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La Rabdomante
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E-book781 pagine11 ore

La Rabdomante

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Info su questo ebook

Asia ha diciannove anni e vive nell’ambita e caotica meta turistica del sud Salento, Gallipoli. È una ragazza molto timida, ama la lettura e ha un sogno: aprire una libreria. Il suo obiettivo inizia a realizzarsi lentamente grazie ad una fortunata serie di eventi, tra cui l’inaspettata acquisizione di un’antica biblioteca in rovina nel centro storico della città. Ma quando la protagonista entra nella vecchia proprietà si imbatte in una Sorgente, un fascio di luce ultraterreno, e sviene quando la tocca inavvertitamente. Al suo risveglio scopre di essere diventata una Rabdomante, un essere sovrannaturale, e che sul pianeta esiste un’altra faccia della medaglia sconosciuta agli umani. Da quel momento in poi la vita di Asia e la sua fragile personalità verranno messe a dura prova dalla crudele società dei Rabdomanti, il Mondo Celato, che la schiaccerà seguendo la sanguinosa filosofia di una sola domanda: “Quanto sei capace di piegarti prima di spezzarti?”.
LinguaItaliano
Data di uscita17 giu 2016
ISBN9786050459463
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    Anteprima del libro

    La Rabdomante - Valerio D'Elia

    cose.

    Parte 1

    Fil si accasciò nauseato sulla sabbia e volse gli occhi al cielo limpido.

    Non riusciva a credere di essere sopravvissuto a quell’inferno.

    Sospirò sollevato, si guardò la mano rannicchiata tempestata di granelli…

    e vide una Pietra Miliare affiorare tra le dune.

    «Jane…» chiamò, gattonando preoccupato verso il ciottolo mistico. «Credo che qualcuno sia nei guai».

    Prologo

    Hai presente quando ti ritrovi nel posto sbagliato al momento… beh, diciamo che alcuni luoghi dovrebbero rimanere segreti per sempre. Sei una persona normalissima, fin quando un giorno qualcosa di assurdo non sconvolge la tua vita. Un qualcosa di irreversibile che esige rapidamente un cambiamento, o finirà per ucciderti entro pochi giorni. Letteralmente.

    Sono una Rabdomante. No, non nel senso classico del termine. Non cerco fonti d’acqua con i bastoni.

    Un Rabdomante è, o meglio era, un essere umano che, per qualche motivo, un giorno tenta una scorciatoia mai attraversata per tornare prima a casa; o forse uno studente che infrange le regole per il puro gusto di farlo ed entra nello sgabuzzino in disuso dei bidelli; o forse un bambino che, inseguendo la palla calciata troppo forte, finisce in un vicolo abbandonato. Un Rabdomante è una creatura che ha incontrato casualmente una Fonte, un fascio di luce fluttuante dai colori cangianti, solitamente ben nascosto, e che ha avuto la forza fisica e mentale necessaria per sopravviverci. Chiunque tocchi una Sorgente riceve un potere dalla mole variabile a seconda dell’età e rarità della Fonte, con tutto ciò che ne deriva. Spesso i giovani Rabdomanti sono costretti a lasciare le proprie amicizie, amori e famiglie prima che un’entità malvagia, un parassita presente nella Sorgente detto Seme del Caos, prenda il sopravvento e li guidi a compiere atti indicibili in preda alla follia.

    Non è possibile tornare umani, o almeno non ne abbiamo testimonianze. I Rabdomanti devono vivere come l’ombra di quel che erano e necessariamente soffrire per rimanere lucidi. Un uomo una volta mi disse Finché ogni notte verserai lacrime nel tuo letto e rimpiangerai i giorni passati da umana, saprai di non aver perso la ragione e di non essere vittima di Caos. Quando sarai abituata alla nuova vita e i mortali ti sembreranno insignificanti, e ciò accade così velocemente che è difficile accorgersene, allora preoccupati e ritrova te stessa, perché il confine tra ragione e follia diverrà così sottile da rendere giustificabile ogni tua azione nefasta. E in quel momento io, così come tutti gli abitanti del Mondo Celato, verremo ad ucciderti.

    Mi chiedi cosa succede quando un Rabdomante viene totalmente corrotto dal Caos? Ecco, siediti qui e ascolta la mia storia fin dall’inizio. È una fortuna che mi trovassi nei paraggi e che ti abbia impedito di toccare quella Fonte. È bene che tu sappia a cosa vai incontro: io non ebbi questa possibilità.

    Ora che ci penso, ciò è solo un dovere formale. Quando avrò finito dovrai decidere se toccare la Sorgente e vivere secondo le nostre regole oppure fuggire. E se per caso volessi lasciar perdere spero che tu sia allenato nella corsa, poiché dovrò inseguirti e ucciderti. Gli umani non devono sapere dell’esistenza del Mondo Celato… almeno questo è quello che loro ti direbbero.

    Capitolo 1

    Due occhi speciali

    È da quando sono bambina che coltivo una passione sfrenata per la lettura. Mentre le mie amiche passavano il tempo a far finta di essere principesse o modelle sulla passerella, a giocare con le bambole, a provarsi ogni genere di vestito nei camerini dei negozi di abbigliamento o a truccarsi di nascosto con le trousse delle loro madri… beh, probabilmente io ero in casa a leggere sul letto. Ho divorato ogni genere di romanzo senza distinzione ed ero così immersa nel mio hobby da risultare asociale agli occhi altrui. Nulla da obiettare, in effetti un po’ lo ero. All’asilo mi si poteva trovare nel solito angolino a sfogliare libri di fiabe, isolata dal caos e dalle urla degli altri bambini; alle elementari immersa nei racconti di narrativa durante le lezioni di matematica; dalle medie in poi si poteva sempre notare un romanzo furtivo sotto il banco, che leggevo in ogni spiraglio di tempo libero.

    Finite le superiori persi quei pochi amici che avevo e cominciai a tentare di realizzare il mio sogno: aprire una libreria. Se dicessi che l’ho fatto solo per condividere la mia passione con il mondo mentirei. La verità è che nessuno vuol rimanere da solo, e vendere libri era innanzitutto un modo per comunicare. Dopotutto chi compra libri lo fa per interesse personale, vero? Pensavo che con un po’ di fortuna sarei riuscita a trovare qualche amicizia affine e sincera.

    Tutto iniziò una domenica mattina di maggio con una chiamata da parte di Elisa, l’ultima amica che mi era rimasta a distanza di pochi mesi dal diploma. Non avevamo molti interessi in comune, ma fu l’unica persona ad intraprendere una crociata per tirarmi fuori dalla mia fortezza di libri. L’aveva presa come una questione personale, e avrebbe fatto di tutto pur di riuscirci. In altre parole, il termine perdere non era contemplato nel suo vocabolario. Era testarda e capricciosa come i lunghi ricci castani che portava in testa. La sua pelle non era particolarmente scura, ma confrontata con la mia sembrava vivesse in riva al mare sotto al sole cocente. Una ragazza in carne, premurosa, invadente, con la curiosità e coraggio di un gatto e gli occhi nocciola sempre vispi. Ero distesa sul letto e leggevo quando alzai il busto per prendere il cellulare che squillava.

    «Pronto, Asia?» gemette energico il telefono. «Cosa stai facendo?».

    «Ciao Elisa, sto-».

    «Era una domanda retorica, lo so cosa stai facendo» alzai gli occhi al cielo. «Ho pensato che potresti posare un attimo quel libro e prendere un po’ d’aria fresca questo pomeriggio. C’è il mercatino dell’usato in città». Sapevo già come sarebbe finita quella conversazione.

    «Non lo so» dissi evasiva. «Ho un po’ da fare oggi e-».

    «Va bene, passo a prenderti dopo pranzo. Oggi incontreremo una persona speciale, quindi mi occuperò personalmente del tuo look. A dopo!».

    «Ma cosa! Non puoi-». E riattaccò senza nemmeno ascoltare la mia risposta.

