Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Io sono Egoismo
Io sono Egoismo
Io sono Egoismo
E-book322 pagine4 ore

Io sono Egoismo

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Aaron non è un adolescente qualsiasi. Nella tranquilla Bolzano, si dibatte tra i turbamenti tipici della sua età e un potere straordinario, ereditato da suo padre. Sulla schiena, infatti, ha il marchio del Concetto di Egoismo, che gli dona abilità tanto potenti quanto pericolose. Aggirandosi per i vicoli della città, scopre l’esistenza di una congrega di Scrictatum, individui che, come lui, incarnano concetti viventi. Ma quando la più giovane dei nuovi amici viene “cancellata” e rischia di essere spogliata del suo potere, Aaron sfida tutte le regole del mondo che lo ha accolto pur di salvarla. Insieme a un gruppo di coetani, anche loro Scrictatum, organizza un'audace missione, convinto di poter restituire alla bambina la sua natura perduta. 
In una corsa contro il tempo, tra libri, creature millenarie, presenze nascoste nell’ombra e il continuo conflitto tra Egoismo e Sacrificio riuscirà, Aaron, a impedire che la bambina finisca per dimenticare la sua natura e il loro straordinario mondo? 
Io sono Egoismo è una storia di coraggio e scoperta, di destino e poteri ancestrali, di sfide e crescita, che terrà il lettore incollato fino all'ultima pagina.
 
LinguaItaliano
Data di uscita25 apr 2024
ISBN9791280100993
Io sono Egoismo

Correlato a Io sono Egoismo

Titoli di questa serie (1)

Visualizza altri

Ebook correlati

Fantasy e magia per bambini per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Io sono Egoismo

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Io sono Egoismo - Ciro Saetti

    Il libro

    Aaron non è un adolescente qualsiasi. Nella tranquilla Bolzano, si dibatte tra i turbamenti tipici della sua età e un potere straordinario, ereditato da suo padre. Sulla schiena, infatti, ha il marchio del Concetto di Egoismo, che gli dona abilità tanto potenti quanto pericolose. Aggirandosi per i vicoli della città, scopre l’esistenza di una congrega di Scrictatum, individui che, come lui, incarnano concetti viventi. Ma quando la più giovane dei nuovi amici viene cancellata e rischia di essere spogliata del suo potere, Aaron sfida tutte le regole del mondo che lo ha accolto pur di salvarla. Insieme a un gruppo di coetani, anche loro Scrictatum, organizza un’audace missione, convinto di poter restituire alla bambina la sua natura perduta.

    In una corsa contro il tempo, tra libri, creature millenarie, presenze nascoste nell’ombra e il continuo conflitto tra Egoismo e Sacrificio riuscirà, Aaron, a impedire che la bambina finisca per dimenticare la sua natura e il loro straordinario mondo?

    Io sono Egoismo è una storia di coraggio e scoperta, di destino e poteri ancestrali, di sfide e crescita, che terrà il lettore incollato fino all’ultima pagina.

    L’autore

    Nato a Bolzano nel 1973, è diventato un artista professionista dopo aver studiato presso l’Accademia di Belle Arti A. Carrara di Bergamo. Ha esposto in Italia, Europa (Germania, Grecia, Lussemburgo, Austria, Spagna) e a Tokyo. È curatore dell’Associazione degli Artisti di Bolzano dove insegna arte e ne gestisce la galleria. Oltre al lavoro artistico svolge, per passione, l’attività di animatore presso scuole e strutture giovanili della sua città.

    AltriMondi

    Ciro Saetti

    Io sono Egoismo

    Proprietà letteraria riservata

    ©2024 AltreVoci Edizioni srls

    Prima edizione digitale: maggio 2024

    ISBN: 9791280100993

    Copertina realizzata da Andrea Falsetti

    Elaborazione da immagine Adobe Stock

    I fatti e i personaggi riportati in questo romanzo sono frutto della fantasia dell’autore. Pertanto ogni somiglianza a persone reali e ogni riferimento a fatti accaduti sono da ritenersi puramente casuali.

