Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Lo sguardo di mio padre
Lo sguardo di mio padre
Lo sguardo di mio padre
E-book406 pagine6 ore

Lo sguardo di mio padre

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Lo sguardo di mio padre racconta il percorso di crescita di tre giovani amici milanesi, Annie, Luca e Fede, dando voce alle emozioni profonde e alla trasformazione cruciale da ragazzi in adulti, gettando luce su quanto accade nella sfera privata – e talvolta segreta – della mente e dell’animo di ognuno. Coniugando magistralmente gli elementi del romanzo di formazione e della storia d’amore con un pizzico di mistero, Daniela Tonoli dà voce a una generazione, quella dei trentenni, e lo fa con delicatezza e spessore restituendone la reale autenticità.

Daniela Tonoli nasce a Milano nel 1988 in una notte di tempesta, all’inizio dell’estate. Cresce con la curiosità per le storie non raccontate, i luoghi inesplorati e le sfide impossibili. Sperimenta così contesti differenti in un crocevia di esperienze. La scrittura e l’ascolto di storie e di personaggi sono stati lo sfondo sempre presente nelle varie fasi della sua vita, dal liceo ai campi di pallavolo, dalla laurea in ingegneria alla consulenza sui rischi naturali, dal volontariato alla maternità.
Nel 2020 ha contribuito al progetto editoriale de Il Saggiatore I giorni alla finestra - Racconti da un tempo sospeso, con un testo selezionato per l’anteprima dell’opera.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2022
ISBN9788830673786
Lo sguardo di mio padre

Correlato a Lo sguardo di mio padre

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Lo sguardo di mio padre

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Lo sguardo di mio padre - Daniela Tonoli

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i quattro volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    1

    Milano - 24 luglio 2008

    Mio padre era Capitano di Fregata: indossava la sua uniforme anche la domenica per ricordare a noi ragazzi e a tutti i vicini che lui era un vero uomo. La Marina Militare era il suo orgoglio o, ancor meglio, la sua vita, così come era al tempo stesso la spada di Damocle che pendeva sulla nostra testa. Se sei figlio di un Capitano di Fregata dovrai diventare almeno un Tenente di Vascello e magari anche qualcosa di più, dovrai indossare la tua uniforme ogni giorno ed essere l’orgoglio di tuo padre … io da piccolo soffrivo il mal di mare.

    Ebbene sì: sono il secondo figlio maschio di un ufficiale di Marina e non ho mai indossato una divisa, odio perfino le camicie e non le metterei mai se non fosse per scrupolo di eleganza; ma stavamo parlando di mio padre…

    La sua vita si basava sulle abitudini acquisite all’Accademia Navale di Livorno e dolcemente smussate, dopo anni di sforzi, dalla donna più paziente che il mondo abbia mai conosciuto, mia madre. Perché l’avesse sposato, sinceramente, non l’ho mai capito bene: certo da giovane era veramente un bell’uomo, ma il suo carattere ci voleva coraggio a sopportarlo! Può sembrare lo sfogo esagerato di un figlio adirato perché il padre non lo ha lasciato andare in discoteca, ma la mia vicenda è molto diversa: per raccontare mio padre posso solo parlare di me bambino, innocente vittima di una mania per la disciplina. Alla veneranda età di quattro anni ho imparato a marciare, mio padre diceva che avrebbe rinforzato i muscoli e fatto di me un vero uomo: non vi racconto quante volte sono caduto nel tentativo di tenere lo sguardo fisso all’orizzonte invece che guardarmi i piedi. A dieci anni ho sparato per la prima volta, a tredici l’ultima: appena ho avuto la forza di oppormi a quella tortura, l’ho fatto. Odiavo la caccia, odiavo il fucile, odiavo tutto ciò che riguardasse la crudeltà e la violenza: mio padre mi disse che sarei diventato una mezza femmina, queste furono le sue testuali parole. Non sono diventato il figlio che mio padre desiderava, e forse non sono nemmeno diventato l’uomo che io desideravo.

