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Quando l'Europa era un campo di prigionia
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E-book398 pagine5 ore

Quando l'Europa era un campo di prigionia

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Info su questo ebook

«Un libro potente sui paradossi, i dilemmi, i danni del nazismo.»
Emily Miller Budick, dell’Holocaust Memorial Museum

Una storia vera

La tragedia delle deportazioni naziste e l’orrore dei campi di concentramento 
La storia di dolore e coraggio di un padre e un figlio accomunati dallo stesso destino

Quando l’Europa era un campo di prigionia narra le storie parallele dei componenti di una stessa famiglia costretti alla fuga dall’avanzata nazista in Europa.
Da una parte il libro di memorie del padre Otto, scritto nel 1941, dall’altra il racconto del figlio Peter, che insieme alla madre ha affrontato un viaggio attraverso la brutalità della Seconda Guerra Mondiale. Ricordi vividi e feroci arricchiti di documenti storici. Gli Schrag erano dei borghesi ebrei tedeschi. Otto fu internato in condizioni esecrabili in un campo di concentramento nel Sud della Francia, ma con l’aiuto di una donna coraggiosa riuscì a fuggire prima dell’inizio dei massicci trasferimenti di prigionieri verso Est. Anche Peter e sua madre scapparono dal Belgio prima dei rastrellamenti e delle deportazioni ad Auschwitz. I due racconti si alternano e si avvicendano, i due punti di vista si accavallano tra storia e memoria, finzione e verità, coraggio e rassegnazione, fino a formare un’unica struggente testimonianza di chi ha attraversato l’orrore, disseminato per tutto il territorio europeo, lo ha guardato dritto negli occhi ed è riuscito a tornare indietro.

Due diari, una sola voce, quella dei deportati
La storia vera che ha commosso il mondo

«Queste memorie padre-figlio ci aiutano a vedere, in modo chiaro, attraverso una nebbia molto fitta e sinistra.» 
Jewish Book World

«Un racconto commovente dell’esilio forzato di ebrei dal Belgio e dalla Francia verso la Germania nazista. Otto Schrag riporta alla luce le dolorose scelte che i profughi hanno dovuto affrontare e le loro strategie di sopravvivenza.»
Anne Grynberg, docente di Storia Moderna
Otto Schrag
(1902-1971) nacque in una famiglia ebrea della borghesia tedesca e fu tra gli ultimi ebrei a ottenere un dottorato di ricerca prima della guerra. Nel 1935 scappò dalla Germania per stabilirsi con la sua famiglia a Bruxelles. Fu arrestato durante l’occupazione del Belgio, e solo dopo essere riuscito a fuggire si trasferì a New York nel 1940, dove scrisse tre romanzi che ebbero un notevole successo. Fece ritorno in Germania nel 1950, quando gli furono restituiti i beni di famiglia sottratti durante il nazismo. 
Peter Schrag
Giornalista e autore di diversi libri. Ex direttore di «Saturday Review», scrive per numerose importanti testate culturali americane.
LinguaItaliano
Data di uscita4 ott 2016
ISBN9788854199989
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    Quando l'Europa era un campo di prigionia - Otto Schrag

    1

    La fine della grande illusione

    Già prima di quel settembre, quando i tedeschi avanzavano attraverso la Polonia e lui aveva trasferito la famiglia dal Lussemburgo a Bruxelles, Hans Licht aveva cercato di reprimere una crescente sensazione di pericolo. Il trasferimento a Bruxelles era stato il secondo in quattro anni: il primo dalla Germania al Lussemburgo nel 1935, poi in Belgio nel 1939. Ancora una volta un nuovo Paese, un nuovo lavoro, una nuova lingua. Nonostante gli avvertimenti dei suoi fratelli, che all’epoca erano già tutti emigrati in America, e ignorando intenzionalmente le ombre minacciose che si addensavano a est, era deciso a non trasferirsi di nuovo. E quella sera di primavera, mentre tornando a casa passava davanti al Ministero della guerra del Belgio, fu parzialmente rassicurato: nel palazzo c’era soltanto una finestra illuminata, dietro la facciata grigia non ferveva l’attività frenetica che si sarebbe aspettato in una situazione di reale pericolo. Soltanto in seguito ricordò la data: il 9 maggio.

    Tutto era silenzioso e tranquillo come nei tempi di pace dopo la chiusura dei negozi. Da qualche giorno i castagni erano in fiore e Licht, con le mani in tasca, fischiettava camminando per le strade sulle sue gambe curve. Nessuno sembrava notare la sua inquietudine interiore. Dominava a tal punto l’arte della dissimulazione che a volte lui stesso non sapeva come si sentisse.