    Questo libro è dedicato alla memoria di Gianparide Bigoloni e di Carmen Forlenza

    Da bambini si sogna la Magia, da adolescenti si sogna d’essere maghi, da adulti si realizzano i propri sogni e quelli fantastici perdono la loro magia.

    PROLOGO

    Abrasax entrò nella piccola costruzione in pietra senza bussare. L’interno era fresco e buio, rischiarato a tratti dalla luce che proveniva da una piccola apertura sul muro. Ad attenderlo c’era una giovane donna, dalla carnagione olivastra e dai capelli corvini, seduta su di una vecchia sedia a dondolo. Nel silenzio della stanza stringeva fra le braccia un neonato. Madre e figlio erano completamente nudi uniti dal cordone ombelicale che nessuno aveva reciso.

    «Ben arrivato, vecchio amico», sussurrò la ragazza sollevando gli occhi sul nuovo venuto.

    «Madre del Bambino senza Nome, è bello rivederti.»

    La giovane donna sorrise. Senza aggiungere altre parole si alzò dalla sedia e, dando le spalle ad Abrasax, si diresse verso una spessa tenda rossa, l’unico punto di colore di un’abitazione spoglia, priva di ornamenti e suppellettili. Abrasax la seguì, rispettando la solennità del silenzio. Camminarono lungo un cunicolo scavato nella roccia, dalle pareti umide e fresche. Entrambi lo percorsero a passi leggeri fino a raggiungere una grotta. Una fenditura nel soffitto permetteva alla luce del sole di illuminare l’intero anfratto, al cui centro sedeva un uomo, immobile nella posizione del loto. Ovunque si posasse lo sguardo, c’era un fine strato di polvere a ricoprirlo.

    «Presto, questo finirà», disse la donna voltandosi verso Abrasax. «Il mio cammino in questo mondo sta per giungere al termine. Dovrete vegliare su Tefik della Lancia. Lui tornerà e deciderà cosa sarà di tutti voi.»

    1

    Ereditai la Parola da mio padre, ricordo perfettamente come accadde, momento per momento. Mio padre, però, non morì quel giorno. Lo uccisi qualche mese più tardi.

    Era l’estate del mio quattordicesimo compleanno, l’ultima vacanza prima dell’inizio delle superiori, un traguardo a cui tenevo molto, perché avrei smesso di essere un ragazzino delle medie e sarei entrato nel mondo dei grandi. Ero stato indeciso sino all’ultimo, e alla fine mi ero iscritto al liceo scientifico Torricelli di Bolzano, una soluzione di ripiego. Lo scelsi perché pensavo che, non essendo bravo a giocare a calcio, era meglio buttarmi su un’altra strada, ad esempio veterinaria, e lì, di aspiranti veterinari come me ce ne erano a bizzeffe. L’idea di studiare matematica, fisica e biologia mi appassionava più di ogni altra cosa, anche se, come sosteneva una delle professoresse che mi aveva visto crescere negli anni difficili della pubertà e dell’inizio dell’adolescenza, secondo lei, un giorno, sarei diventato un artista, e probabilmente mi sarei iscritto all’Accademia delle Belle Arti. Avrei dovuto crederle: da adulto ho imparato che nella vita si fanno incontri speciali in grado di indirizzarci verso la strada giusta, ma quando si è giovani, sognatori e idealisti, non si riesce a vedere tanto lontano; soprattutto perché, dentro la mia testa, rimbombava la voce di un padre che non credeva assolutamente in me, per il quale ogni cosa che dicevo o che facevo era sempre sbagliata. In quel periodo della mia vita il mio bivio aveva solo due strade: arrendermi e chinare il capo, oppure combattere. E io scelsi la seconda.