    Dicono di me che sono simpatico, affabile, socievole, allegro, spensierato e incosciente, forse sono tutte cose vere, ma c’è molto di più di ciò che può apparire a un primo incontro. Sono cresciuto con l’etichetta del ribelle stampata in fronte, tutti avevano scritto il mio futuro e io ho deciso di andare fuoristrada.

    Fin da piccolo a scuola non sono mai stato il primo della classe, ma quello che se la cava, ai cui genitori non si fa che ripetere: ah se studiasse un po’ di più…. Nonostante ciò, anno dopo anno, sono arrivato alla maturità senza problemi. Chi l’avrebbe mai detto che uno come me un giorno avrebbe potuto mettere piede in un’università se solo qualcuno gli avesse pagato gli studi.

    Mia madre, da piccolo, mi diceva che per conquistare una donna occorre un buon sorriso e una storia da raccontare e questa io l’avevo di sicuro… A quattordici anni sono scappato di casa per la prima volta, il perché non lo so bene: in qualche modo volevo dimostrare a me stesso che ero un duro. Certo non sono andato molto lontano, ma ci sono voluti tre giorni prima che mi trovassero! Sapevo che mio padre non avrebbe mai chiamato la polizia: sarebbe stato un affronto che la notizia fosse pubblica. Così mi ha facilitato di molto la latitanza, in più la ragazza di mio fratello è stata molto gentile ad ospitarmi! Le donne hanno sempre avuto un debole per me, fin da adolescente mi divertivo un mondo se capivo di piacere a una ragazza, poi, crescendo, sono diventato un Casanova senza alcuno scrupolo morale. Non mi interessava se potevano restarci male quando dopo una sola notte sparivo, non mi interessavano le loro storie, i loro pensieri, per quanto assurdo possa sembrare volevo solo sentirmi uomo. Fra gli amici ormai ero considerato un figo, ma in famiglia niente, ero sempre quello che non voleva sparare, idea che almeno condividevo con la mia sorellina, restia quanto me nei confronti di quegli strumenti di morte, ma per sua fortuna mai costretta a imbracciarne uno.

    E così continua la mia vita fra serate al pub o in discoteca e qualche lavoro saltuario per potermi mantenere e pagare l’affitto della stamberga in cui vivo dalla maggiore età. Mio padre non lo sento quasi mai, fanno eccezione giusto le feste comandate e il compleanno della mia sorellina.

    Appoggiai la penna sul tavolo, avevo impiegato più di un’ora per scrivere quel foglio e poi sentirmi completamente svuotato. Il mondo che rinchiudevo dentro di me era fuoriuscito tutto all’improvviso, cose che mai avrei pensato di dire avevano trovato spazio su quel foglio di carta. Decisi di farmi un caffè, così giusto per tentare di ripigliarmi un po’, ancora non mi capacitavo che quella ragazza fosse riuscita a convincermi.

    «Mi fai un favore?», mi aveva domandato con i suoi occhioni dolci ed io, senza neanche cautelarmi un minimo, avevo risposto sinceramente che per lei avrei fatto di tutto.

    «Dai, visto che non mi dici mai nulla, prendi un pezzo di carta e scrivi tutto ciò che ti viene in mente su di te, vedrai parlerai di tuo padre».

    Come aveva fatto a indovinare? Annie non era una ragazza come le altre, lo pensavo ogni giorno di più. Ormai erano parecchi anni che ci conoscevamo e fra noi non c’era stato mai neanche un bacio: non che fosse brutta o antipatica, ma non avevo mai voluto seriamente conquistarla, era troppo per me … e va bene, non esageriamo: pensarci ci avevo pensato spesso, ma temevo che quel delicato filo rosso fra noi avrebbe potuto spezzarsi e non volevo perdere quell’amica. La regola dell’amico: quante volte avevo ascoltato quella canzone prima di uscire con lei! Speravo in tal modo di convincermi che era l’idea migliore: avevo rovinato molte amicizie con quel mio atteggiamento da Don Giovanni.