    Ma ora un ricordo inquietante lo angustiava. Una sera, all’incirca un anno prima, quando erano ancora in Lussemburgo, tornando a casa aveva udito la voce flebile e priva di inflessioni della suocera, la vecchia signora Cohn¹, rimasta vedova ormai da un decennio, che parlava con la figlia. Aveva colto subito nel suo tono una strana tensione e si era fermato, trattenendo il respiro, per ascoltare quello che diceva. Riusciva ancora a ricordare quasi tutte le parole.

    «Te lo dico io, Judith, un tramonto come questo significa qualcosa. Significa…». Fece un piccolo sospiro. «Guerra. Oggi il sole era completamente giallo. L’ho visto di quel colore soltanto un’altra volta, nel luglio del 1914. Stai ridendo, ma vedrai che ho ragione. Voi tutti partirete, sarete costretti a farlo, ma non so che ne sarà di me».

    E infatti, poco dopo, con l’invasione tedesca della Polonia, scoppiò la guerra. Licht si trasferì allora in Belgio con Judith e il figlio di otto anni Peter. Poche settimane dopo la signora Cohn li raggiunse.

    Nonostante la dichiarazione di guerra – quella che sarebbe stata presto chiamata la drôle de guerre, la guerra fasulla – la loro vita a Bruxelles continuò come prima. Hitler e Stalin si spartirono prontamente la Polonia, ma il Belgio era formalmente neutrale, mentre la Francia con i suoi alleati britannici e la Germania, i due vicini belligeranti, schierati dietro le loro postazioni fortificate lungo il Reno, non sparavano nemmeno un colpo. Così ogni mattina Licht usciva di casa per recarsi nell’ufficio dove lui e i suoi soci acquistavano e lavoravano il malto per le birrerie e ogni sera rientrava nel suo grande e confortevole appartamento in avenue des Scarabées. La guerra aveva a malapena manifestato la sua presenza, eppure sembrava essere ovunque attorno a loro. Per i belgi era un’ombra minacciosa, qualcosa che si poteva avvertire soltanto in modo vago, ma che altri avevano sperimentato personalmente venticinque anni prima in tutta la sua sanguinosa brutalità. Incombeva soltanto all’orizzonte, a est, mezza dimenticata come un fantasma, qualcosa a cui la maggior parte delle persone si sforzava di non pensare. Ma nelle case dei rifugiati ebrei come Licht non era soltanto un’ombra incombente. Per lui e la sua famiglia non si trattava soltanto della guerra in sé, ma di qualcosa di ben più terribile. Erano i duri volti degli uomini in uniformi grigie, marroni e nere. Erano il rimbombo cupo di stivali sui marciapiedi e i colpi alla porta nel mezzo della notte. Era il ricordo della Kristallnacht. Lo spettro, e a volte il ricordo personale, dei cortili delle prigioni, le celle e i campi di concentramento².

    La maggior parte della gente non era a conoscenza delle reali dimensioni del conflitto; sapevano soltanto di trovarsi faccia a faccia con un inesorabile nemico, e che anche se quel nemico avesse deciso di risparmiare i belgi, i francesi, gli inglesi o altri sul suo cammino, il destino degli ebrei era comunque segnato. Per loro sarebbe stata una questione di vita o di morte.

    Licht pensò ai rifugiati che conosceva. Da molti anni ormai erano sinceramente convinti di appartenere a quel luogo come chiunque altro. Era lì che erano sepolti i loro nonni e bisnonni, che avevano trascorso le loro vite emigrando da un luogo all’altro con tutti i loro averi su un carretto o nelle sacche che portavano in spalla. Le loro lapidi levigate dal vento si ergevano silenti in molti cimiteri ebraici d’Europa.

    Le generazioni più giovani avevano assunto la gestione dei loro negozi, erano diventati avvocati, dottori, professori, artisti, funzionari e uomini d’affari. E quelli che erano emigrati in nuovi luoghi speravano – volevano disperatamente credere – di aver trovato una nuova casa. Pensavano che se le cose fossero volte al peggio, si erano guadagnati la protezione del loro nuovo Paese.