    Nonostante Elisa fosse invadente la apprezzavo con tutta me stessa, ed era probabilmente l’unica persona a cui volevo bene. Mi era sempre stata vicino. A diciannove anni avevo davvero bisogno di cominciare a capire come girava il mondo che di sicuro non orbitava attorno alla mia stanza, come ripeteva sempre. Inoltre socializzare mi avrebbe forse fatto bene, visto che non mettevo piede fuori di casa da almeno una settimana.

    Erano le tredici e da lì a poco avrei pranzato. Non ebbi il tempo di posare il telefono che udii dei passi dirigersi verso la mia stanza. Sbuffai e preparai i timpani.

    «Sei ancora a leggere? Dovresti trovarti un lavoro. Quante volte devo ripeterti che un domani potremmo non esserci più?» disse mio padre con tono sprezzante.

    Era un grasso e rozzo muratore in pensione; stempiato, con la barba incolta e dura come le retine in nailon per lavare i piatti. Provava un odio profondo per qualsiasi cosa che non fosse un lavoro manuale, e pertanto disprezzava con tutto sé stesso la mia passione. Carta straccia, diceva sempre. Se fossi stata un maschio probabilmente mi avrebbe fatto abbandonare la scuola in terza media per portarmi in cantiere con lui.

    Come ad ogni ramanzina mi limitavo ad annuire senza alzare gli occhi, che tenevo puntati sul libro. Attendevo quei due o tre minuti di sfuriata facendo finta che non mi toccassero e poi lo lasciavo andar via, facendomi puntualmente rovinare la giornata.

    «Vieni a mangiare, comunque. E metti un po’ d’ordine in questa stanza».

    Si allontanò e riposi il libro sullo scaffale. Non aveva tutti i torti; usavo spesso cambiare i vestiti senza metterli via subito, e per questo si accumulavano sulla sedia. La libreria traboccava di volumi di ogni genere e non riusciva a contenerli tutti, non c’era da stupirsi che vi fossero più libri sulla scrivania e sul comodino che negli scaffali. La mia stanza si affacciava su un porticciolo, e la distesa d’acqua proseguiva fino a perdersi all’orizzonte; la bellezza della vista era pesantemente in contrasto con le condizioni della camera. Tirai un profondo respiro e mi diressi in cucina dove mi attendevano altre lamentele da parte di mia madre, un’attraente e burbera donna con l’ossessione per i gioielli. Da lei avevo preso il fisico e i capelli, ma fortunatamente non il carattere e la sconsideratezza. Mio padre non riusciva a dirle di no, e per questo motivo eravamo sempre a corto di soldi. Mi sono sempre chiesta cosa ci azzeccassero insieme, a parte la passione nel tormentarmi. Data la sua mania avrebbe potuto sposare un direttore di banca invece che un muratore, no? Evitavo di parlare con loro il più possibile, e durante il pranzo le conversazioni dei miei genitori erano solitamente scandite dal giornalista alla televisione. Se non lo erano voleva dire che il segnale era debole a causa dell’antichità della malconcia scatola elettronica, e mio padre non aveva intenzione di spendere soldi per un altro televisore.

    «Hai sentito di quella al piano di sopra?» iniziò lui. Non ho mai capito se avesse il terrore del silenzio oppure si sentisse in obbligo di dire qualcosa alla moglie.

    «Sì, sembra si stia sposando con un imprenditore» enunciò acida mia madre. «Sicuramente è molto più fortunata di me»

    «Suvvia, Carla. Lo sai che con la sola pensione non posso permet-». Lo interruppe battendo con i gomiti sul tavolo.

    «È una vita che non puoi permetterti niente, Andrea. Preferiresti cedere un litro di sangue piuttosto che spendere un euro, è disgustoso».

    Gli argomenti spaziavano dai pettegolezzi ai litigi per futilità, come se la loro relazione ne avesse bisogno per mantenersi in piedi. Poi, per togliersi di dosso i proiettori della vergogna, lui dava la colpa a me.

    «Beh, non è colpa mia se tua figlia è una nullafacente e non abbiamo soldi» disse mio padre sprezzante. Sentii il sangue ribollire dalla rabbia.

    «Guarda che è anche tua figlia!».

    «Eri tu quella che avrebbe dovuto educarla mentre io ero a lavoro» azzardò, e riprese uno dei tanti putiferi.

    Di colpo l’oggetto del loro sfogo diventavo io e rimanevo a sorbirmi gli insulti senza replicare. Non appena finivo di mangiare mi alzavo da tavola senza aspettare che si fossero rimpinzati e tornavo a leggere per non pensare alle loro parole. Probabilmente non si sono mai chiesti come potevo sentirmi, e il fatto che mi dessero continuamente dell’inutile aveva contribuito allo svilupparsi di un’insensata ansia per le novità. Ero insicura su tutto, dal conoscere persone nuove al presentarmi ad un colloquio di lavoro, dal cambiare routine all’uscire per una passeggiata… non si sa mai chi potresti incontrare in giro, dopotutto. Il non espormi più di tanto alle persone preveniva le amicizie, così ciò che mi restava erano i libri, assieme a tante giornate vuote nelle quali perdevo la concezione del tempo.

    Elisa fu puntuale come al solito. I miei genitori la adoravano. Ho perso il conto di tutte le volte che li ho sentiti dire Perché non sei come la tua amica, con un’attività già avviata ed in grado di vivere da sola?. Badavano però bene a non dare spettacolo davanti a lei, in modo da non fare brutte figure, così quando Elisa era in casa i miei genitori evitavano di litigare. Non ad alta voce, per lo meno. Ogni volta ero combattuta tra la beata compagnia di me stessa e la tranquillità che riusciva a portare nell’appartamento. Si presentò nella stanza con un abbigliamento da domenica pomeriggio ben studiato, come al solito. Elisa era donna, si sentiva tale, e adorava farlo notare a tutti gli altri. Le piaceva avere gli occhi puntati addosso e riusciva sempre a trovare un compromesso per mettersi in mostra senza risultare volgare. Aveva attinto dal suo vasto assortimento di zeppe, e ne indossava un paio nere assieme a dei jeans attillati e un top estivo. Appena arrivata nella stanza prese dalla borsa una busta piena di trucchi e vestiti, che rovesciò sulla scrivania sommersa dai libri.

    «Su, non abbiamo molto tempo. Fai velocemente una doccia» disse spingendomi frettolosamente in bagno.

    Era davvero difficile non obbedirle, e nel giro di mezz’ora ero rinfrescata davanti allo specchio con la mia amica che armeggiava con del make-up. Mentre guardavo il mio riflesso non riuscivo a non pensare chi me lo avesse fatto fare.

    «Dovresti accorciarli» disse azionando il phon e prendendo in mano una ciocca, dopo aver scelto i trucchi e averli posati di fronte a sé. «Ti arrivano al fondoschiena e ci metteremo ore per asciugarli. Però sei fortunata, sai? Non ho mai visto una cliente entrare nel negozio con dei capelli così lisci».

    «Se solo me l’avessi detto prima!» sbuffai facendo volare via una ciocca dagli occhi.

    «Era scontato che dovessi darti una sistemata!» sbottò contrariata. «Come procede la ricerca di lavoro, comunque?».

    «Mi sto dando da fare» dissi evasiva, non volevo toccare quel tasto. «Ho qualcosina da parte e in qualche mese dovrei riuscire a racimolare quanto basta per aprire la libreria».

    In realtà non era vero per niente. Se le avessi detto che in tutto quel tempo non avevo fatto altro che leggere avrei dovuto sorbirmi anche il suo di cazziatone, oltre a quello usuale dei miei genitori.

    «Hai già trovato un locale?» chiese, passando la spazzola sui capelli.

    «Non ancora, ma a conti fatti potrò solo permettermi l’affitto di un posto molto piccolo».

    Lei annuì, poi iniziò a truccarmi. Era molto esperta, e confesso che qualche volta mi sentivo a disagio per questo motivo. Lei era una ragazza di successo con uno spiccato senso della moda, e poi… beh, e poi c’ero io.