    Ora però dovevo spicciarmi, Annie se la sarebbe presa per il ritardo e poi avrei dovuto inventarmi qualcosa per farmi perdonare. Doccia veloce, jeans e maglietta e via in moto più veloce del vento.

    19.29 un minuto di anticipo! Mi sentivo come uno scolaretto il primo giorno di scuola con il compito in mano e la paura per il giudizio dell’insegnante. Quanto era lunga quell’attesa: i secondi diventavano minuti, i minuti ore fino a quando: eccola!

    «Ciao Lu, come va?».

    «Ciao bimba, tutto bene». Perché mento? Perché non le dico che mi sento stanco morto, che mi sembra di aver corso per un giorno intero?

    «Eppure sembri un po’ stanco, sicuro che sia tutto ok?».

    Ecco mi becca sempre, eppure non mi cresce il naso.

    «Sì, sì, non ti preoccupare solo un po’ di sonno. Allora cinema o parco?».

    «Parco così facciamo due chiacchiere…».

    Mi condusse mano nella mano fino a un prato costellato di numerosi faggi e disse: «Scegli l’albero che preferisci, oggi non ho voglia di stare al sole».

    Ci sedemmo sotto un albero sufficientemente frondoso e chiacchierammo del più e del meno senza il minimo accenno al mio grande sforzo di quella giornata. Quando il sole iniziava a nascondersi dietro le cime dei palazzi in lontananza, capimmo che era giunta l’ora di tornare verso le nostre abitazioni e fu solo allora che si decise a dirmelo: «Sai Lu ci tenevo molto a passare questo pomeriggio con te perché per un po’ di tempo non ci vedremo, forse avrei dovuto parlartene prima, ma poi avremmo trascorso ogni minuto insieme con il pensiero della mia partenza e non sarebbe stato più così divertente».

    Si prese una pausa come se cercasse nel cielo il gobbo del suo discorso e, intanto, percepivo ogni mio muscolo irrigidirsi, dentro di me ero tutto un tremito e volevo urlarle i miei pensieri: come parti?! Dove vai? Per quanto? Quando torni? Perché mi lasci? Con chi vai via? Da quanto hai deciso di andartene? Perché mi fai questo? Ma dalla mia bocca uscirono solo parole calme e pacate: «Dai continua, ti ascolto».

    Non sapevo nemmeno io come fossi riuscito a placare quel terremoto di emozioni e pronunciare una frase così stupida, ma lei parve non accorgersene e continuò: «Ho ricevuto un’offerta di lavoro. Beh in realtà l’ha ricevuta mio padre: sai le amicizie giuste, i vari scambi di favori e così mi manda a Udine a lavorare presso uno studio di avvocati come segretaria. Si occuperanno loro di trovarmi un alloggio e garantirmi la possibilità di continuare i miei studi con orari di ufficio flessibili. Credo tu possa capirmi quando ti dico che non potevo certo rifiutare: non è il sogno della mia vita, ma avrò l’occasione di andarmene di casa, diventare un po’ più indipendente, guadagnare qualche soldo e così via, mi capisci, vero?».

    «Ti capisco? Sì, certo non ti preoccupare», risposi come un automa «poi non è così lontano, potrei quasi venirti a trovare di tanto in tanto. Ora avviamoci che si sta facendo tardi, ti accompagno a casa, ma quando parti?».

    «Domani», disse mentre mi regalava un bellissimo sorriso.