    In ogni caso, dovrei smetterla di perdere tempo e voler ordinare le parole. Da ragazzo, come dicevo, ne ereditai una, di Parola, mentre adesso sono simile a un libro. Non sono l’unico Scrictatum, ne nascono ogni giorno di nuovi. Ce ne sono di buoni e di malvagi, e poi ci sono quelli come me, colpevoli di voler cambiare il mondo.

    Una cosa che la gente comune, i Normali, proprio non capisce, è che le Parole hanno vita propria, sono loro a decidere in quale sequenza posarsi sulla carta. Sono libere: libere in un senso assoluto.

    Non si impongono mai, si mostrano solamente.

    Mio padre si chiamava Fabio ed era un saccente insegnante in pensione. Ai miei occhi di figlio ribelle era una persona di per sé insignificante, con capelli corti e grigi, la pelle abbronzata per l’attività all’aperto ma gli occhi infossati per tutto il tempo, invece, che trascorreva al chiuso, sopra i suoi amati libri. Oh certo, aveva anche dei lati positivi, ma non di quelli che sono chiari agli adolescenti. Con parenti e amici interpretava il ruolo di genitore amabile e marito devoto; in famiglia era il classico padre-padrone, come tutti i padri dei miei amici, ma forse un po’ peggio.

    Quel giorno, quando mio padre entrò in casa, ero sdraiato sul letto con un anime fra le mani. Nicola, un ragazzo con cui avevo frequentato le elementari, il mio unico amico, era dovuto andare dal dentista e, senza di lui, non sapevo come passare il tempo. Mio padre, dopo essersi tolto le scarpe e aver infilato un paio di ciabatte in similpelle, era apparso sull’uscio della mia stanza.

    «Che vuoi?», lo aggredii prima che fosse lui a farlo.

    Mi regalò una delle sue solite smorfie di delusione. «Giuro sul Dio Creatore che domani getto tutti quegli insulsi giornalini, se non ti metti subito a studiare!»

    Anche se non ero più un bambino, continuavo ad aver paura dei suoi repentini cambi di umore e dello sguardo cupo che mi riservava. Non che mi avesse mai veramente picchiato, al massimo mi ero beccato qualche ceffone, anche meritato; eppure, bastava la sua presenza per mettermi soggezione.

    «Ti rendi conto che tra poche settimane inizi le scuole superiori? No, per me non hai capito che adesso le cose si fanno serie.»

    Lo ignorai e continuai a leggere, lui sbatté con forza la mano aperta contro la porta, così forte da farmi saltare sul letto.

    «Guardami in faccia quando ti parlo!»

    Mi misi a sedere come un soldatino, fermo e rigido. Non lo guardai negli occhi, ma fissai un punto poco sopra la sua spalla sinistra e serrai le dita sul fumetto, piegandone le pagine per la rabbia di non riuscire a ribellarmi.

    «Ora prendi il libro di tedesco e leggi: la tua pronuncia è talmente pessima che nessuno riesce a capirti.»

    «Ma…»

    «Se quest’anno mi porti una pagella come quella di fine medie, passi l’estate a casa, e non me ne frega niente di quello che dirà tua madre.»

    L’esame delle medie non era andato male. Certo, non ero stato il migliore della classe, ma neppure il peggiore. Avevo difficoltà con la pronuncia, era un dato di fatto, non era colpa mia. Il mio più grande scoglio era pensare in inglese o in tedesco, non ne ero capace: mi limitavo a tradurre parola per parola, come un principiante.

    Controvoglia mi allungai verso la scrivania e presi in mano la vecchia antologia di tedesco dalla copertina sgualcita, quella che un tempo mio padre aveva usato per dare ripetizioni ai suoi studenti, e iniziai a leggere a mezza voce.

    «Più forte! Non ti … Pronto?». Alzai il tono pensando che si stesse riferendo a me, invece, con la coda dell’occhio, lo vidi portarsi il cellulare all’orecchio.

    «Otto?», lo sentii dire mentre si allontanava dalla camera come un fulmine.

