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Ferramonti - La salvezza dietro il filo spinato
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Ferramonti - La salvezza dietro il filo spinato
E-book500 pagine6 ore

Ferramonti - La salvezza dietro il filo spinato

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Info su questo ebook

Nel 1982, verso la fine di una vita notevolissima, il medico psichiatra David Ropschitz decise di scrivere per mettere nero su bianco la sua storia personale di sopravvivenza durante la guerra.
In questo romanzo autobiografico, egli narra il percorso da un'infanzia agiata nella Vienna degli anni '20 si suoi studi di medicina negli anni '30 in Italia, fino al suo internamento, nel luglio 1940, ad opera del governo fascista, nel più grande campo di internamento italiano, Ferramonti di Tarsia.
In questo romanzo il dottor Ropschitz ricorda con tenerezza ed umorismo i tre difficili anni passati a Ferramonti: le amicizie, gli amori, le privazioni, la fame e la costante incertezza.
Questo racconto accattivante porta il lettore in un viaggio dalla Calabria agli Abruzzi, dal filo spinato alla libertà, esplorando lungo la strada i temi della fede, dell'umanità, e della psicanalisi.

LinguaItaliano
Data di uscita8 gen 2023
ISBN9798215631447
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    Anteprima del libro

    Ferramonti - La salvezza dietro il filo spinato - David Henryk Ropschitz

    DEDICA

    A Morris e Sophia Ropschitz di Leopoli e Vienna e ai loro quattro figli, Amalia Merkel, Klara Todt, Eduard Ropschitz e Roza Rauch, le cui vite sono state brutalmente interrotte. I loro nomi continuano a vivere.

    Questo libro e anche dedicato alla memoria di mio fratello Manfred Ropschitz (21.07.1950–07.11.2021).

    Prefazione

    Mio padre ha scritto questo libro verso la fine della sua vita. Questa è la sua storia, basata sui suoi ricordi. Io ho semplicemente messo loro le ali.

    Yolanda Ropschitz-Bentham

    Somerset, Inghilterra, 2020

    INTRODUZIONE

    Nato in Galizia, David Henryk Ropschitz, come altri ebrei dell’Europa dell’Est all’inizio degli anni trenta, fu escluso dagli studi universitari nel suo paese natale, la Polonia, e adottato dall’Austria, a causa delle leggi antisemite prevalenti, note come numerus clausus. Deciso a seguire la tradizione medica familiare, si trasferì nella più tollerante Italia, come molti suoi contemporanei nell’Europa dell’anteguerra. Qui si è laureato in medicina all’Università di Genova nel 1937. Con l’aggravarsi della situazione in Europa divenne apolide e nel luglio del 1940, con poche ore di preavviso, fu inviato su uno dei primi trasporti verso il neonato Campo di Concentramento di Ferramonti di Tarsia. A parte un breve periodo di confino libero in Abruzzo, rimase a Ferramonti fino alla liberazione del Campo da parte delle forze alleate nel settembre 1943.

    Questo romanzo autobiografico, descrive le condizioni e gli atteggiamenti predominanti sotto il dominio fascista a Ferramonti durante i tre anni di internamento; racconta come si svolsero le vite degli internati, le loro gioie e i loro dolori, il loro umorismo e il loro stoicismo sullo sfondo della seconda guerra mondiale. I nomi sono stati cambiati per mantenere la riservatezza e inevitabilmente sono presenti ornamenti, omissioni e possibili imprecisioni cronologiche. Spero che questo non sminuisca l’autenticità dei ricordi che mio padre, David Ropschitz, ha portato con sé per oltre quarant’anni.

    Prologo

    Ferramonti - Media Valle Crati – Provincia di Cosenza.

    Questa storia si svolge in Calabria, nella valle del Crati, non lontano dal Busento, il leggendario fiume che custodisce la tomba sommersa di Alarico il Goto.

    Greci, Cartaginesi, Romani, Goti, Normanni, Mori e Albanesi hanno calpestato questa terra, anche se nella sua desolazione c’era ben poco che potesse suggerire il suo passato turbolento e le sue glorie passate. La valle era quasi a forma di scodella, circondata da colline brulle, generalmente aride, una scodella di polvere, tranne che per le macchie di paludi e pantani presso il fiume Crati, dove le larve di anofele si riproducevano in grande abbondanza: una zona notoriamente infestata dalla malaria.

    Gli alberi erano scarsi, ma quelli che riuscivano a vivere in quesl terreno inospitale erano incredibilmente grandi e robusti. Senza l’aiuto di mani potatrici, crescevano in sfere quasi perfette, la cui forma offriva la migliore protezione da un sole impietoso. Principalmente alberi delle locuste (carrubi), gelsi, fichi e ulivi, ogni tanto una quercia: robuste, alte e impressionanti, la maggior parte delle quali erano vecchie, con qualcosa che sfidava il tempo, arcaiche. Gli alberi, saldamente radicati, mandavano le loro radici a cercare l’umidità in profondità nella madre terra battendo le sue sorgenti sotterranee per deridere il sole cocente che minacciava di prosciugarle.