    2

    Udine - Un nuovo inizio

    Ambientarsi nella nuova città non era stato per nulla facile: Annie si era trovata catapultata da un giorno all’altro in un mondo di avvocati affermati, che stavano tutto il giorno in panciolle dietro le loro imponenti scrivanie di noce. I compiti che doveva svolgere in ufficio non erano difficili e in più aveva l’occasione di accumulare un sacco di esperienza su casi legali di discreta importanza, insomma quelli che a un neolaureato non sarebbero mai stati affidati. Di solito mentre batteva a computer le arringhe dell’avvocato De Marchi, si chiedeva cosa avrebbe detto lei in aula, come le sarebbe piaciuto impostare la difesa… dopo tutto fare legge non era stata una scelta così folle, certo non era sua, ma in fondo non le dispiaceva, c’era solo una cosa che la turbava sempre più spesso: non c’era mai nessuno che si chiedesse se i loro clienti fossero innocenti o colpevoli, né avvocati, né segretarie. Li difendevano, e anche bene, e certo nessun crimine era grave, ma a lei sarebbe piaciuto sapere se quegli uomini erano o non erano evasori, falsari, traditori.

    Tutto sommato però la vita d’ufficio procedeva alla grande e ora che erano ripresi i corsi in università aveva occasione di conoscere un po’ di ragazzi della sua età, farsi nuovi amici e uscire qualche sera ricordandosi così di avere solo ventidue anni.

    In quella città il tempo correva: fra lavoro, studio e uscite con gli amici non aveva più un momento libero e così le ferie diventavano un miraggio. Le mancava la sua famiglia, gli amici di Milano, la sua casa, ma poi si diceva che a Natale vi avrebbe fatto ritorno, così tirava avanti un’altra settimana.

    Le vacanze arrivarono, ma Annie non tornò a casa: i suoi genitori erano venuti a Udine per vedere come si era sistemata e far visita ad altri parenti lì vicino. Fu una gran festa con musica e balli, ebbe l’occasione di conoscere altri lontani cugini con cui decise di andare in vacanza nei giorni successivi. Qualche giorno in Austria a sciare con quei disperati la ripulì da ogni fatica dei mesi precedenti e così poté presentarsi ai primi di gennaio in ufficio più fresca che mai: aveva voglia di riprendere, sperava che qualcuno dei soci dello studio prima o poi le chiedesse delle opinioni a riguardo di qualche caso, erano già stati così gentili ad aiutarla con i primi esami che non le pareva cosa così impossibile.

    Eppure il primo giorno di lavoro aveva come una strana sensazione: era convinta di essersi scordata qualcosa di importante e così ricontrollò minuziosamente tutto ciò che aveva fatto senza trovare alcun errore, no, doveva essere qualcos’altro. A pranzo un suo compagno di corso la invitò in pizzeria, il posto era carino, dava sulla strada, ma la verandina ricoperta di glicine, ora spoglio, lo isolava dal traffico e all’interno era ben curato e spazioso. Si diressero verso il cortile interno, dove una ragazza bionda con gli occhi neri come la pece li fece accomodare e portò loro un voluminoso menù. Il suo gentile accompagnatore, Mattia, sprofondò nella lettura delle varie pietanze mentre lei sapeva già che avrebbe preso una semplice margherita.

    «Vada per la margherita», le disse, «sai leggo sempre tutte le pizze, ma poi non so scegliere che la prima dell’elenco!».

    Il suo sorriso era genuino e gentile, ma il viso di Annie si incupì in un misto fra tristezza e dolore: LUCA!

    Come aveva potuto dimenticarlo?! Nell’ultima mail glielo aveva promesso, poi tutti i suoi programmi erano cambiati e lei si era scordata del suo migliore amico. Non poteva essere! Chissà quanto c’era rimasto male, cosa poteva fare ora?

    No, era da cancellare quell’idea che sorgeva spontanea dal profondo del suo cuore di mollare tutto e andare a trovarlo, no, non era proprio possibile. Gli aveva promesso che sarebbe passata a trovarlo durante le vacanze di Natale, gli aveva anche raccomandato di non scrivere, né chiedere nulla che un giorno si sarebbe presentata all’improvviso e lui fedele a quella promessa non si era più fatto sentire.

    «Tutto bene?», chiese Mattia con un velo di preoccupazione nella voce: «Posso fare qualcosa?».

    «No, no, non ti preoccupare: mi sono solo ricordata di una cosa importante che dovevo fare. Allora mi stavi parlando del caso Larkin: com’è che sono riusciti a farlo assolvere quel manigoldo?».