    Appena fu sufficientemente lontano gettai il libro sul letto e raggiunsi la porta della stanza. Anche se Fabio aveva tolto di mezzo tutte le chiavi, dopo che a nove anni mi ero chiuso in camera per sfuggire alle sue minacce, il semplice gesto di sbattere la porta e chiuderlo fuori dal mio mondo mi procurò una grande soddisfazione.

    «Il Vangelo del Bambino Senza Nome non parla solo di quella stupida lancia! Portami il testo originale e ti dimostrerò che ho ragione! Ci sono diversi passaggi sulle Parole che si sono perse, e un’intera parte che spiega cosa sono le Pagine Bianche.»

    Rimasi con l’orecchio appiccicato alla porta, incuriosito da quello che stava dicendo. Raramente alzava la voce con altre persone e, soprattutto, non lo faceva al telefono.

    «Non sai dire altro? No! Non so dove sia la lancia!»

    Fece una pausa e trattenni il respiro per capire se avesse chiuso la chiamata e stesse tornando da me. Subito dopo lo sentii dire: «Ti ho già detto che è una Pagina Bianca e che quel rituale funzionerà, siamo consanguinei! Se non ci credi, lo vedrai presto!»

    Un colpo di vento fece sbattere la porta del bagno, a pochi passi dalla mia camera. Sfrecciai di nuovo sul letto e aprii il libro di tedesco, col cuore che mi batteva in gola.

    «Ora ti saluto, ne parliamo più tardi.»

    Immaginai che mio padre sarebbe tornato a controllare se stavo studiando, ma non arrivò. Dopo un quarto d’ora di finta lettura, infilai tra le pagine dell’antologia il mio anime, senza curarmi più di lui. Emerse dalla cantina poco prima di cena. Vi aveva trascorso l’intero pomeriggio, come succedeva sempre più spesso, negli ultimi giorni. Non sapevo cosa facesse e non mi interessava. A me, per stare bene, bastava non averlo intorno.

    «La cena è in tavola», ci chiamò Ines, mia madre.

    L’avevo sempre chiamata col suo nome di battesimo, e la stessa facevo con mio padre, Fabio. Raramente mi ero riferito a loro con i termini mamma o papà, non per mancanza d’affetto nei loro confronti, ma perché, inconsapevolmente, credo di aver sempre saputo quanto un Nome fosse importante.

    «Sì, sì», risposi dal divano senza alzare gli occhi dal cellulare.

    Due giorni prima avevo scaricato una nuova app.

    «Metti via il cellulare e subito a tavola», ordinò Fabio lanciandomi uno sguardo particolarmente minaccioso.

    Spensi il telefonino: anche se non avevo finito la missione giornaliera, non avevo voglia di discutere. Quando presi posto difronte a lui, si era già servito una grossa fetta di lasagne e aveva iniziato a mangiare.

    «Com’è andata la giornata?», chiese Ines, che era stata a casa di amiche ed era di buon umore rispetto al solito.

    Nessuno le rispose. Mio padre mi stava fissando. Entrambi avevamo notato che nella teglia era rimasta un’ultima fetta di pasticcio. Per un attimo pensai al film western Sfida all’Ok Corral che mi costringeva a guardare almeno una volta all’anno. Sembravamo Doc Holliday e uno dei fratelli Earp pronti a darsi battaglia.

    «Voglio lo scooter», dissi con un tono di pretesa.

    Improvvisamente soddisfare quel desiderio era la cosa più importante. Ne avevamo già parlato: i miei genitori non erano d’accordo, dicevano che per andare a scuola avrei dovuto accontentarmi della bicicletta.

    «Aaron …», disse con dolcezza mia madre.

    Ero sicuro che avesse cercato di convincere papà, perorando la mia causa quando non ero presente.

    «Non se ne parla», rispose lui, unendo le mani davanti alla bocca, nella sua posa tipica.

    «Ma tutti i miei amici lo hanno!»

    «Chi?», chiese.

    Mi ero accorto che dietro le mani stava nascondendo un sorrisetto.