    «E questo?» disse posando momentaneamente i trucchi. Afferrò il libro che avevo lasciato sul letto e che era diventato in brevissimo tempo il mio preferito: Il flusso della spada. La copertina scura ritraeva un uomo di mezz’età dai capelli castani e grigi che brandiva uno spadone molto più grande di lui. L’imponente arma, munita di un grande occhio appena dopo la coccia, sembrava avere vita propria, ed era avvolta da una strana brezza che sfocava l’aria attorno a sé. L’uomo si trovava in una pianura distrutta ed osservava tetro una pioggia di frecce che si dirigeva verso di lui. «Leggi ancora i fantasy alla tua età?» chiese sarcastica.

    «Ti manca lo spirito della lettrice» sbuffai irritata. «Tutti i libri possono insegnarti qualcosa, il genere è relativo. Dovresti cominciare a leggere anche tu».

    «Sì, sì…» rispose, col tono di chi si rivolge ad un bambino che prega i genitori di comprargli un giocattolo che non otterrà mai.

    Mi raccontò un po’ di come procedeva la sua attività. Elisa era proprietaria di un salone di bellezza, ed era in grado di raccontare ogni giorno decine di pettegolezzi diversi. Mi fece indossare alcuni dei suoi vestiti - i tuoi non sono per niente adatti ad una ragazza, diceva sempre - e rimase ad osservare soddisfatta la sua opera. Lo stile che aveva scelto non era molto diverso dal suo. Non avevamo le stesse proporzioni fisiche e stavo per chiederle dove li avesse presi. Poi mi ricordai di quanto fosse permalosa ed ipotizzai che dovevano risalire al periodo della scuola, quando era più magra.

    «Guarda quanto sei bella. Non ho mai visto una donna - enfatizzò la parola - Più bella di te!».

    «Su, smettila. In confronto a te non sono nulla».

    I complimenti mi facevano sempre sentire enormemente in imbarazzo, ed arrossivo facilmente. Come ciliegina sulla torta non mi sentivo per niente a mio agio con quei vestiti. Ho sempre indossato jeans larghi, felpe e magliette semplici, le cui scorte dell’armadio non variavano mai. Avevo giusto qualche vestito e scarpa elegante che indossavo a matrimoni o cerimonie, ma erano occasioni così rare che spesso dimenticavo di avere un’altra tipologia di vestiario. Elisa aveva ovviato anche al problema calzature dandomene un paio simili alle sue. Simili ma non uguali, non sia mai. Diventava una bestia quando vedeva un’altra ragazza con i suoi stessi vestiti. Ho sempre pensato che facesse in modo di modellare il mondo a suo piacimento, ed in quel momento stavo incarnando il suo prototipo di amica perfetta. Vagheggiamenti a parte avevo un problema più grave: sapevo destreggiarmi solo sulle scarpe da ginnastica. Fortunatamente non era la prima volta che mi costringeva a questa tortura, quindi ripresi velocemente la mano - o il piede, per meglio dire - e smisi di barcollare dopo qualche passo di pratica.

    Credo che Elisa fosse spiritualmente invaghita di me, visto che mi riempiva continuamente di apprezzamenti. Le piacevo davvero, fisicamente parlando. Ma dal canto mio io non mi trovavo affatto attraente. Notai che, ancora dopo tutto questo tempo, la sua vista balzava dal mio occhio sinistro a quello destro.

    «Sono passati così tanti anni ma ancora non sai quale occhio guardare» le sorrisi, incrociando il suo sguardo nello specchio mentre mi dava le ultime sistemate. Quella era la mia unica, originale caratteristica, sicuramente meno dispendiosa di un fornito guardaroba.

    «Beh sai, non capita tutti i giorni di trovare gente come te» disse dando il colpo di spazzola finale.

    «Guarda quello che ti piace di più, ma non fare così» borbottai imbarazzata «Mi fa sentire a disagio. Quello verde?».

    «No, quello azzurro». Ci scambiammo una risata sincera.

    «E chi sarebbe questa persona, comunque?» chiesi con forzata curiosità.

    «So che sei sposata con i libri, ma potresti avere altri spasimanti oltre alla carta e l’inchiostro».

    Questo spiegava molte cose: Elisa stava ricominciando a fare la consulente d’amore. Riteneva che trovarmi un ragazzo fosse uno dei metodi più veloci per farmi uscire dal guscio e, nonostante tutti i fallimenti passati, non si dava per vinta. I precedenti, ovvero Giulio, Matteo, Dario, Luca e tutti quelli di cui ho dimenticato il nome, erano degli zotici scimmioni. Non avevo ascoltato discorsi più noiosi delle loro incredibili giocate a calcetto, del potentissimo impianto audio della macchina nuova, o di quanti chili riuscissero a sollevare in palestra. A volte mi chiedevo se Elisa li scegliesse totalmente a caso o secondo i suoi gusti. Insomma, se proprio avesse voluto portare avanti questa farsa avrebbe potuto presentarmi un appassionato di libri, non era così difficile. Ma poi realizzavo che, se esistevano, probabilmente erano tutti rinchiusi in casa come me, e quindi non li avrebbe mai incontrati.

    «Ancora con questa storia? Lo sai che i ragazzi sono l’ultima cosa a cui penso in questo momento» dissi irritata. Anche perché l’unica persona con cui riesco a parlare sei tu, aggiunsi a me stessa.

    «No, non voglio sentire ragioni. Ora ti alzi e andiamo in città, Daniele ci aspetta».

    Un altro nome che sarebbe finito nel dimenticatoio. Riconoscevo, comunque, che aveva fatto un ottimo lavoro con i trucchi e i vestiti che aveva portato. Cercai di infilare silenziosamente un libro nella borsa, ma se ne accorse e mi costrinse a lasciarlo in casa.

    «Ottimo» dissi. «Ora non saprò cosa fare mentre quel tizio mi racconterà cose per cui non nutro il minimo interesse».

    «Fa’ finta che ti interessi, allora. Accidenti, io ci provo con tutta me stessa, ma tu devi collaborare!».

    Rimasi un attimo a guardarmi allo specchio con l’espressione contratta dall’imbarazzo. Non ero per niente a mio agio con quei vestiti. Elisa afferrò la mia mano ignorando le proteste che seguirono e mi trascinò fuori con la forza.

    Alla fine la possibilità di trovare qualche vecchio libro al mercatino dell’usato mi convinse che uscire non era poi un’idea così brutta. E poi non avevo l’obbligo di stare dietro a tale Daniele. Avevo un piano: lui avrebbe parlato di cose stupide mentre io mi sarei limitata ad annuire ogni tanto, sfogliando uno dei libri della bancarella per alleviare la tensione. Salutammo velocemente i miei genitori e scendemmo le scale del condominio. L’edificio era stato appena ristrutturato: si sentiva l’odore fresco della vernice e gli operai non avevano ancora portato via tutti i loro attrezzi, così dovemmo scansare alcune casse adagiate sui pianerottoli. Ci ritrovammo infine per strada, sotto il soffocante sole pomeridiano. Non c’era un filo di vento e il caldo si faceva sentire. Proprio di fronte al palazzo, oltre un muro di cemento, giace da decenni una struttura incompleta. A giudicare dalla forma sarebbe dovuto essere un parcheggio a più piani o un edificio di qualche genere. Proprio accanto, si trovava una specie di grande e profonda conca. Non ho mai capito come si fosse creata, ma di una cosa ero certa: quando pioveva si riempiva d’acqua stagnante anche per mesi interi, e le zanzare ne approfittavano per stabilirsi lì. Il risultato era che l’estate diventava un inferno. Stavo per dirigermi a destra e prendere la via breve, un sottopassaggio un po’ sporco ma che ci avrebbe fatto raggiungere la piazza stabilita per l'incontro in circa cinque minuti, ma Elisa mi strattonò dall’altra parte facendomi perdere l’equilibrio.

    «No, non di là» scosse il capo irritata. «Non con le cose che stai indossando. Dovremo fare il giro lungo».

    «Va bene, scusa!».