    C’era il suo amico Richard Ams, un tempo uno dei più grandi pellicciai della Germania, che era arrivato con in tasca soltanto diciassette franchi e, dopo aver lavorato sodo, era diventato di nuovo un uomo di successo. Veniva invitato nelle case dei belgi, giocava a bridge con loro e credeva di essere uno di loro. C’erano Lofe, Brust, Veilchenfeld e Spatz, che avevano tutti alle spalle storie simili.

    C’era Licht stesso, che aveva trasferito in Germania la sua società di famiglia per la vendita e lavorazione del malto, e che quando i nazisti l’avevano confiscata e arianizzata, era emigrato in Lussemburgo e poi in Belgio. Ma quegli uomini avevano la stessa robusta stoffa dei loro padri e dei loro nonni? Era questa generazione a dover affrontare adesso la più grande e feroce persecuzione che gli ebrei, vittime di una secolare oppressione, avessero mai subìto.

    Licht camminava lentamente nella luce calante della sera. Restare in Europa era un errore di cui si sarebbe pentito? Doveva emigrare in America come avevano fatto i suoi fratelli? Era abbastanza forte per costruirsi una nuova vita in un altro continente? C’erano migliaia di legami che lo trattenevano in Europa. Aveva una famiglia da mantenere. La sua attività commerciale, i suoi clienti, tra i quali annoverava le migliori birrerie di Francia, Belgio, Lussemburgo e Olanda. Cercò quindi di ignorare le minacce e i pericoli che si profilavano all’orizzonte. Molti altri nella sua situazione si ponevano le stesse domande: devo sradicarmi di nuovo? Riuscirò ancora a trovare l’energia per farlo? Il pozzo della mia famiglia si è prosciugato?

    No, no, è impossibile, si disse Licht. Siamo sempre riusciti a rifarci una nuova vita, anche nelle circostanze più difficili. Siamo già ripartiti da zero due, anche tre volte, non possiamo esserci indeboliti così all’improvviso. Ci aggrappiamo a tutte le piccole cose. Posso restarmene seduto per ore a un tavolino di questo caffè a guardare la gente che passa sorseggiandomi lentamente una birra; posso infilarmi in uno dei tanti bar per parlare con gli amici di libri, d’arte, dei prossimi concerti a Bruxelles o delle nostre famiglie davanti a una buona bottiglia di Borgogna. Abbiamo giardini pubblici, parchi, fontane e un’infinità di altri splendidi posti. Le nostre mogli hanno fatto nuove amicizie; i nostri figli stanno imparando nuove lingue e frequentando nuove scuole. Perché dobbiamo abbandonare ancora una volta un posto dove ci troviamo così bene per ricominciare tutto daccapo?

    Ma appartenevano davvero a quel luogo? È una domanda a cui nessuno ha mai risposto. Nessuno di loro aveva qualcosa di cui lamentarsi. Il Belgio era uno dei Paesi più ricchi, ospitali e cosmopoliti della Terra. Ognuno poteva vivere come voleva. Non c’era il rischio di essere infastiditi dalla polizia, la gente era tollerante e pronta a darsi da fare per gli altri.

    Ma Licht sapeva anche che il governo non aveva ancora preso alcuna decisione sullo status degli immigrati ebrei. I belgi avrebbero permesso loro di diventare a tutti gli effetti cittadini del loro Paese? Per ogni evenienza, Licht aveva portato con sé cinquemila dollari americani. Ma aveva deciso di non pensarci, avrebbe continuato a vivere e lavorare lì. Ho la mia famiglia e non voglio ricominciare di nuovo da zero, pensò.

    L’illusione svanì all’alba. Judith, in piedi davanti a lui, continuava a ripetere: «Fuori stanno sparando», mentre Licht cercava di svegliarsi.

    Quando si alzò, udì le sirene e le esplosioni della contraerea, vide filtrare dalla finestra la luce di una strana alba e si sforzò di aggrapparsi al pensiero che non stava accadendo nulla, che in quei suoni non c’era niente di terrificante, erano soltanto i rumori della vita quotidiana e non l’esplosione dell’inferno che tutti avevano temuto e forse atteso così a lungo.

    «È la guerra», disse Judith. «Di’ quello che vuoi, ma è la guerra».

    Licht accese la radio. Per qualche minuto udì soltanto delle marce militari, poi una voce disse: «Tutto il personale militare belga contatti immediatamente le proprie unità… Seguiranno istruzioni per i soldati in licenza agricola». Nient’altro. E poi ripartì la musica. Licht non avrebbe mai immaginato che quella dichiarazione freddamente burocratica letta da un funzionario di rango minore alle cinque di mattina di venerdì 10 maggio potesse avere risonanze così tragiche.

