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Un nemico di parole: Basato sulla storia vera di Gerhard Kurzbach
Un nemico di parole: Basato sulla storia vera di Gerhard Kurzbach
Un nemico di parole: Basato sulla storia vera di Gerhard Kurzbach
E-book92 pagine1 ora

Un nemico di parole: Basato sulla storia vera di Gerhard Kurzbach

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Il libro è basato sulla storia vera di Gerhard Kurzbach, sottufficiale della Wehrmacht, il quale durante la seconda guerra mondiale salvò la vita a duecento ebrei polacchi, nascondendoli nelle officine di riparazioni meccaniche per veicoli militari di Bochnia, città del Governatorato Generale di Polonia.
Grazie alle testimonianze dei sopravvissuti, il 19 dicembre 2011, Yad Vashem, l'Ente israeliano per la Memoria della Shoah, lo insignì dell'alta onorificenza di Giusto fra le Nazioni.
«Basterebbe un solo tedesco buono, e questo tedesco meriterebbe di essere difeso, perché grazie a lui non si avrebbe più il diritto di riversare l'odio su un popolo intero». Etty Hillesum, scrittrice olandese ebrea (1914-1943).
Vincitore della XXIX Edizione del Premio Letterario Belli, indetto dall'Accademia Giuseppe Gioachino Belli di Roma (2017).
LinguaItaliano
EditoreStreet Lib
Data di uscita1 mag 2024
ISBN9791223035641
Un nemico di parole: Basato sulla storia vera di Gerhard Kurzbach

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    Un nemico di parole - Davide Napolitano

    CAPITOLO 1

    A un passo dalla caduta

    Il futuro è la svastica,

    il Reich la nostra patria,

    il Führer la nostra guida:

    «Sieg um jeden Preis!».

    Balliamo ignari sotto la forca.

    La mattina del 5 marzo 1943 la temperatura era sotto lo zero. Il sottufficiale della Wehrmacht, Gerhard Kurzbach, comandante all’officina di riparazioni dei veicoli militari (HKP) di Bochnia, città del Governatorato Generale della Polonia, distante 45 km sudest da Cracovia, chiuse la porta dell’ufficio con il morale appesantito dalla lettura di un articolo pubblicato sul Völkinscher Beobachter, il giornale ufficiale del Partito Nazista, fondato nel 1920 da Alfred Rosenberg, intellettuale antisemita.

    In Baviera, la Gestapo di Monaco aveva arrestato alcuni dei membri della Rosa Bianca, studenti cristiani, poco più che ventenni, ariani: Hans e Sophie Scholl, Christoph Probst, Willi Graf, Alexander Schmorell e il docente universitario Kurt Huber. Formalmente incriminati e processati dal Völksgerichtshof, il Tribunale del Popolo, in realtà tribunale speciale penale competente per i reati politici contro il regime nazista, erano stati riconosciuti colpevoli delle accuse di tradimento, incitamento al sabotaggio dello sforzo bellico e degli armamenti, rovesciamento dello stile di vita nazionalsocialista, propaganda di idee disfattive e diffamazione del Führer, prestando così aiuto ai nemici del Reich. Il giudice penale Roland Freisler, uomo di legge dall’atteggiamento aggressivo e mortificatore, li condannò a morte per decapitazione.

    Nel periodo in cui il sottufficiale Kurzbach aveva prestato servizio nei reparti d’artiglieria della Panzer Division della Wehrmacht, alcuni dei membri della Rosa Bianca erano stati soldati partecipi alla guerra sul fronte occidentale, probabilmente si erano incontrati nella campagna militare di Francia, combattuta sulle colline delle Ardenne e lungo il fiume Mosa, durante le operazioni militari Fall Gelb e Fall Rot, nel maggio e giugno 1940.

    I volantini stampati clandestinamente dalla Rosa Bianca e lasciati nei luoghi più frequentati di Monaco tra il giugno 1942 e il febbraio 1943 avevano suscitato forte trambusto a causa del loro contenuto, uno dei quali recitava pressappoco così: «Fate resistenza passiva, resistenza ovunque vi troviate; impedite che questa atea macchina da guerra continui a funzionare, prima che le città diventino un cumulo di macerie».

    Quegli studenti universitari possedevano un cuore tenero e uno spirito forte, avevano avuto l’ardire di rinnegare e condannare il regime nazista, ma l’anonimato non era bastato a proteggerli da informatori civili e agenti della Gestapo. Nel cuore della notte erano stati arrestati, introdotti nel Palazzo di Giustizia in Karlsplatz e lì interrogati.