    In mezzo a questa valle, nel 1943, su un terreno sassoso e spoglio c’erano molte capanne di tipo Nissen, brulicanti di una popolazione multinazionale. Le recinzioni erano realizzate con triplo filo spinato, con garitte di vedetta per sentinelle a intervalli regolari. Visto dall’alto, a distanza, si poteva considerare questo conglomerato di capanne per un villaggio densamente popolato, con i suoi abitanti costantemente in movimento.

    Nel luglio del 1940, quando arrivò il "Triumvirato", le cose erano molto diverse. Allora c’era una sola baracca, una camerata, e il resto della desolata distesa era piena di cumuli di sabbia e ghiaia, malta e cemento, assi e barre di ferro. Gli strateghi italiani che speravano in una campagna rapida e di successo avevano rimandato la costruzione di altri campi di concentramento. Pensavano che la guerra sarebbe presto finita!

    Il primo gruppo ad arrivare, nella prima settimana di luglio, è stato il frutto di una selezione casuale, di tutti i ceti sociali, di ventitré persone disorientate, logorate e abbondantemente sudate, tra cui tre giovani medici presto definiti Triumvirato: Ossi Gerber, Dino Fuhrman e Henry Raupner che divenne un trio inseparabile, anche se le loro origini e personalità erano molto diverse. Difficilmente si sarebbero presi molto a cuore l’un l’altro se il destino non li avesse buttati insieme nell’incerta impresa.

    LIBRO UNO Prima parte

    Il Triumvirato

    Ossi Gerber e Henry Raupner si conoscevano già da tempo a Genova, ma non avevano mai avuto contatti ravvicinati. Erano stati presentati e ripresentati più volte, fingendo ogni volta di essere dei completi estranei. Il motivo di questo reciproco riluttante riconoscimento era oscuro, a meno che non fosse radicato in qualche vaga rivalità maschile.

    Ossi Gerber era un giovane raffinato ed estremamente bello. Anche se il suo aspetto era un po’ delicato, sapeva essere molto fermo e autorevole quando ce n’era bisogno. Era un esteta, molto interessato alle Muse e all’arte del buon vivere. La carnagione pallida contrastava nettamente con i capelli neri come corvi che portava su un lato, rivelando una fronte di pallore marmoreo. I suoi occhi scuri e penetranti avevano un’espressione acuta e vivace, in armonia con un sensibile naso aquilino. Era sempre vestito in modo impeccabile. Qualsiasi osservatore superficiale avrebbe potuto considerarlo un po’ dandy, ma in lui c’era molto di più di quanto il suo sofisticato aspetto esteriore suggerisse.

    Veniva dalla provinciale città di Bochnia, in Polonia. Suo padre, un ricco industriale tessile, aveva nutrito grandi aspettative nei confronti del suo unico figlio, e come la maggior parte dei genitori ebrei che hanno acquisito una certa ricchezza, desiderava che il figlio intraprendesse una professione, preferibilmente quella più onorata dai cuori ebraici: la professione medica. Ossi era un bambino malaticcio: a quattordici anni aveva contratto la febbre reumatica, che presumibilmente gli aveva lasciato qualche danno alla valvola mitralica. Essendo figlio unico, era avvolto nell’ovatta dai genitori, ma lo spirito indipendente di Ossi protestava contro il loro soffocamento. Nonostante avesse dovuto abbandonare le forme di sport più faticose per ordine del medico, riuscì comunque a giocare nel ruolo meno pesante di portiere nel calcio.

    Dopo l’immatricolazione i suoi genitori decisero di mandarlo all’estero. La loro scelta cadde su Montpellier, che aveva una rinomata facoltà di medicina. Era difficile mandare il loro unico figlio lontano da casa, ma il numerus clausus, quel limite non ufficiale sul numero di studenti ebrei, così come l’antisemitismo nauseante nelle università polacche, li aiutò nella loro decisione.

    Papà Gerber era un uomo intelligente. Aveva percepito l’eccessivo attaccamento tra madre e figlio, e la sua stessa esperienza di vita gli aveva insegnato l’importanza della resistenza e della durezza morale. Era imperativo per il "giovane loshak, il giovane stallone - come lo chiamava affettuosamente - sfuggire all’iperprotettività della madre. Inoltre, c’era anche la questione del prestigio. Sarebbe stato molto piacevole dire con disinvoltura Mio figlio? Ah, sì! Sta studiando medicina nel sud della Francia. A Montpellier, la città di Nostradamus".

    Il giovane Ossi adorò immensamente le sue giornate di studio in Francia. Lì aveva acquisito un ulteriore tocco di fascino e di urbanità: il suo francese divenne fluente, perdendo il sapore da manuale. Per Mamma Gerber era motivo di orgoglio ascoltare le chiacchiere francesi del figlio durante le vacanze estive, quando lo faceva sfilare nei circoli "mondani" della loro piccola città natale.

