma come atto egoistico di gratificazione personale.

    Sono un ragazzo che è stato costretto, dall’incontro con l’assurdo, a congelare l’innocenza e le emozioni per evitare di impazzire.

    Sono un ragazzo che ha messo su talmente tanti meccanismi di difesa da far invidia persino alla NATO.

    L’abuso mi ha fatto diventare un elettrocardiogramma piatto.

    Questo è ciò che ho preso coscienza di essere da quando ho iniziato il mio percorso.

    Durante questo percorso, però, ho finalmente iniziato a elaborare ogni cosa. Prendere coscienza dei fatti aiuta, mentre negarle come ho fatto per tanti anni ti distrugge.

    L’elettrocardiogramma, alla fine, non era poi così piatto: c’era ancora un flebile battito nel mio cuore.

    Il primo passo verso la guarigione è l’ammissione; ammettere quanto è successo una vita fa ha avuto una grande conseguenza in questa vita. Non bisogna pensare che non ci sia alcuna connessione, che si tratta di periodi fatti come a compartimenti stagni, perché le cose che subiamo, soprattutto quando siamo nell’età della formazione, ci condizionano per il resto della nostra vita.

    Ieri sera parlavo con Raffaele e gli ho detto che, secondo me, l’abuso sui bambini è la cosa più brutta che possa esistere.

    I comandamenti parlano di non rubare, non uccidere; cose brutte, è verissimo, però penso che l’abuso sia persino peggio dell’omicidio.

    L’omicidio ti rende Dio, ti fa decidere se una persona ha diritto a vivere o a morire; quindi è una cosa sbagliatissima, orrenda.

    L’abuso, però, non è solo un atto di per sé terrificante; esso, infatti ti porta a soddisfare le tue pulsioni, i tuoi peggiori istinti, con un essere inerme, qualcuno che si fiderebbe di tutto e tutti. L’abuso, dunque, racchiude tanti comportamenti negativi: depravazione, egoismo, mancanza di rispetto, soggiogamento, falsità, tradimento, prevaricazione; tutti i sentimenti più abbietti che esistono.

    Ma anche togliendo tutto questo, alla fine si arriva comunque all’omicidio.

    L’abuso, infatti, uccide l’innocenza, i sogni di un bambino, e crea un automa che, se va bene, rimuove le malvagità come ho fatto io, cioè si autolesiona e così sfoga le sue pulsioni; se va male, però, può diventare alcoolizzato o tossicodipendente, oppure si uccide o diventa un nuovo abusatore.

    Quindi, mentre nell’omicidio la tua vita finisce in quell’istante, le vittime di abuso devono continuare a vivere pagando per quell’atto insano.

    Questo è il giudizio che dà Gesù degli abusatori, come è scritto nei Vangeli:

    Ma chi avrà scandalizzato uno di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse legata una macina di asino al collo e che fosse sommerso nel fondo del mare!.

    Parole dure, durissime, pronunciate dal simbolo dell’amore per eccellenza. Allora perché a me, a noi, negano il diritto di esserlo?

    Ma adesso basta!

    Dopo questa parentesi di sfogo, torno a parlare di chi sono io.

    Come dicevo, io sono in una fase di elaborazione. Sono un ragazzo vittima di un mostro e di un sistema di omertà. Io sono una vittima, e non un complice!

    Non ho nemmeno lo 0,0000000000000000001% di colpa!

    Sono un ragazzo buono perché, nonostante ciò che dicano o abbiano fatto a quel bambino, lui era buono!

    E quel bambino mi sta per rincontrare.

    Sono un ragazzo che ha avuto dei problemi, i quali sono durati anche per una bella fetta della sua esistenza adulta; però, adesso che è adulto, si è rotto il cazzo e quei problemi li affronta e li risolve!

    Sono un ragazzo stupendo perché sono stato fatto in modo stupendo, le tue opere sono meravigliose e io lo so molto bene.

    Sono un ragazzo che ha chiuso a chiave la porta dell’abuso e ha mandato via l’orco dalla sua vita, e con lui tutta l’ambiguità e la perversione che gli aveva trasmesso.

    Sono un ragazzo che ama sua moglie e la rispetta, che, nonostante la sua idea sbagliata della sessualità e i suoi errati approcci, non ha mai fatto sesso con lei in maniera egoistica (anche se può aver dato quell’impressione), ma ha sempre e solo fatto l’amore.

    Sono un ragazzo che dovrà imparare da sua moglie l’approccio giusto per farla sentire desiderata e amata quando faremo l’amore: da lei, dalla sua innocenza, dal suo modo di essere spontaneo e unico.

    Sono un ragazzo padre di un fiore, che ama e proteggerà a costo della sua stessa vita.

    Sono un ragazzo guerriero che combatte e combatterà per ricongiungersi con quel bambino perduto e riconquistare la sua vita, così insieme a sua moglie potrà prendersi cura di Gaia.

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