    Licht e Judith cominciarono a vestirsi. Nel frattempo lui si rese lentamente conto che quella notte era accaduto qualcosa di terribile. Cercò di convincersi che quell’attacco poteva essere il grande errore che tutto il mondo stava aspettando. Forse questa volta Moloch si sarebbe strozzato con il suo sanguinolento boccone.

    Poi la musica alla radio si interruppe di nuovo e la voce disse: «Questa mattina all’alba le truppe tedesche hanno attraversato le frontiere dell’Olanda, del Belgio e del Lussemburgo».

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    Prima pagina del quotidiano parigino «Le Matin», 11 maggio 1940. (Bibliothèque nationale de France)

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    Prima pagina del quotidiano di Bruxelles «Le Soir», 11 maggio 1940.

    Licht chiamò subito il suo amico Van Molenbeck³. L’aveva conosciuto prima di trasferirsi a Bruxelles.

    Erano profondamente vincolati da legami sia di affari sia di amicizia e Van Molenbeck, che era un uomo molto istruito, afferrò subito la situazione. Ma il suo comportamento inaspettatamente freddo diede a Licht motivo di sospettare che anche lì la gente non fosse sempre affidabile. E trovò significativo che proprio quell’uomo dai modi così raffinati, sempre attento alla forma e al contesto e dalle cui labbra aveva sentito per la prima volta la parola boches, fosse ora così distante.

    «Ho pensato a lungo al tuo caso», disse Van Molenbeck. «So che vuoi il mio consiglio. Credo che il nostro esercito e le nostre linee difensive siano abbastanza forti da resistere per qualche tempo. Se fossi in te, non prenderei decisioni affrettate, resterei calmo e rimarrei dove sono, preparandomi ad accelerare i tempi se la situazione volge al peggio. Se dovessero arrestarti, farò tutto quanto è in mio potere per tirarti fuori».

    Licht lo ringraziò, ma non di cuore. «Fatti coraggio, amico mio», gli disse Van Molenbeck mentre si separavano. «Questa volta li batteremo». Furono le sue ultime parole. Licht le avrebbe ricordate a lungo, insieme alla sua stretta di mano. Fu l’ultima che ricevette da un belga.

    Licht si rese conto che quella guerra sarebbe diventata una terribile realtà. La confusione e lo stordimento con cui aveva accolto la notizia cedettero il posto a una frenetica attività. Dall’esterno sembrava calmo, ma dentro di lui era appena crollato un muro. Non poteva restare lì ad aspettare il corso degli eventi. Doveva fare qualcosa. Erano in gioco il suo destino e quello della sua famiglia. Licht immaginò che molti altri immigrati a Bruxelles stessero pensando le stesse cose. I telefoni squillavano e le voci si accavallavano, sospetti non confermati e vaghe paure si intrecciavano alle poche notizie certe. Ci arresteranno tutti, pensò. Stanno già cominciando a prelevarci.

    Molti altri immigrati nella stessa situazione di Licht dovettero chiedersi come fosse possibile. «Siamo venuti qui perché ci hanno assicurato la loro protezione dai nazisti. Perché adesso se la prendono con noi?».

    «Vogliono soltanto tenerci sotto controllo», diceva qualcuno. «Hanno già cominciato a liberare i primi prigionieri. I loro nemici sono anche i nostri».

    «Forse faremmo meglio a prepararci a fuggire se le cose volgeranno al peggio», sostenevano le donne.

    E così, nei loro appartamenti di Bruxelles, Anversa, Liegi e Namur gli immigrati iniziarono a fare i bagagli. Come a Vienna nel 1938, pensò qualcuno. Come a Praga, a Francoforte, a Berlino e a Colonia.

    Più tardi, quello stesso giorno, arrivò la certezza che molti temevano. Alla radio una voce interruppe le marce militari. «Tutti i cittadini tedeschi e austriaci tra i diciassette e i sessant’anni devono presentarsi entro due ore al più vicino comando di polizia. Chi non lo farà sconterà due anni di carcere».

    Per un istante nell’appartamento di Licht calò un profondo silenzio. Erano le 13:15.

    «Cosa vuoi fare?», chiese Judith.

    Licht pensò al falso passaporto olandese che aveva acquistato e tenuto in serbo per un’occasione simile. Ma poi la sua buona educazione tedesca ebbe la meglio e si lasciò vincere dall’istintiva paura di fare qualcosa di illegale. «Andrò subito alla polizia», disse. «Quando vedranno i nostri documenti, ci lasceranno andare. E in ogni caso lo dirò a Van Molenbeck, che interverrà in nostro favore».