    In Germania e nei territori dell’Europa occupata dai nazisti, chiunque era a conoscenza dei metodi d’interrogatorio della polizia segreta, tuttavia se incalzati da domande difficili ci si sentiva rispondere di non sapere: «Nie wiem». Mentire e non essere biasimati.

    La tortura era una pratica largamente utilizzata che poteva protrarsi per giorni interi. Trovarsi in una stanza cieca, umida e malamente illuminata di un seminterrato, con le caviglie e i polsi legati a una sedia oppure a una brandina, una dattilografa seduta alla scrivania in penombra, da due a cinque agenti della polizia segreta che pretendevano solo una cosa: una confessione di colpevolezza da verbalizzare, firmare e protocollare subito. Chiunque avrebbe confessato qualsiasi crimine, innocente compreso.

    Adesso i membri della Rosa Bianca erano morti.

    I topi non possono schiacciare la testa del serpente.

    Talvolta, però, le azioni sopravvivono agli attuatori.

    Non ci furono lacrime né sconfitta a segnare i loro volti, accolsero la morte senza che le ginocchia cedessero o i passi incespicassero negli scalini del patibolo eretto nella Marienplatz, dinanzi la Mariensäule, a Monaco.

    La Rosa Bianca era il solco che delimitava il confine tra uomini liberi e uomini asserviti.

    Il cuore può smettere di battere e le persone possono essere zittite per sempre, ma la memoria non può essere arginata né dimenticata; essa è un albero che dà frutti, sta a noi raccoglierli.

    Gerhard spinse il caricatore nella sua sede e infilò la pistola d’ordinanza nella fondina, poi sollevò lo sguardo al cielo plumbeo sopra gli stabilimenti delle officine, e, con occhi vitrei osservò il movimento quasi impercettibile delle nubi rigonfie; era troppo freddo per nevicare.

    Il pensiero di Elfriede, sua moglie, e di Barbara, sua figlia, lo fece sorridere mesto. Viveva per loro, per vederle ancora una volta. Bunzlau era lontana un giorno di viaggio in treno eppure quel cielo grigio, insolitamente silenzioso, accorciava la distanza che lo separava da casa, denudandolo dell’amarezza con mano di donna, della sua dolce Elfriede.

    Casa è dove nascono i ricordi, rimangono sempre dentro di noi.

    Cos’è la vita se non un susseguirsi di decisioni, guardare alle spalle in direzione del passato, a volte non riconoscersi affatto mentre il presente mormora prudenza e il futuro appare incerto. Siamo sballottati da un argine all’altro di un lago, senza apparente appiglio, che in realtà esiste sempre, in ben pochi però abbiamo l’audacia di afferrarlo.

    Cinque minuti prima delle dodici, Gerhard rientrò nell’ufficio. Aveva da poco ultimato i controlli del regime di produzione delle officine, adesso dedicava il proprio tempo ai consueti rapporti da consegnare entro il fine settimana al Dipartimento della Wehrmacht di Cracovia. «Inutili scartoffie burocratiche perditempo», come diceva lui.

    Seduto dietro la scrivania in ebano, la sigaretta stretta tra le dita, la macchina da scrivere di fronte con la fotografia in bianco e nero di Elfriede, che sorrideva felice tenendo in braccio la loro piccola figlia Barbara, Gerhard non immaginava lontanamente ciò che stava per abbattersi contro di lui.

    Quando la caduta è vertiginosa, risalire diventa impossibile.

    CAPITOLO 2

    Ventotto anni prima

    Nato il 12 febbraio 1915 a Posen, pittoresca città dell’Impero Tedesco orientale, edificata sulle rive del fiume Warta, Gerhard non era il figlio primogenito della famiglia Kurzbach, prima di lui nacque Bernhard, il quale morì a soli quattro anni nel gennaio 1915, forse a causa di una polmonite non diagnosticata in tempo. I genitori, traumatizzati dalla prematura perdita, allevarono Gerhard in circostanze sì modeste ma protetto nel contesto di una famiglia di fede cattolica che fornisce stabilità e affetto duraturo.

    Un figlio che in tenera età sopravvive ai genitori è chiamato orfano, un genitore che seppellisce un figlio non viene identificato con nessun aggettivo, rimane semplicemente un padre o una madre.

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