    Io abboccai subito alla sua esca: «Nicola», risposi prontamente, accorgendomi poi di non aver altri nomi da aggiungere. «I miei compagni di classe.»

    «Tu devi pensare solo a studiare. Portami un otto in tedesco.»

    «La vita non è solo stare sui libri», risposi battendo i pugni sul tavolo.

    Ero certo che, mai e poi mai, sarei riuscito a prendere un voto così alto in tedesco. Era inutile che insistesse perché raccogliessi la sua eredità di insegnante di lingue antiche.

    «Ora vai in camera tua e pensa a come ti sei comportato, perché non è accettabile una simile mancanza di rispetto!»

    Quando mi alzai da tavola ero talmente arrabbiato che corsi in camera trattenendo a stento le lacrime. Con la coda dell’occhio mi accorsi che Fabio stava sogghignando, mentre si serviva soddisfatto l’ultima fetta di lasagne.

    Mi sto annoiando, pensai.

    Avevo trascorso la giornata al Lido con Nicola, l’unica persona con cui, in quel periodo, non mi sentivo a disagio. Il Lido, per ogni giovane bolzanino, era il miglior rifugio alla calura estiva, con le sue grandi piscine, i prati alberati e i campi da beach volley. Io non ci andavo per nuotare, ma per guardare le ragazze in costume. Sdraiati di pancia sui nostri asciugamani, io e Nicola studiavamo i loro corpi e le reazioni che ci risvegliavano. Ho sempre amato i colori che l’estate dona alla pelle delle ragazze, soprattutto in quei punti solo sfiorati dal sole.

    «Aaron, chiudi quel libro, spegni la televisione e vieni giù in cantina con me.»

    Fosse stato un giorno diverso, o il libro che leggevo più interessante, avrei imprecato, e di brutto. Invece, dato che si trattava di mio padre, mi morsi la lingua e ricacciai indietro le male parole. Era impossibile andare d’accordo con lui.

    «Che c’è?», chiesi con il mio solito tono ostile, quello che mia madre definiva da adolescente arrabbiato.

    Senza rispondere alla mia aperta provocazione, Fabio uscì di casa, lasciando la porta aperta.

    Mi fermai all’ingresso del salotto; guardai distrattamente il telegiornale alla TV, e lessi le didascalie che scorrevano sotto le immagini di un intervento della polizia.

    PADRE ORCO VIOLENTA LA FIGLIA. ARRESTATO A VERONA.

    «ARRESTATO ALL’ALBA UN QUARANTENNE VERONESE, SECONDO L’ACCUSA AVREBBE ABUSATO PER ANNI DELLA FIGLIA.»

    Interruppi le parole del telecronista pigiando il tasto off del telecomando. Era bello poter cancellare con un click il lato malvagio e oscuro della vita. Quindi, seguii le orme di Fabio. Aveva appena fatto scattare la serratura del lucchetto e acceso la luce del locale interrato.

    La nostra cantina non era niente di speciale. Grande, dicevano i miei genitori, per una casa in città; un ammasso di cose vecchie e inutili ai miei occhi.

    «Non stare lì impalato come un idiota, aiutami», disse iniziando a spostare l’ingombrante televisore a tubo catodico e gli altri oggetti ammucchiati sul vecchio tavolo al centro della stanza, quello che, fino all’anno precedente, si trovava nella cucina del piano di sopra.

    Quando ero piccolo mi nascondevo lì sotto per guardare la televisione. Era un rifugio dal quale non vedevo i miei genitori, ne sentivo solo le voci, sia quando litigavano sia quando mia madre ci chiedeva cosa avrebbe dovuto preparare per cena. Sì, il cibo, la preparazione dei pasti, era il pensiero principale di Ines, una donna delusa dal matrimonio e dalla poca riconoscenza del figlio, che divideva la propria vita fra l’ospedale, dove lavorava come infermiera, e la casa.

    «Spogliati.»

    Rimasi immobile.