    Lofe, l’amico di Licht che era venuto a trovarlo, disse la stessa cosa⁴. La signora Cohn non espresse alcuna opinione; l’esperienza le aveva insegnato a lasciare che gli adulti decidessero da soli. Ma era chiaro che approvava la decisione del genero. Per lei la soluzione legale era sempre la migliore.

    Licht chiese alla domestica Maria di portargli un altro brandy. Non stava più pensando alla famiglia. Si stava preparando mentalmente all’interrogatorio della polizia, pensando alle possibili domande, valutando le risposte e decidendo quali nomi dare come referenze. Il primo, naturalmente, sarebbe stato Van Molenbeck. Ma poi? Il suo conoscente Van Blatt poteva essergli utile? Oppure collaborava in qualche modo con i nazisti belgi? E gli altri belgi che conosceva? Avrebbero negato tutti la loro assistenza a un ebreo tedesco che stava rischiando di finire in prigione?

    Nella sua autobiografia Arthur Koestler scrive di essere nato «nel momento in cui il sole tramontava sull’età della ragione». Era il 1905. Io sono nato quando l’ultimo raggio svaniva all’orizzonte, a metà strada tra il crollo di Weimar e l’elezione di Hitler nel 1933. Il giorno della mia nascita, il 24 luglio 1931, il cancelliere Heinrich Brüning, che governava la Germania per decreto, era tornato da Londra senza le agevolazioni finanziarie di cui una Germania profondamente prostrata aveva un disperato bisogno, come scrissero i giornali. Nel settembre precedente i nazisti avevano ottenuto sei milioni e mezzo di voti e centosette seggi al Reichstag, un enorme passo avanti rispetto alle altre consultazioni, e ormai era soltanto una questione di tempo. Le ombre di quel giorno si sarebbero allungate su tutta l’Europa nei dieci anni a venire. E ci avrebbero seguiti ovunque. Quando i tedeschi invasero il Belgio non avevo ancora compiuto nove anni.

    Nonostante la mia giovane età, mi ero reso conto che qualcosa di vagamente minaccioso stava invadendo le nostre vite: era come un’ombra nelle conversazioni che sentivo a tavola. Ma nell’agosto 1939, in una strana combinazione di fantasia fiabesca e terrore politico, l’invasione diventò palpabile. Una parente di mia madre, Gertrude Trudel Lussheimer, mi aveva portato in vacanza a Vianden, una pittoresca cittadina medievale con un castello a circa un’ora dalla città di Lussemburgo, dove vivevamo all’epoca, e molto vicina al confine tedesco. In seguito il castello è stato ristrutturato per i turisti che vengono a pescare, fare escursioni e mangiare trote sulle colline, ma all’epoca era ancora una rovina romantica, con torri, torrette e muri cadenti, senza guardiani, musei o negozi di souvenir.

    Per due settimane avevamo passeggiato in quei boschi che sembravano lontani da tutto, fermandoci nei soleggiati belvedere per ammirare i panorami sulla valle dell’Our e sulle verdi colline che si rincorrevano sull’altro versante. Un paio di volte durante le nostre passeggiate udimmo degli uomini parlare in tedesco. Non eravamo riusciti a vederli, ma le loro voci ci avevano spaventati. Eravamo sconfinati nel loro territorio senza rendercene conto? Oppure erano i soldati tedeschi che avevano attraversato il confine del Lussemburgo? Erano le prime avvisaglie di quello che sarebbe successo?

    Ogni volta che li sentivamo facevamo dietrofront e tornavamo spaventati al villaggio, come se fossero delle streghe che volevano rapirci per trascinarci in Germania. A volte correvamo, altre fingevamo di passeggiare. Avevo ormai superato l’età delle fiabe dei Grimm, e nei miei incubi i cattivi erano uomini neri che mi rapivano e caricavano su una grossa macchina nera. L’unico film che avevo visto, Biancaneve, poteva avere contribuito alle mie paure, ma il terrore dei rapitori è stato il tema ricorrente della mia infanzia. Il figlio di Lindbergh fu rapito e ucciso nel 1932, e Bruno Richard Hauptman, condannato dopo un controverso processo, fu giustiziato nel 1936. Il rapimento era nell’aria. Prima della guerra Lindbergh aveva nutrito simpatie per i nazisti, e loro per lui, ma all’epoca non lo sapevo.