    La conversazione riprese come se nulla fosse accaduto e il pranzo terminò fra i dubbi di Mattia, il sorriso forzato di Annie e la fortuna di un mascalzone che era riuscito a spacciare erba per qualche anno per poi sostenere che vendeva solo margherite.

    Quella sera Annie non riuscì ad addormentarsi, ma non ebbe nemmeno la forza di comporre quel numero sul suo cellulare, non poteva sentire la voce del suo migliore amico che si sforzava di non apparire troppo deluso. Le avrebbe detto che non era nulla, che non doveva preoccuparsi, ma lei sapeva la gravità di quella sua mancanza, così come sapeva che non chiamarlo era ancora peggio. Da quando era partita si erano sentiti sempre meno: all’inizio si scrivevano tutti i giorni, lui chiamava spesso dicendo che voleva sentire la sua voce, poi mail e squilli si erano diradati e ora Annie temeva di aver dato il colpo di grazia a quell’amicizia. Alla fine decise di scrivere un’anonima mail, sapeva che era una fuga dal suo dovere, ma di più non riusciva proprio a fare.

    Ciao Lu, come va? Come sono andate le vacanze? Spero ti sia divertito con i tuoi amici, sai per caso come sta Federico?, quanto tempo fosse che non parlavano più di Fede non riusciva proprio a ricordalo, Ti devo delle scuse, appena prima delle feste ogni mio programma è saltato, sono venuti qui i miei genitori e poi sono stata via qualche giorno con alcuni cugini che non vedevo da un sacco di tempo. Purtroppo non ho avuto tempo di venire a Milano e ancora più imperdonabile è stato non averti nemmeno avvertito, mi perdoni? Mi manchi e la voglia di vederti cresce ogni giorno di più! Baci

    Era vero che le mancasse così tanto? Iniziava quasi a dubitarne: in fondo, se si era dimenticata di lui, non doveva nemmeno soffrire molto per quel distacco obbligato. Non era forse che tagliando ogni legame con Luca avrebbe finalmente dimenticato anche Fede? Tutti questi pensieri attanagliavano la mente di Annie al punto che l’unica possibilità era gettarsi a capofitto nel lavoro per non lasciare al suo cuore il compito di indicare alla mente la strada giusta.

    Nei giorni successivi ricevette numerose lodi dagli avvocati dello studio, stupiti dalla sua efficienza e prontezza nello svolgere i compiti che le venivano assegnati. Iniziarono così a considerarla come un futuro avvocato e, incoraggiati dai suoi risultati in università, decisero di affidarle anche qualche piccola ricerca utile per organizzare alcune difese. Finalmente non era più solo una scribacchina!

    Ogni ricerca che le veniva affidata era svolta con tale dedizione da ricevere sempre un elogio da parte dei suoi superiori: per la prima volta Annie era convinta di voler divenire un avvocato e in qualche modo iniziava a capire che forse era meglio non essere certi dell’innocenza del cliente invece che provarne la colpevolezza. Tutto procedeva allegramente sia in ufficio che in università, usciva spesso con Mattia che sembrava farle una velata corte, aveva alcune amiche cui teneva molto e iniziava a parlare con quel buffo accento friulano. Fu proprio dopo una serata al cinema con Tia che lesse quella strana mail. Luca aveva lasciato trascorrere quasi due settimane prima di rispondere e non è che si fosse sprecato:

    "Quando passerai di qui ti aspetto, baci Luca

    P.S. con Fede usciamo di tanto in tanto, è sempre il solito giocherellone".