    Accidenti imprecai a bassa voce. Il tunnel era poco più grande di una macchina ordinaria, sia in altezza che in larghezza, ed era adibito ad un traffico esiguo. Proprio sopra di esso c'era la stazione ferroviaria, ed era facile cadere in preda al terrore sentendo un tetro ed amplificato sferragliare provenire dal soffitto se non lo si sapeva. Bisognava saltare un minuscolo corso d’acqua generato da una sorgente che sgorgava dalla parete in fondo, e la mia amica non aveva tutti i torti ad irritarsi. Quando il minuscolo fiumiciattolo era più abbondante raggiungeva anche la parte destra del tunnel, solitamente quella asciutta, e creava della fanghiglia. Nella zona circostante, inoltre, risiedevano i cantieri aperti del porticciolo, che talvolta fungevano da riparo per dei cani randagi. Elisa li aveva etichettati come aggressivi, e li evitava come la peste. Così fui costretta a prendere la strada a sinistra, che allungava il tragitto di venti minuti. Percorremmo un tratto d’asfalto in salita, attraversammo la strada sulla destra e imboccammo la via per raggiungere Corso Roma, la zona principale della città, costituito da un lungo rettilineo costellato di bar e negozi che si collega, in fondo, all’antico ponte che conduce al centro storico; la nostra destinazione, tuttavia, si trovava più o meno a metà del tragitto.

    Ho sempre abitato a Gallipoli. Si tratta di una località turistica e marittima di circa ventimila anime che si moltiplicano di dieci volte in estate. A parte il mare e la città vecchia, non c’è molto altro da vedere per una persona come me. Il resto è costituito da cocktail bar e discoteche, luoghi che non avevo intenzione di frequentare per nulla al mondo. I mesi del turismo si avvicinavano, così avevo già iniziato a prepararmi psicologicamente alle strade esageratamente affollate, e di conseguenza a trascorrere più tempo del solito in casa. Tutti i miei pensieri misantropi si erano agglomerati alla tensione di ciò che stavo per fare, e fecero passare il tempo in un batter d’occhio. Non avevo ascoltato una sola parola di Elisa. Il mio udito aveva captato passivamente delle indicazioni su cosa fare e come comportarmi senza però assimilarle, e non avevo fatto altro che annuire e dire sì, certo ogni due minuti. Così ci ritrovammo sulla piazza affollata, dove al centro si ergeva un monumento ai caduti della città circondato da piccoli spiazzi verdi di siepi ed alberi. L’ultima volta che ero andata al mercato delle pulci, allestito la seconda domenica di ogni mese, era stata probabilmente quando avevo undici anni. Eppure era ancora come l’avevo lasciato: la piazza si riempiva di gazebo e bancarelle consunte; gli stessi volti invecchiati vendevano sempre le stesse cose, ovvero attrezzi antichi, statuine, ed immagini di santi; i bambini avevano invaso la bancarella di carte da gioco collezionabili e si sfidavano a duello seduti per terra. Ricordai che anche io ci giocavo una volta, ed ebbi la tentazione di avvicinarmi per osservare. Ma Elisa, che aveva sicuramente capito le mie intenzioni, badò bene a circumnavigare quella zona. Si respirava un’aria antica tra vecchi quadri e lampade secolari, fin quando un intenso odore di carta vecchia attirò la mia attenzione. Un uomo anziano con grandi occhiaie e una giacca scura a quadri aveva esposto nella sua bancarella dozzine e dozzine di volumi consunti: da testi universitari a ricettari di cucina, da guide per riparazioni alla narrativa più disparata. Questa volta la mia amica mi lasciò andare con uno sbuffo, sapeva che non c’era nulla da fare quando si trattava di libri, e si limitò a seguirmi annoiata. Mi avvicinai ed espirai un timido, flebile, imbarazzato ciao al proprietario che leggeva il giornale. Lui spostò gli occhi dal quotidiano e mi donò un’occhiata mista tra curiosità ed inquietudine, ricambiò il saluto e tornò alla sua lettura. Ero abituata a quel tipo di reazioni, e forse era anche per quel motivo che evitavo di socializzare con le persone… mi facevano sentire un fenomeno da baraccone. Scorrevo lo sguardo tra le miriadi di vecchi giornali e libri, fin quando non puntai casualmente un romanzo dalla copertina particolarmente usurata. Stavo per afferrarlo quando una persona pronunciò il nome della mia amica. Sentii il sangue gelarsi.

    «Ehilà, Elisa!» disse una voce maschile alle mie spalle.

    Elisa, che era accanto a me, diede furtivamente uno schiaffo alla mano che aveva afferrato il libro, facendolo cadere. L’anziano alzò distrattamente lo sguardo per vedere cosa fosse successo prima di tornare alle notizie sportive. Mi voltai lentamente e strizzai gli occhi a causa del sole. Un ragazzo che si teneva ben in forma, probabilmente con corsa e flessioni a giudicare dalle spalle, apparve davanti a me in una tuta da corsa dai colori bordeaux e rifiniture grigie. Era snello e portava degli scuri, cortissimi capelli. Non potei fare a meno di notare che gli facevano sembrare le orecchie più grandi di quanto non fossero. I tratti del volto erano una via di mezzo tra il morbido e il tagliente, la carnagione leggermente più chiara di quella di Elisa, e aveva degli occhi castani. Io, l’unica a riuscire a decifrare le espressioni della mia amica, captai che il sorriso che gli rivolse celava un Come diavolo ti sei conciato? È questo il modo di presentarsi ad un appuntamento?. Con un certo sollievo mi arresi al pensiero che Elisa avesse portato un altro dei superficiali scimmioni che piacevano a lei, e che lui avesse fatto fiasco prima di aprire bocca, anche se questo, a differenza degli altri, sembrava aver dimenticato i muscoli a casa.

    ***

    Quando si voltò il tempo sembrò rallentare, ed ecco lì la persona di cui mi aveva parlato Elisa. La carnagione, bianchissima, metteva in risalto l’occhio azzurro che mi rivolgeva a metà viso. Accennò un timido sorriso e poi completò la rotazione del busto, mostrando l’altro occhio dal colore verde. Il contrasto con la candida pelle e il sole che le illuminava il volto li faceva sembrare due gemme preziose, e il mio sguardo rimbalzò dall’uno all’altro con una certa confusione per quanto ne rimasi colpito. Dei lunghissimi e lisci capelli neri lucenti le sfioravano la vita. Aveva un viso dai tratti angelici, e anche buon gusto nel vestire che si adattava perfettamente alla sua figura esile, benché sembrava le mancasse il portamento. Pensai che poco importava: nemmeno il più umile degli stracci sarebbe riuscito a spezzare l’armonia che l’accompagnava, e vederla mi fece seccare la gola dall’emozione. Deglutire servì a poco, e il cuore cominciò a battere come quello di un quattordicenne che sta per dare il suo primo bacio, tanto che finii col chiedere a me stesso che cosa diavolo stesse succedendo. Era semplicemente la ragazza più bella che avessi mai visto, ed entrai un po’ nel panico quando ricordai l’abbigliamento che avevo addosso. Ma io che cosa ne sapevo? Non avrei mai immaginato che Elisa avrebbe portato con sé una ragazza, e per giunta così bella. Indugiai a lungo sui suoi occhi e, quando mi resi conto che la stavo guardando come se avesse una qualche malattia appariscente, distolsi lo sguardo con impaccio. Lei fece lo stesso e piantò gli occhi sulla pavimentazione a ciottoli della piazza, contraendo le labbra in un’espressione imbarazzata. Ad essere sincero provai vergogna, non è educato fissare le persone in quel modo. In qualità di praticante di arti marziali, e nello specifico Ju-Jitsu, persi solo un incontro in vita mia, e fu per rinuncia. Gli altri partecipanti erano infortunati e mi sarei dovuto scontrare con un ragazzino che, a prima vista, capii avere un livello molto inferiore rispetto al mio. Così mi ritirai, non sarebbe stata una medaglia meritata. Il maestro fu contento del nobile gesto, i compagni che mi avevano accompagnato un po’ meno. Eppure qualcosa dentro di me diceva che quella ragazza sarebbe riuscita a mandarmi KO solo sfiorandomi. Mi faceva sentire terribilmente in soggezione come nessun’altra aveva fatto prima d’ora. Il mio spirito fermo di combattente vacillò sotto uno sguardo che nella sua bellezza racchiudeva l’alfa e l’omega.