    «Che?»

    «Ti ho detto spogliati.»

    Ero un quattordicenne con una fervida immaginazione. Amavo leggere romanzi fantasy, oppure di fantascienza e un po’ tutto quello che mi capitava a tiro. Sfogliavo anche il giornale e, come ogni adolescente, ero morbosamente attratto dai casi di cronaca. Quando leggevo di violenze di gruppo, stupri e omicidi, immaginavo di essere l’eroe che interveniva per salvare il mal capitato di turno, magari una bella ragazza a cui rubare il cuore col mio coraggio. Magari una come Arianna, la mia compagna di scuola, che nutriva inconsapevolmente tutte le mie fantasie. Ai miei occhi era una dea col viso rotondo e lentigginoso, gli occhi scuri e una terza abbondante.

    «Mi hai sentito?», ripeté mio padre in modo brusco.

    Ero immobile, stranito da quella richiesta, spaventato dal suo tono perentorio. Provai a voltarmi, ma lui mi colpì la testa con una manata, abbastanza forte da farmi sentire dolore. Ricacciai nella gola un ma che cazzo fai?, perché sapevo che la mia voce sarebbe stata solo un sibilo. Le mie mani iniziarono a muoversi da sole. Sfilai la maglia dai jeans e me la tolsi con un unico gesto. Nella stanza era caldo, eppure mi sentii gelare ripensando al titolo che avevo visto scorrere in televisione.

    «Togli tutto, sbrigati!», gridò col tono che aveva un’incrinatura d’urgenza inappellabile. Cominciai a piangere, piano piano, mentre uscivo dai jeans. Riflesso nel vetro della vecchia televisione a tubo catodico vidi il contorno sfocato del mio corpo nudo. Ero così magro, così bambino. Anche se mi atteggiavo da adulto, avevo solo quattordici anni e in quel momento li sentivo tutti. Perché mio padre mi voleva nudo nella nostra cantina? Provai una rabbia sconfinata e anche puro terrore, tanto da non riuscire a reagire. Cazzo, era Fabio! In quale dei miei incubi mio padre poteva fare del male a me, suo figlio?

    Poi percepii il peso delle sue mani sulle mie spalle e la pressione con cui mi spinse sul tavolo. Battei le anche sul legno e mi piegai in avanti. Le sue mani ruvide bruciavano come piastre arroventate mentre mi accarezzavano la schiena, sembrava che mi stessero contando le vertebre.

    Pezzo di merda, lasciami stare! Facevi così anche con i tuoi alunni, te li inculavi dietro ai banchi di scuola? Avrei voluto urlare, ma quei pensieri disperati non arrivarono alla bocca, rimasero impigliati fra le labbra come pesci intrappolati in una rete dalle maglie strette. Non chiusi nemmeno gli occhi. Quando le sue dita arrivarono all’attaccatura dei glutei, si fermarono.

    «Hai una bella abbronzatura», disse.

    Fu spiazzante e disgustoso. Anche io pensavo la stessa cosa delle ragazze in costume al Lido, ma che fosse lui a dirlo, mi fece rabbrividire. Per fuggire al terrore serrai gli occhi, li strizzai, e poi li riaprii, lasciando correre lo sguardo fra i giochi di polvere e luce. Poi, all’improvviso, sentii un liquido caldo scivolarmi sulla schiena. Non ebbi il coraggio di urlargli cosa cazzo stesse facendo. Tuttavia non stavo provando nessun tipo di dolore fisico. Avevo la faccia schiacciata sul tavolo, ma potevo muovermi. Puntai gli occhi sulla pelle glabra del mio fianco. Nella fioca luce dello scantinato riconobbi rivoli di sangue color rubino che scorrevano lucidi come olio.

    Tornai a guardare lo schermo spento del televisore, piangendo, ma le immagini riflesse mi fecero intuire ben poco di quanto stava succedendo alle mie spalle. C’era solo la sagoma distorta di un uomo con le braccia alzate e la sua voce che cantilenava parole incomprensibili.