    Cosa volevano dire quelle parole? Perché usciva con Federico? Luca era solito scrivere mail lunghe e contorte e ora all’improvviso si limitava a due righe striminzite: forse voleva nasconderle la sua delusione. Forse era di fretta, ma non poteva esserlo da due settimane, forse pensava anche lui che la loro amicizia era in crisi. La mente di Annie era di nuovo un caos, i pensieri si sovrapponevano senza requie, paure e speranze si alternavano come giorno e notte in un tempo impazzito in fuga sotto i suoi passi. Aveva abbandonato Milano pensando di dimenticare le serate sui navigli con Fede, voleva cancellare quei ricordi a tutti i costi e in qualche modo si era illusa che non trovandoseli più davanti agli occhi, pian piano si sarebbero offuscati anche nella sua mente. In parte era accaduto: ormai non ci pensava quasi più, ma ogni volta che qualcosa gli ricordava quel ragazzo era una fitta al cuore. Non era un caso se non si era più innamorata di nessuno, non aveva nemmeno voluto tentare: uscite e inviti ce n’erano stati, ma appena la cosa poteva farsi seria, fuggiva. In questo il lavoro era la sua salvezza: le lasciava troppo poco tempo per impegnarsi e abbastanza per divertirsi di tanto in tanto, alla fine doveva essere proprio grata a suo padre, quell’offerta era stata per lei come un nuovo inizio.

    Con il passare dei mesi Annie si era ormai abituata alla sua nuova vita e i ricordi erano sempre più labili e insapori, nella sua camera ora c’erano solo foto di nuovi amici friulani e i milanesi dormivano tranquilli sul fondo di un cassetto leggermente impolverato.

    3

    Milano - Io e Fede

    Quel giorno ero tornato a casa con la certezza che non avrei rivisto la mia amica: non volevo dirlo ad alta voce perché sarebbe divenuto reale ma, in fondo al cuore, ne ero convinto. Andarla a trovare mi sarebbe costato solo quattro o cinque ore di viaggio, ma era lei ad essersene andata e, qualora avesse voluto, sarebbe stato più corretto fosse lei a tornare.

    «Sì, di questo ero certo, io, Luca Righieri, non mi sarei mosso finché non fosse stata lei a chiedermelo». E così passarono mesi nell’attesa e nella speranza che qualcun altro facesse la prima mossa.

    Dal 24 luglio 2008 non è passato un giorno senza che io non pensassi a Annie: mi dispiaceva se ne fosse andata e mi mancava parecchio. Ecco, non sono il fissato che pensa 24 ore su 24 a una ragazza, ma confesso che prima di addormentarmi spesso le mie labbra si schiudono appena mormorando: «Buonanotte piccola».

    All’inizio la sentivo spesso e mi faceva anche piacere, ma poi avevamo cose troppo diverse da raccontarci e così ci siano allontanati in tutto e io ho ripreso a vivere esclusivamente la mia vita. Pian piano ho ricominciato a uscire con Federico, comprendendo quanto fosse assurdo e folle il mio rancore verso di lui: è vero aveva fatto soffrire Annie, ma aveva anche lasciato la strada libera e non ne avevo approfittato. Ci siamo ritrovati un po’ per caso, quelle cose un po’ da film: una sera lo riconosci in un locale, ci si saluta, si fa due chiacchiere e si dice: «Dai allora ci rivediamo? Non mi va di perderti per un altro anno».

    Di solito finisce tutto lì e chi s’è visto s’è visto, questa volta invece mi ha richiamato e non ci siamo più dimenticati. Ogni venerdì esco con Fede, cosa si fa non importa poi molto: cinema, birra, disco, caccia …, va bene tutto purché ci si diverta. Ho imparato così ad apprezzare alcuni lati del suo carattere che l’invidia mi aveva tenuto segreti e ci siamo riscoperti molto simili. Certo fisicamente non c’è confronto, io biondo con gli occhi azzurri, lui scuro di capelli e di pelle e con gli occhi neri, che celano un animo profondo e irraggiungibile. Per quanto riguarda altezza e corporatura ci assomigliamo abbastanza, ma di sicuro nessuno potrà mai scambiarci per fratelli. Se consideriamo il carattere invece siamo entrambi tipi esuberanti ed estroversi all’apparenza che sembrano sicurissimi di sé e poi possono affogare in un bicchier d’acqua. Sarà per questi aspetti in comune che, seppelliti gli antichi rancori, ce la si intende a meraviglia. In questo periodo ne abbiamo passate tante insieme che ogni tanto le ripetiamo a noi stessi solo per farci due risate davanti a un boccale di birra.