    «Piacere, Daniele» dissi tentando di mostrarmi sicuro, anche se la voce si strozzò involontariamente. Tesi la mano che, rispetto alla sua, risultava piuttosto grande.

    «Asia» ricambiò timida.

    La sua stretta era veramente debole, come quella che avrebbe dato una persona molto chiusa, elemento che trapelava con facilità. Notai che l’altra mano le si agitava nervosamente, aveva tentato di nasconderla dietro la schiena senza successo. Ricordava me da bambino al primo combattimento: spaesato e terrorizzato all’idea del confronto. Rialzò lo sguardo e mi rivolse un sorriso forzato. Poi, come se non sapesse che cosa fare, lo spostò sull’amica per chiedere aiuto. Ma lei non fece nient’altro che ricambiarla con un’espressione severa. Asia fece una mossa avventata del tutto innaturale e, facendo finta che nessuno di noi due esistesse, si voltò di scatto e riprese a guardare i libri sulla bancarella. Volevo conoscerla meglio a tutti i costi, quei comportamenti insoliti la rendevano una persona curiosa ed interessante. Era come se volesse tenere nascosto dentro di sé chissà quale tesoro, e accidenti… cosa avrei dato per trovarlo!

    ***

    «Oh, non preoccuparti… è solo un po’ timida» dissi per sdrammatizzare. «Fa così con tutti!».

    Un brivido sembrò scorrerle lungo la schiena, poi ci diede nervosamente le spalle. Ora che Asia era voltata e non riusciva a vedere mi avvicinai furiosa al ragazzo. Gli diedi una silenziosa gomitata nelle costole, e lui emise un gemito sommesso.

    «Pronto? Ti senti bene?! Non puoi presentarti in tuta ad un appuntamento!» sibilai, facendo attenzione che la mia amica non sentisse. Non che vi fosse nulla di cui preoccuparsi, dato che non aveva perso l’occasione per iniziare a frugare tra quei dannati libri.

    «Non mi avevi detto che era un appuntamento! Hai solo chiesto se volevo uscire e che avresti portato una persona!» rispose agitato.

    «Quanto puoi essere stupido? Era ovvio che avrei voluto presentarti una ragazza!».

    «La prossima volta potresti essere più specifica!» mormorò distrattamente mentre mangiava Asia con gli occhi.

    Beh, quantomeno le piaceva, era un inizio. Ma che dico? Asia piaceva ad ogni ragazzo esistente sulla faccia della terra, era ovvio che fosse così!

    «La prossima volta potresti essere meno stupido! E comunque vedo che ti piace…» lo osservai maliziosa, dopo aver spostato un ricciolo fastidioso. «… peccato lei sia attratta solo dai cervelloni. Fatto sta’ che non avrai alcuna speranza se continui ad essere così idiota». Daniele si accigliò ed esibì uno sguardo sospettoso.

    «Che cosa ti fa pensare che io voglia provarci con lei? So a malapena il suo nome, che cosa ti salta in mente?!» ribatté imbarazzato.

    «Conosco te e conosco gli uomini».

    «Non significa nulla» borbottò. «E poi perché dovrei partecipare a questa follia?».

    «Perché ti ho offerto il caffè l’altra settimana e devi ripagarmi il favore. Ora va’, accidenti!».

    Gli diedi un energico spintone e lui si sbilanciò in avanti. Stava quasi per cadere su Asia e rovinare tutto, ma fortunatamente riuscì a bloccarsi, anche se quel movimento brusco attirò l’attenzione dei passanti. Gesticolò ed imprecò verso di me, ma lo sguardo severo che gli scoccai subito dopo pose fine alle sue proteste. Così mi diede le spalle e si rivolse verso Asia. Non avevo assolutamente intenzione di lasciar perdere, non dopo aver passato un pomeriggio intero a truccarla. Inoltre il fatto che la mia amica si stesse comportando così poteva significare solo una cosa: Daniele le piaceva. Non poteva essere diversamente! Io la conoscevo bene, per forza! E poi… e poi… beh, lui non era per niente male, in fondo. Ma ormai l’avevo prenotato per Asia, e in ogni caso lo vedevo solo come un amico. Conoscevo Daniele dall’asilo, potevo vantarmi di sapere più di qualcosa sul suo conto, e da allora frequentavamo sempre la stessa compagnia, almeno fino alla fine del liceo. Eravamo cresciuti assieme e non avevo mai perso un suo allenamento di arti marziali, questo prima che il salone di bellezza occupasse la maggior parte del mio tempo e mi impedisse di andare ad assistere. Era veramente bravo, forse il migliore in tutta la palestra. La sua casa era costellata di medaglie di ogni genere e ne aveva così tante che era stato costretto a mettere in garage diverse scatole ricolme di trofei scintillanti. Sì, sì, sì, sarebbe stato in grado di far sentire Asia al sicuro tra quelle grandi e accoglienti spalle, le avrebbe insegnato come difendersi dagli attacchi di sconosciuti e avrebbe acquisito fiducia in sé stessa! E poi che figurino, con quelle natiche che… sto divagando.

    Daniele, il mio asso nella manica. Ammetto che Giovanni era veramente stupido, e Luigi era impallato con i motori, aveva le mani sempre sporche di grasso. Disgustoso. Per completare il quadro dovrei nominare anche Giacomo, Carlo, Leonardo, Michele … ma non indugiamo sulle mie scelte errate, stavo solo sondando il terreno per trovare qualcuno di adatto a lei. Insieme sarebbero stati perfetti, anche perché avevano una cosa in comune che Asia avrebbe enormemente apprezzato.

    Daniele sembrò trovare il coraggio di fare qualcosa. Si avvicinò alla bancarella e cominciò a sfogliare libri assieme a lei. Forse aveva capito come prenderla: ottima cosa, dato che non gli avevo dato alcuna indicazione… anche se quello zotico avrebbe potuto indossare qualcosa di più adatto. Il mio piano stava funzionando, dovevo solo pregare che Asia avesse ascoltato i miei consigli. Regola numero uno: sorridi sempre. Questo fa capire ai ragazzi che stanno andando nella direzione giusta, dato che hai la cattiva abitudine di farli scappare con i tuoi comportamenti. Regola numero due… oh, al diavolo le regole. Se solo avesse posato quei maledetti libri per un secondo!

    ***

    «Libri usati, eh?» tossì la voce di Daniele alle mie spalle.

    Vidi la sua figura avvicinarsi alla bancarella con la coda dell’occhio. Si piazzò a sinistra ed iniziò a scorrere le copertine dei libri con il dito. Dovetti ricorrere a tutta la mia già scarsa forza di volontà per tenere il naso sull’ingiallito harmony e non spostare lo sguardo su di lui. Il romanzo rosa non era proprio la mia tazza di tè, lo stavo solo usando come copertura… tenendolo un po’ troppo vicino al volto. Salutò distrattamente l’anziano proprietario senza curarsi di ascoltare la risposta, poi afferrò un saggio particolarmente consunto ed iniziò a sfogliarlo. Riuscii a scorgere il titolo: Ingegneria ed Architettura, doveva trattarsi di un testo universitario. Onestamente poco mi importava dell’ingegneria, ma provai fastidio. Gli scimmioni di Elisa non avevano il diritto di toccare le copertine dei libri, e quel ragazzo stava maneggiando ignaro la mia passione più grande. Sarebbe stato difficile scrollarselo di dosso, e seguì qualche minuto di silenziosa lettura. Ora si sentiva solo il chiasso causato dalla folla e non avevo idea di dove fosse finita Elisa. Forse era ancora lì dietro a sperare che succedesse qualcosa.

    «Personalmente non venderei mai un mio libro, nemmeno se fosse così vecchio da essere illeggibile» esordì lui improvvisamente con un sospiro. «Insomma, dopo aver letto l’ultima pagina ci lasci un pezzo di te …».

    L’anziano grugnì distrattamente. Quella frase suonò talmente melodiosa alle mie orecchie da attutire ogni suono nel raggio di metri, ma non ero sicura di aver capito. Ruotai timidamente il capo verso Daniele scoccandogli uno sguardo diffidente.