    Non quantificai il tempo che scorreva ma, a un certo punto, mio padre sussurrò: «Mi spiace averti usato, ma volevo essere sicuro che funzionasse. Adesso te la devi cavare da solo, addio figlio mio.»

    Un brivido gelido mi corse lungo la schiena. Una strana immagine mi balenò davanti agli occhi, una sagoma dalle sembianze vagamente umane con due ali fatte di luce. Pensai subito che fosse un Angelo per via della mia educazione cristiana, non sapevo come potessi esserne consapevole, ma era così. Era bellissimo e allo stesso tempo spaventoso, e una parte di me era assolutamente certa che avesse un grandissimo potere. Solo che ero esausto e quella visione mi diede il colpo di grazia. La mia coscienza si spense con un click, come poco prima, in cucina, avevo fatto con le notizie del telegiornale. Chiusi gli occhi e svenni.

    Al risveglio le ultime parole pronunciate da mio padre erano lì ad aspettarmi, ancora presenti fra la polvere della cantina. Che ore erano? Quando eravamo scesi di sotto, ero appena tornato dal Lido, mentre adesso era il tramonto. Mi alzai lentamente, avvertii il dolore dei muscoli intorpiditi. Pensai subito a mia madre: conoscendola doveva essere impazzita non sapendo dove fossi finito.

    «Merda! Merda! Merda!», gridai, sperando di non essere coperto di sangue, dai capelli ai piedi.

    I miei occhi si abituarono alla semi oscurità. Mi abbracciai la schiena e raggiunsi la pelle tra le scapole e lungo la colonna vertebrale alla ricerca di ferite aperte, ma non sembrava insanguinata, solo sudata.

    «Merda», ripetei con voce bassa e desolata mentre accendevo la luce per aver conferma delle mie supposizioni. Non riuscivo a capire cosa fosse accaduto, dove fosse il confine fra reale e immaginario, ma una prova inconfutabile era il mio corpo nudo. Sicuramente qualcosa era successo. Una parte del mio cervello pensò: Mio padre ha abusato di me e per rimuovere l’accaduto ho creato un pensiero fittizio, uno strano rituale magico. L’ipotesi era così dolorosa che rimossi tutto, violenza e magia. Mi rivestii in fretta e salì le scale per tornare a casa.

    «Scusa il ritardo», dissi entrando in corridoio, preoccupato di veder sbucare Fabio dal salotto, ma con la speranza che ci fosse solo mia madre. «Mi lavo in un attimo e vengo subito!». Il mio strillo in falsetto si perse nel vuoto. Stavo diventando grande, ma la voce, ancora, faceva le bizze: c’erano giorni in cui era calda e profonda, altri nei quali gracchiavo come un bimbetto isterico. Logicamente questo accadeva quando ero agitato o quando parlavo con Arianna.

    Non ricevendo risposta, mi affacciai in cucina, aspettando di vedere la tavola imbandita, come sempre. Tovaglia, bicchieri, piatti e posate in bell’ordine, questo era il rituale di mia madre. Sorpreso, trovai ad aspettarmi un post-it su un piatto capovolto. Ines aveva lasciato lì anche il mio cellulare, giusto per farmi capire che voleva potermi rintracciare in qualsiasi momento. Di lei neanche l’ombra.

    Di bene in meglio, pensai. E mio padre? Dov’era finito?

    Per un attimo, sperai che non fosse successo qualcosa di terribile e fu come se un macigno pesantissimo mi fosse piombato sullo stomaco. Tutti i miei amici erano convinti di essere grandi abbastanza da poter vivere senza genitori e fare a modo loro. Qualcuno arrivava a dire: quanto sarebbe bello se i miei genitori sparissero, e anch’io l’avevo pensato più volte. Provarlo, però, era tutta un’altra cosa e non potevo dire che mi piacesse come avevo immaginato. Le parole scritte da mia madre, per

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1