    Una sera siamo andati insieme all’Old Fashion con due ragazze con cui si usciva da qualche giorno, poi siamo tornati la mattina dopo con loro tutti un po’ storditi dall’alcool e dal sonno, beh il colmo è stato che solo nel pomeriggio scaricando le foto della serata ci siamo accorti che le ragazze con cui eravamo usciti non erano le stesse con cui avevamo fatto ritorno: abbiamo riso per tutto il giorno e Fede ha tranquillamente commentato: «Almeno ti sei ricordato di non cambiare il tuo migliore amico!».

    Quella frase un anno prima sarebbe suonata più assurda che mai e ora era così! Decidemmo anche che il nostro comportamento era troppo immaturo e così il venerdì dopo fu dedicato a un’impossibile sfida a Subbuteo.

    Fra serate e lavoretti saltuari arrivò Natale che portò con sé una mail di Annie in cui mi informava che sarebbe venuta a Milano e sicuramente sarebbe passata a trovarmi. La notizia mi lasciò un po’ incredulo, ma subito dopo iniziai a fantasticare come un bambino; mi chiedevo come mi sarei comportato al nostro prossimo incontro, come si sarebbe vestita, il colore delle sue scarpe, il calore del suo abbraccio, le sue prime parole, tutte quelle cose che ti immagini creandoti il tuo bel castelletto e poi arriva un mago cattivo con un lungo ago che fa scoppiare tutto. A te cosa resta? Sicuramente il tuo sogno, le emozioni di quell’attesa e una bella dose di acqua gelata in faccia: quando ho realizzato che Annie non sarebbe venuta non ero deluso, ero vuoto.

    Per un paio di giorni nulla ha potuto attirare la mia attenzione: nessun pensiero si componeva nella mia mente. Ero lì: mangiavo, dormivo, uscivo con gli amici, ma non provavo alcuna emozione. In genere sono un tipo incazzoso, quello che se gli fai un graffio alla macchina ti grida dietro di tutto e ci manca poco alle mani, ma quella volta ero serafico: qualcosa nel profondo di me voleva ricordarmi semplicemente che avevo ragione, lo sapevo, l’avevo sempre saputo, eppure mi ero illuso…che stupido che sono.

    Non importa, inutile rivangare un episodio doloroso, meglio girarsi dall’altra parte e continuare a correre sui binari della propria vita, magari prima o poi deraglierò nuovamente sui suoi. La sera dopo chiamai Fede, anche se non era venerdì, lo invitai fuori a cena perché avevo bisogno di parlargli: le curiosità che fino a quel momento avevo taciuto volevo levarmele. Gli diedi appuntamento in una pizzeria nella zona di San Siro dove lavorava un mio amico, così ebbi il privilegio di un tavolo abbastanza isolato, che apparecchiavano solo di rado per la sua scomoda posizione. Ritardò di tredici minuti esatti, quell’uomo è sempre stato incredibile: mi aveva avvisato che sarebbe arrivato con tredici minuti di ritardo e così fu.

    Uno normale avrebbe scritto sul messaggio, che so: sono in ritardo, arrivo fra dieci minuti, oppure: scusa, ti prometto che in un quarto d’ora sono lì, ma d’altronde Fede non era uno normale. Si scusò per il disguido che lo aveva fatto ritardare di ben tredici minuti mentre il cameriere ci portò la lista. Diede un’occhiata veloce per poi scegliere una Capricciosa Rossa, un misto di prosciutto cotto, carciofi, olive e funghi. Da parte mia lessi con calma tutto l’elenco, cercai di capire cosa potesse ispirarmi quella sera e poi, come sempre, chiesi una Margherita. Vedendomi silenzioso fu lui a dare il via alla conversazione: «Allora Luca», disse con tono canzonatorio «a cosa devo questa cenetta romantica?».