    «C-Cosa?» pronunciai senza nemmeno accorgermene.

    Mi resi conto che l’harmony che avevo in mano stava coprendo la mia bocca e mi faceva emettere parole indistinte, oltre che a essere all’inverso. Così lo abbassai impacciata e ripetei, trovando la forza di mantenere il contatto visivo con lui. Lo vidi deglutire e non vorrei sbagliarmi, forse stava anche sudando un po’. I miei occhi gli creavano disagio, non c’era altra spiegazione… era sempre così con tutti. L’imbarazzo si impossessò di me e arrossii, così dovetti spostare subito lo sguardo su Elisa in cerca di aiuto. Ma lei stava esibendo un gioioso sorriso a trentadue denti, e si era portata le mani strette in un pugno poco sotto la bocca. Aveva le iridi color nocciola più accese che mai.

    «Ho detto…» ora anche lui era un po’ arrossito, ma con quella carnagione scura risultava meno evidente rispetto a me. «… che un libro è qualcosa di speciale, e non lo venderei mai…».

    «Oh, sì, certo, ovviamente!» risposi con uno zelo innaturale «Nemmeno io lo farei».

    Espirai pesantemente prima di voltarmi di nuovo verso la bancarella e riprendere la mia copertura. La respirazione divenne irregolare e pregai di non avere un attacco di panico proprio in quel momento. Non ne avevo mai avuto uno, ma sarebbe potuta essere la volta buona.

    Ero contenta, nonostante non riuscissi ad esternarlo. Forse Daniele non era uno dei soliti microcefali che Elisa usava frequentare, e con un po’ di fortuna avrei potuto trovare uno spirito affine prima ancora di aprire la libreria. Ero molto dubbiosa nei suoi confronti, e mi chiedevo se prima o poi sarei riuscita a rivolgermi a lui così come facevo con Elisa, l’unica persona che non mi metteva in soggezione. I miei problemi comunicativi erano già abbastanza gravi da non sapere come comportami davanti alle ragazze che trovavo troppo diverse da me, figuriamoci con gli uomini.

    Elisa si fece avanti facendo schioccare rumorosamente le mani l’una contro l’altra per attirare la nostra attenzione. Ci voltammo all’unisono a guardarla.

    «Perchéééé non facciamo un giro tra le baracche e ci prendiamo un caffè, eh? Abbiamo ancora tanto tempo!».

    Posammo i libri, poi mi affrettai a raggiungerla lasciando appositamente indietro Daniele. Le afferrai il gomito e la trascinai qualche metro più in là.

    «Un attimo solo!» urlò lei al ragazzo, e la tirai così forte che quasi inciampò. «Accidenti, cosa c’è?!».

    «Ti prego, basta così!» risposi nervosa. Ma lei non faceva altro che ridacchiare.

    «Assolutamente no, stai andando bene!».

    «Io non volevo nemmeno venirci qui! Dai, fammi tornare a casa».

    Pregarla fu inutile: alzò la mano verso Daniele e gli fece cenno di avvicinarsi. Le scoccai uno sguardo assassino, ma lei strabuzzò gli occhi e con tono quasi venefico scandì sillaba per sillaba un te lo scordi, mettendo in moto la bocca con ampi movimenti. Lui si incamminò verso di noi grattandosi la nuca e tenendo lo sguardo basso. Sentivo lo stress pesare sul petto e sulle spalle. Ogni volta che mettevo piede fuori di casa finivo così, con le energie letteralmente prosciugate dalle altre persone.

    «Tutto bene?» chiese lui con un filo di voce.

    «Sì, sì, tranquillo!» rispose Elisa con zelo. «Asia mi stava dicendo di aver dimenticato il portafoglio a casa, e quindi era preoccupata perché non aveva nemmeno un euro per il caffè. Ma è tutto apposto, davvero!».

    Avrei tanto voluto darle una gomitata nelle costole. Elisa aveva l’incredibile capacità di creare bugie credibili su due piedi, e difatti il ragazzo non dubitò nemmeno un attimo.

    «Non è assolutamente un problema» sospirò Daniele. «Posso offrirtelo io».

    Perfetto, era proprio il peso di cui avevo bisogno. Mi sentivo una zecca fastidiosa.

    «Ecco, abbiamo risolto. Hai visto?» sorrise Elisa in un misto di malizia e soddisfazione. «Avanti, andiamo. Oh guardate, lì vendono dei bellissimi dipinti!». Corse via trascinandoci verso la bancarella… e a lei l’arte nemmeno interessava.

    Passammo così il pomeriggio al mercato delle pulci, fermandoci saltuariamente per dare un’occhiata agli antichi attrezzi e souvenir. Quando vidi un altro gazebo traboccante di libri tentai di staccarmi dal gruppo, ma la mia amica me lo impedì con energici e furtivi strattoni. Né io né Daniele parlammo molto, e i discorsi erano scanditi dagli esaltati e non necessari commenti di Elisa. Infine, partendo dalla piazza, risalimmo qualche isolato del corso per prendere posto ad uno dei bar più frequentati della città, che si trovava in pieno centro. Ci sedemmo ai tavoli all’esterno, e fummo fortunati a trovarne uno dato che il locale era incredibilmente affollato. Aveva uno stile piuttosto moderno e commerciava una vasta gamma di dolci, pizze, e pezzi da rosticceria. Realizzai di avere molti sguardi puntati addosso, uno dei motivi per i quali evitavo folle e persone. Era così ogni volta, e non poteva essere solo per gli occhi, perché si notavano solo da vicino. Mi ero chiesta già in diverse occasioni che cosa avessi di sbagliato, ma non ero mai riuscita a trovare risposta. Credo che se ne accorsero anche Elisa e Daniele; la mia amica fece abilmente finta di nulla, mentre lui sembrava piuttosto nervoso. Volevo solo smaterializzarmi - mi vennero in mente le tre D - nel letto e riprendere a leggere. Si avvicinò una cameriera bassa dai capelli neri con delle meches bionde, ordinammo tre caffè, poi tornò nel locale verso la zona bar. Per circa trenta secondi ci fu solo il gemere della folla ad accompagnarci.

    «Sai, Daniele» esordì Elisa giocherellando con una ciocca riccia. «Asia ha intenzione di aprire una libreria, è il suo sogno».

    Le lanciai un’occhiata d’ira e le diedi un colpo col piede da sotto il tavolo. Lei sussultò, e questa volta non mi curai di essere furtiva. Come si permetteva a spifferare i miei progetti ad uno sconosciuto?

    «Davvero?» disse lui con sincero interesse. «Sai cosa vuoi, è un’ottima cosa. Molte persone della nostra età non sanno ancora che fare. Hai qualche parente disposto ad aiutare? Hai già trovato un locale?». I caffè arrivarono poco dopo ed iniziammo a sorseggiarli.

    «Non ancora…» risposi timidamente mentre Elisa annuiva soddisfatta nella mia direzione. Mi stava comunicando Ecco, brava. Continua a parlare. «Anche se fosse, non ho abbastanza soldi. Avevo intenzione di cercare un lavoro … anche perché qui si trova occupazione solo in estate».

    «Beh, allora sei fortunata» disse Daniele risoluto.

    Estrasse il portafoglio dalla tasca, prese un biglietto da visita e me lo porse.

    «Il destino vuole che mio padre abbia appena trasferito la sua attività da Lecce a Gallipoli, e che sia in cerca di personale. Si tratta di una pizzeria. Io non posso assumerti, quello è compito suo… ma che ne dici di provare da noi? Lavorerò anche io, non sarai sola».

    Una speranza celata gli brillava negli occhi. Il mondo non girava nella mia stanza o tra i libri, ed Elisa non avrebbe fatto altro che rinfacciarmelo per le prossime settimane. In un solo pomeriggio ero riuscita a trovare un’offerta di lavoro e, sembrava, una potenziale amicizia.

    «Ecco… ti ringrazio… ma non ne sono totalmente sicura…» esitai afferrando il biglietto.

    Il locale si trovava in Via Udine, un po’ lontano da dove abitavo. Elisa mi diede un furtivo colpo sotto al tavolo con la gamba. Stava succedendo tutto così in fretta, e io ho sempre avuto bisogno dei miei lunghi tempi per decidere. Dannata ed insensata insicurezza.