    Non vedemmo mai gli uomini nei boschi. Riguardando la mappa, mi sembra improbabile che ci fossimo spinti così lontano da superare il confine, e presumo che all’epoca i tedeschi avessero intensificato i pattugliamenti alla frontiera. Ma ogni volta che ripenso a quelle voci immagino appartenessero a soldati con l’uniforme della Wehrmacht. Stavano già mappando il territorio in vista dell’invasione? Nell’estate del 1980, quando tornai a Vianden e passeggiai sulle colline con mio figlio David, che era un po’ più grande di quanto lo ero io quando ci andai la prima volta con Trudel, i fantasmi di quelle voci mi assalirono di nuovo.

    Il 25 agosto i miei genitori avvisarono Trudel di tornare subito a casa. Il giorno prima i tedeschi e i sovietici avevano firmato il patto di Molotov-Ribbentrop, l’accordo di non aggressione che avrebbe quasi certamente innescato la guerra non soltanto tra la Germania e la Polonia, ma su tutto il Vecchio continente, visto che la Francia e l’Inghilterra avevano sottoscritto dei patti di difesa reciproca con la Polonia. Nelle settimane precedenti, in previsione dell’imminente scoppio delle ostilità, i miei genitori ci avevano spediti a Vianden per preparare la loro successiva mossa. Uno dei fratelli di mio padre, poi emigrato in America, aveva vissuto a Bruxelles, e prima della fine del mese, quattro giorni dopo aver richiamato Trudel e me, ci trasferimmo lì. Il 1° settembre i tedeschi invasero la Polonia. Il 17 settembre, quando erano già alle porte di Varsavia, i sovietici colsero il pretesto per avventarsi su ciò che restava del Paese.

    Si era parlato di un’invasione tedesca del Belgio, del Lussemburgo e dell’Olanda ben prima che accadesse realmente. Negli otto mesi precedenti, durante quella che alcuni avevano chiamato guerra fasulla, Sitzkried o drôle de guerre, i due schieramenti erano rimasti appostati dietro le loro linee difensive, la linea Sigfrido e la linea Maginot, sulla frontiera franco-tedesca lungo il Reno. Ora qualcuno parlava di movimenti delle truppe tedesche lungo le frontiere con l’Olanda e il Belgio, e la sera origliavo conversazioni preoccupate sulle notizie della radio e dei giornali. Le colonne di panzer tedeschi erano state viste avanzare a ovest da Brema e Düsseldorf e si diceva fossero dirette in Olanda.

    Ne parlavano tutti, erano gli stessi discorsi che avevo sentito in Lussemburgo l’anno prima. Le parole ricorrenti erano sempre passaporto, visto e Auswandern emigrazione. In quegli anni prescolastici non vedevo molto i miei genitori; la maggior parte del tempo venivo affidato alla cuoca e a Maria, la Kindermädchen. Mangiavo quasi sempre in cucina e le sentivo parlare dei miei genitori, ma quei discorsi passavano sopra la mia giovane testa. Occasionalmente, quando cenavo con i miei, sentivo quanto bastava per assumere l’orientamento politico che sono certo moltissimi altri ragazzini ricevettero in quegli anni.

    Mio padre non sembrava saperne molto in fatto di bambini, penso li vedesse attraverso i condiscendenti stereotipi della cultura tedesca. Ma nonostante la distanza emotiva, o forse proprio a causa di essa, in quei mesi prima della guerra mi sono avvicinato a lui e ho iniziato a nutrire un rispetto per la sua mondanità che sconfinava nella soggezione. Conosceva alla perfezione la geografia politica che tanto mi affascinava: le frontiere, la geopolitica, le posizioni militari, la potenza degli eserciti, le rotte e le linee ferroviarie. Con me ne parlava di rado, ma nelle conversazioni con mia madre e con altri, che origliavo nella nostra casa in Lussemburgo e ora nell’appartamento a Bruxelles, era sempre lui a saperne di più, a sembrare fiducioso e a spiegare come funzionava tutto. L’unica cosa imponderabile, in quei discorsi origliati, era cosa avrebbe fatto Der Roosevelt. Benché non capissi chi era Der Roosevelt, doveva trattarsi ovviamente di una figura monumentale e di grande potere dalla quale sembravano dipendere in parte tutti i nostri destini. Der Roosevelt era l’unico uomo capace di lasciare perplesso mio

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