    Lo guardai in silenzio, dovevo sembrare serio perché continuò con un tono leggermente allarmato: «Cos’hai? È successo qualcosa? Non è da te quella faccia contrita, non sembri triste, ma giurerei che hai qualcosa in mente. Dai Luca sono qui, sarò il tuo testimone, interrogami a tuo piacimento e ti giurò che dirò la verità, sempre e solo la verità!». Non era capace di non scherzare, ma mi stupì quell’allusione al linguaggio giuridico, come se già sapesse di cosa volevo parlargli.

    Trovai finalmente il coraggio per domandare: «Perché hai lasciato Annie?».

    In quei mesi non ne avevamo mai parlato, perlomeno noi due, ed ebbi la certezza che quella domanda non se l’aspettava proprio. Ora anche il suo viso si era fatto serio e le sopracciglia avevano assunto una piega innaturale, come se pensasse proiettando delle immagini nella sua mente. Poi, con tono sereno, iniziò la sua risposta, non mi chiese nemmeno il perché della domanda, semplicemente esaudì la mia richiesta: «È stato una sera di tanto tempo fa, saranno passati quasi due anni credo, eravamo andati in un locale in zona Caiazzo e appena usciti le dissi che fra noi era finita. Il mio tono allora come oggi era tranquillo e fermo, come se stessi rivelando una legge divina. Mi ero preparato quel discorso a lungo per non avere tentazioni, le dissi che non si poteva più andare avanti, che io non lo volevo, che qualcosa si era spezzato. Sulle prime non capì, si vedeva che voleva pormi mille domande, ma il suo orgoglio di donna ferita non glielo permise. La riaccompagnai a casa in un profondo silenzio e per qualche giorno quello fu l’unico rumore nei nostri discorsi. Dopo un po’ quando lei ritrovò la forza di chiedere ed io il coraggio di parlare, le dissi che l’avevo tradita, che non chiedevo il suo perdono e che non avrei mai potuto continuare una storia con quel peso sulla coscienza, che mi sarei sempre sentito inadatto; probabilmente mi avrebbe perdonato perché mi amava, ma fui io a impedirlo… e questo è tutto».

    Rimasi in silenzio per qualche secondo per dargli modo di ricacciare indietro quei ricordi, ma poi non riuscii a trattenermi: «No, questo non è tutto», dissi con la sicurezza di chi sa «qual è il motivo che nascondi?».

    Non so come il mio tono potesse essere sicuro nonostante non avessi la minima coscienza di ciò che dicevo, ma il trucco funzionò e lui riprese: «Vedo che mi conosci bene. Effettivamente non le dissi tutto, non le dissi mai che mi ero sentito bene quando l’avevo tradita, mi ero sentito libero e colpevole non del gesto, ma di quella sensazione: volevo sentirmi di nuovo così. Era un periodo che discutevamo per ogni cosa: come organizzare la serata, perché non ero andato a prenderla e altre vicissitudini da nulla e io, egoista, avevo voglia di volare libero da quel legame. A volte mi chiedo se non l’ho tradita per avere un pretesto per lasciarla».

    «Capisco», fu il mio unico commento, non pensavo si confessasse così con me, forse quel segreto gli pesava e non vedeva l’ora di condividerlo con qualcuno e io, noto Don Giovanni, potevo certamente comprenderlo.

    «Non te ne sei mai pentito?», gli chiesi, accorgendomi subito dopo di quanto fosse infida quella domanda.

    «Non ti so rispondere: a volte ci penso e mi sento uno smidollato, altre sono convinto che sarebbe comunque finita poco dopo, ma dimmi un po’ come mai ‘ste domande oggi?».

    «È che Annie mi ha dato buca, doveva venirmi a trovare per Natale e non si è fatta vedere né sentire se non per una squallida mail di scuse in cui mi chiedeva

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1