    «Non preoccuparti, non devi rispondere subito» mi rassicurò Daniele. «Potresti provare a passare dal locale e fare una chiacchierata con mio padre, senza alcun impegno. Però ti consiglio di non aspettare troppo: l’estate si avvicina e riceveremo presto nuovi curricula».

    Annuii distratta. Dentro di me non avevo alcuna intenzione di accettare, non ne valeva la pena. E se poi non fossi stata all’altezza? Se avessi rovesciato qualche piatto? Se avessi fatto figure orribili? Rischiare non era mai stato il mio forte.

    Ad un certo punto Daniele guardò l’orologio e si agitò in tutta fretta.

    «Oh cavolo, si è fatto tardi. Di questo passo sarò in ritardo per il lavoro. Ci sentiremo presto, va bene? Pago io per tutti, non preoccupatevi».

    Si avviò velocemente dentro il locale e lo vedemmo mettersi in fila alla casa. Elisa mi rivolse uno sguardo malizioso. Sapevo già cosa voleva chiedere.

    «Allora?» mi punzecchiò col gomito. «Che cosa ne pensi? È un ragazzo molto carino, non è vero?».

    «Beh… sembra gli piaccia leggere…» risposi guardinga. Non volevo farmi sorprendere a parlare di lui.

    «Sì, giusto… gli piace leggere…» commentò in un tono che sfumava nella delusione, prima di ritrovare lo zelo. «Non è importante, comunque. Tutto quello che devi fare è accettare il lavoro! La vicinanza farà il resto, te lo garantisco».

    «Elisa!» esclamai contrariata rivolgendole un’occhiataccia.

    «Che c’è? Cosa ho detto? Cosa ho fatto?».

    «Non posso accettare» sbuffai. La furia trapelò dallo sguardo della mia amica.

    «Non essere stupida, è un’ottima occasione. Raccoglierai qualche soldo per la libreria e con un po’ di fortuna troverai anche un ragazzo».

    Vedemmo Daniele uscire di fretta dal locale. Si limitò ad agitare la mano da lontano e noi ricambiammo il saluto. Lo seguimmo con gli occhi fin quando non svanì nella folla.

    «Ma a me non interessa avere una relazione! Sono sempre stata bene da sola, non ne ho bisogno!».

    «Sì, sì… dite tutte così, fin quando non rimanete sole con qualcuno come Giorgio…» borbottò tra sé e sé, mentre giocherellava estasiata con la tazzina vuota.

    «E-li-sa!» l’apostrofai irritata, scandendo le sillabe.

    Poi ci guardammo negli occhi, e mi donò un’espressione talmente comica, grottesca, e maliziosa che iniziammo a ridere con naturalezza.

    «Seriamente, comunque» riprese con decisione. «Dovresti andare a parlare con suo padre. Ti posso accompagnare io, se vuoi».

    «Non lo so… Io…» Elisa sospirò.

    «Va bene, non preoccuparti, so come risolvere la situazione» gonfiò il petto. «Domani e dopodomani sarò occupata col salone. Ma mercoledì mattina passerò da casa tua, ti trascinerò fuori, e ti porterò a fare il colloquio, che tu lo voglia o no. Dirò a Daniele che sarai lì fra tre giorni».

    Tentai di protestare, ma sapevo che non avrebbe cambiato idea. Ci alzammo e tornammo a casa mia, Elisa rivoleva i suoi vestiti. Rimanemmo per circa un’ora a ridere e scherzare, fin quando il tramonto non svanì oltre la finestra. I miei genitori le proposero di rimanere per cena, ma lei declinò cordialmente l’invito, dicendo che doveva sbrigare alcune faccende a casa. Era difficile dire se fosse vero o meno, forse doveva vedersi con Giorgio. Prima di uscire dalla porta di casa mi volle ricordare che avevo un colloquio di lavoro di lì a poco, e che quindi avrei dovuto essere preparata psicologicamente. Sbuffai annoiata e annuii, poi andò via. Ero molto tesa, ad essere sincera. Il pensiero del dover fare per forza buona impressione mi angosciava troppo, così decisi di mettere da parte Il flusso della spada e prendere un altro libro. Quel fantasy meritava un’attenzione particolare, e avrei voluto leggerlo con tranquillità. La lettura mi distese leggermente i nervi, ma non rimosse i cupi pensieri che avevo per la testa; continuavo a pensare alle eventualità negative, alle figuracce che avrei potuto fare, e ad ogni altro elemento che mi suggeriva di desistere. Il tempo passò velocemente senza che me ne accorgessi, e lessi fino a notte fonda. Quando il sonno sopraggiunse diedi una pigra occhiata alla conca d’acqua stagnante fuori dalla finestra, poi mi addormentai col libro adagiato sul petto.

    Capitolo 2

    Il mondo gira fuori dalla stanza

    Il lunedì Elisa continuò a tartassarmi dal lavoro, cercando di convincermi ad andare al colloquio sfruttando ogni minuscolo spiraglio di tempo libero che aveva. Si era inoltre presa la libertà di dare il mio numero di telefono a Daniele, in modo che l’amico potesse tenermi aggiornata su quanti facevano domanda per il posto da cameriere. Lui tentò di ingaggiare una conversazione tramite messaggi e finimmo col parlare di libri per circa una mezz’oretta. Sembrava che preferisse i romanzi drammatici, a differenza mia. Quantomeno leggeva qualcosa di serio, non come gli altri sedicenti lettori che concentravano il massimo della propria cultura letteraria sui libri di barzellette dei calciatori. Ammetto che interruppi la conversazione un po’ a malincuore, ma stare per troppo tempo con gli occhi puntati sullo schermo mi dava il mal di testa. Daniele non si mostrò insistente ed invasivo, una qualità che apprezzavo a priori in ogni essere umano. Nel cuore si accendeva la fioca speranza che forse al mondo esisteva una persona simpatica, e allo stesso tempo simile a me. Non uscii di casa come al solito, e rimasi a leggere fino a notte fonda. Il martedì trascorse in modo simile. Elisa continuò ad insistere, e Daniele non si fece sentire. Mi stupii della leggera fitta di delusione che provai. Anche quella sera feci le ore piccole, e fui svegliata da una fastidiosa chiamata. Erano le otto di mattina e avevo la vista annebbiata dal sonno quando presi il telefono e lessi Elisa sullo schermo.

    «Pronto…» mugolai.

    «Perché sei ancora a letto?» gemette irritata la cassa acustica del telefono.

    «Elisa, sono le otto… perché dovrei essere sveglia?» protestai debolmente.

    «Hai un colloquio di lavoro questa mattina. Lo hai dimenticato?».

    «No, non l’ho dimenticato…». Semplicemente non pensavo che mi avrebbe costretta ad andarci sul serio.

    «Perseverare è diabolico, Asia. Alzati e preparati, sarò da te fra un’ora e mezzo» disse con un tono che non ammetteva repliche.

    «Sul serio?» mi rigirai nel letto stringendo il cuscino. «Dico davvero. Non mi va e non voglio».

    Ogni volta che si trattava di fare qualcosa di costruttivo per la mia vita sentivo una specie di peso sul petto che mi impediva di intraprendere qualsiasi azione, e quello era uno dei casi. Non volevo andare dal padre di Daniele. Tanto finiva sempre così: la soggezione o qualsivoglia cosa fosse aveva la meglio, fallivo, e a questo punto tanto valeva rimanere a letto.

    «La vuoi aprire questa dannata libreria o no?! Ti servono soldi e hai un’occasione!».

    «Sì che voglio, però-».

    «Però sei troppo pigra per muovere il sedere, non hai altre scuse. Mi dispiace, Asia, ma così non andrai da nessuna parte». Sbottò con voce alterata.

    A questo punto staccai l’orecchio dal telefono e anticipai quello che voleva dire, esibendo la faccia annoiata di una persona che ha ascoltato quella frase migliaia di volte. Il mondo non gira attorno alla tua stanza. La pronunciammo allo stesso momento.

    «Lo so».

    «Già, ed è questa la cosa grave» fece una breve pausa. «Dannazione tesoro, io ti voglio bene e tutto, lo sai… ma non prenderla a male quando ti chiedo se sei felice della tua vita. Sei ogni giorno rinchiusa in casa a leggere, non fai nient’altro. Ti fa sentire bene?».

    Rimasi in silenzio. Avevo già affrontato il discorso centinaia di volte con i miei genitori, e due o tre volte con Elisa. Provavo vergogna, e la risposta era no. Non mi sentivo per niente bene. Volevo fare qualcosa per cambiare? Sì. Lo mettevo in atto? No. Perché? Perché non avevo né la forza né il coraggio, e avevo paura, prigioniera di un terrore che non riuscivo nemmeno ad identificare. Allora rimanevo chiusa nel mio circolo vizioso di stabilità provvisoria. Stavo a casa a leggere libri, i miei genitori riprendevano il discorso, litigavamo, le acque tornavano calme e avanti così, all’infinito.

    «Va bene, fa’ quello che ti pare. Ci sentiamo» disse infine con rabbia.

    «No, aspetta…» mormorai d’istinto. La mia amica, dall’altra parte, sospirò pesantemente. «Io… va bene… ti aspetterò…».

    Fu probabilmente quella specie di senso di colpa che avevo nei confronti di Elisa a farmi accettare. Aveva una grande influenza su di me, non potevo negarlo. I suoi metodi erano moralmente discutibili, facevano leva sulla parte più debole della mia personalità… ma non lo faceva con cattiveria.

    «Bene» rispose. Il suo tono di voce rimaneva contrariato, ma fece trapelare una nota di felicità. «Allora renditi presentabile, ricorda che stai andando ad un colloquio di lavoro. Passerò in macchina, ci vediamo dopo» e chiuse la chiamata senza aspettare la risposta.

    Crollai sul cuscino, psicologicamente esausta. Avevo solo cinque ore di sonno e la giornata non era iniziata benissimo. Poi, come se il destino volesse accanirsi ancora di più, Daniele mandò un messaggio chiedendo se quella mattina mi sarei presentata. Risposi con un secco, forzato , e lui confermò con un Va bene, ti aspettiamo. Dalla cucina sopraggiunse un intenso odore di caffè, assieme alle urla del litigio dei miei genitori. Sembra che nel mondo esista una qualche forza negativa che fa abbattere su di te ogni evento spiacevole quando meno ne hai bisogno. Legge di Murphy, suppongo. Se qualcosa può andar male, lo farà. Dimostrazione: La probabilità che una fetta di pane imburrata cada dalla parte del burro verso il basso su un tappeto nuovo è proporzionale al valore di quel tappeto. Sorrisi amaramente, poi mi diressi in bagno per fare una doccia veloce. Dannati capelli lunghi, asciugarli richiese quasi un’ora… e il risultato fu che ebbi solo venti minuti per vestirmi. Non avevo il problema della maggior parte delle ragazze, quindi tirai fuori una maglietta rossa a maniche corte, dei jeans a caso, e le solite scarpe da ginnastica bianche. Purtroppo il mio spirito da lettrice fu inevitabilmente attirato dal libro giallo che stavo leggendo la notte prima. Così mi stesi sul letto in biancheria e ripresi a leggere. Quando suonò il citofono andai nel panico. Pensai che fossero passati solo cinque minuti, invece avevo esaurito il mio tempo. Mi rialzai e vestii in tutta fretta. Mia madre aveva aperto la porta ad Elisa, e quando l’amica entrò nella stanza caotica e disordinata mi trovò con le mani che finivano di mettere un calzino al piede e l’altro in bocca.

    «Ciao» mugugnai con lo sguardo che chiedeva uno scusa a cuor leggero. Lei mise le braccia conserte e scosse il capo sbuffando.

    «Sempre in ritardo, sempre all’ultimo minuto!».

    Cercò di trattenere una risatina, ma Elisa aveva un carattere da giocherellona e quel tipo di situazioni la facevano sbellicare. Prese le scarpe rovesciate che si trovavano dall’altra parte della stanza e la allineò vicino a me. Non riuscì più a far finta di esser seria e rise a singhiozzi sommessi, rivolgendomi un grande sorriso.

    «Andiamo, su» disse quando ebbi finto di mettere le scarpe.

    Tempo fa avrebbe avuto da ridire sull’abbigliamento, ma aveva imparato che commentare risultava inutile. Lei indossava una graziosa gonna a fiori ed era impeccabile come sempre. Afferrai la mia borsa e ci avviammo verso la porta, poi lei si bloccò e la urtai.

    «Aspetta. Il curriculum, lo hai preso?» chiese dubbiosa.

    «No…» borbottai strizzando gli occhi e battei il piede per terra, come se avessi ricevuto un colpo nello stomaco.

    Andai alla scrivania e lo tirai fuori dal cassetto. Era un po’ sgualcito. Stava lì dentro da non so quanto tempo, probabilmente dall’ultima volta in cui avevo provato a cercare un lavoro, e dato che si trovava ancora lì significava che non l’avevo mai portato al locale in questione. Non che ci fosse molto da vedere, comunque. Un misero diploma di liceo classico ottenuto con uno stentato sessanta su cento, una certificazione ECDL, ed un FCE scaduto di lingua inglese. Lo misi con cura nella borsa, poi uscimmo nel corridoio e fummo intercettate da mio padre.

    «Dove state andando?» chiese dolcemente, ma solo perché Elisa era lì.

    «Asia ha trovato un lavoro, sta andando a discutere i giorni e gli orari con il proprietario. La accompagnerò in macchina» mi diede una pacca sulla spalla, e io le rivolsi un’occhiataccia. L’ennesima, incontestabile bugia di Elisa.

    «Ah, bene» commentò lui sospettoso, come se non immaginasse che quel momento sarebbe mai arrivato. «Allora ci vediamo dopo».

    Uscimmo e scendemmo le scale. La sua macchina era parcheggiata proprio fuori ai cancelli, una Volkswagen Up grigia a cinque porte. Era la classica bella giornata che annunciava l’estate, con un cielo azzurrissimo senza nuvole e il sole forte. Aspettai di entrare e di allacciare le cinture prima di protestare. Lei annuì poco prima che aprissi bocca, se lo aspettava.

    «Era proprio necessario dire che avevo già trovato un lavoro?!».

    «No» ridacchiò, mettendo in moto.

    «E allora perché diavolo lo hai fatto?!».

    «Perché così non potrai tornare a mani vuote».

    Fece l’occhiolino mentre usciva dal parcheggio ed imboccava la strada per il locale. Non ebbi la forza di arrabbiarmi, e non ero per nulla sicura di quello che stavo per fare. Più la distanza tra noi e la destinazione si accorciava e più speravo che avessero trovato qualche altro cameriere, e al contempo pregavo che non fosse così.

    Arrivammo al locale in circa cinque minuti, l’angoscia mi stava divorando il cuore. L’edificio aveva una forma circolare, aveva una sala esterna, ed era decorato da grandi vetrate da cui si potevano vedere delle graziose tende aperte. Si trovava in piena zona residenziale. L’insegna marrone recava la scritta Da Roberto a caratteri cubitali, che risaltava sul bianco del tetto. Dei vasi circondavano tutto il perimetro, pieni di grandi e verdissime piante. La pavimentazione esterna si alternava in giochi di forme geometriche quadrate in toni bordeaux. A prima vista sembrava che il locale fosse deserto. Beh, chi è che andrebbe a mangiare una pizza alle dieci del mattino? Qualcuno come me, forse pensai.

    Elisa parcheggiò in prossimità di un piccolo spiazzo che ospitava un malconcio girello decentrato e uno scivolo consunto che era stato pasticciato con un pennarello, spense il motore ed iniziò ad osservarmi.

    «E con questo sei in ritardo di dieci minuti» disse, indicando il pannello digitale alla destra del volante. «Dai, andiamo».

    La mia amica aprì lo sportello ed uscì fuori. Afferrai la borsa e abbandonai il veicolo a malincuore, poi ci dirigemmo verso l’entrata.

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