    In quei giorni d’anteguerra, le città di provincia con un minimo di bella vita, un pizzico di vizio e alcuni interessi culturali si consideravano una Piccola Parigi che le faceva sentire superiori, sofisticate e mondane. Il francese era la seconda lingua della nobiltà e dell’intelligentsia polacca, tanto che la sua padronanza era un segno di raffinatezza.

    Per completare la sua formazione, sia medica che generale, Ossi decise di svolgere la seconda metà della sua formazione medica in Italia, trascorrendo i tre anni rimanenti tra Firenze e Genova. Si laureò nel 1939, appena nove mesi prima della dichiarazione di guerra dell’Italia e quando la sua nativa Polonia era già stata invasa dalle forze tedesche e russe. Non c’era nessun altro posto dove andare, quindi era rimasto in Italia sperando per il meglio.

    In totale contrasto con l’eleganza di Ossi, Dino Fuhrman era tutto capelli. Anche con la rasatura più radicale, la sua barba nera non veniva soppressa, così che una sfumatura bluastra soffocava il suo viso bruciato dal sole. Era abbastanza naturale che delle ciocche di peli ricci strisciassero da sotto il colletto di Dino: considerando la pelosità del suo petto, questo non era sorprendente, ma, secondo alcuni compagni di scuola, era intenzionale e a beneficio delle ragazze. Dino era un esemplare atletico ben sviluppato, muscoloso e sodo, un appassionato di sport che amava dare libero sfogo al suo spirito agonistico.

    Oltre al suo magnifico fisico, la natura gli aveva anche donato un buon cervello. Era un allievo intelligente, oltre che un eccellente giocatore di scacchi e di bridge; quest’ultima abilità la condivideva con Ossi, un esperto di bridge autodidatta. Nonostante la sua virilità pelosa e la sua arguzia acuta, c’era in lui un’amabile vena infantile che gli faceva venerare gli eroi del selvaggio West, adottando di tanto in tanto il gergo dei pistoleri e dei cowboy.

    Dino era nato a Brody; i suoi genitori erano di origine ebrea russo-polacca. Suo padre aveva prestato servizio nell’esercito imperiale austriaco nella prima guerra mondiale, era stato fatto prigioniero sul fronte italiano e dopo diversi anni di reclusione aveva finito con l’amare il suo paese adottivo. Dopo la guerra Fuhrman senior decise di restare e divenne presto un italiano naturalizzato. Mandò a chiamare sua moglie e suo figlio di 7 anni affinché lo raggiungessero in Italia e così il giovane Dino crebbe a Genova. Il padre di Dino era un uomo astuto e laborioso e nonostante il proverbio Un Genovese vale sette Ebrei aveva aperto una catena di piccoli negozi nel popoloso quartiere del porto. Gradualmente, quando il suo commercio di abbigliamento cominciò a ripagare gli sforzi, si avventurò nei quartieri più eleganti di Genova. Così il figlio Dino non subì mai le umilianti esperienze di antisemitismo a cui gli ebrei dell’Europa centrale e orientale erano esposti. Non c’era praticamente nessun antisemitismo in Italia prima della seconda guerra mondiale e Dino crebbe disinibito, sicuro di sé e libero, essendo stato privato di quel catalizzatore di sofferenza, che così spesso produce una naturale cautela di spirito e di comportamento.

    Non vincolato dal numerus clausus, Dino riuscì a entrare nella facoltà di medicina dell’Università di Genova e si immerse con gioia nei riti di iniziazione gay e sciocchi della ’Matricola’, come venivano chiamati gli studenti del primo anno. Durante la "Festa della Matricola si trovava di fronte ai più folli, rumorosi e audaci. Dino era un naturale" sotto ogni punto di vista; prendeva tutto ciò che gli arrivava libero da conflitti interiori, inibizioni o introspezioni. Questo gli conferiva un fascino e un carisma immediato.

    Dino era per molti versi una personalità rinfrescante ed estroversa; un estroverso capace di comunicare vitalità e ottimismo in tempi di crisi o di oscurità. Lui e Ossi erano stati negli stessi gruppi all’Università e si erano laureati contemporaneamente.

    Allo scoppio della guerra, quando iniziò il rastrellamento degli ebrei stranieri, Dino si rese conto che, nonostante la sua quasi totale assimilazione e la nazionalità italiana, il suo destino era comunque legato al resto dell’ebraismo, nel bene e nel male.

    Henry Raupner era nato nel 1913 a Lemberg, in Galizia, all’epoca ancora parte dell’Impero austro-ungarico. Suo padre, Morris, nato nel 1865 in una povera famiglia ebrea ortodossa, si era fatto strada con un duro lavoro, un buon cervello e una straordinaria competenza nelle pietre preziose. Anche se Morris nutriva una stima affettuosa per il padre David, non avrebbe seguito le sue orme perché Papà Raupner, un sarto, riusciva a malapena a raschiare il pane, il che non sorprende, vista la sua disposizione ultraterrena e impraticabile.

    Ma suo figlio, Morris, non era in cerca di onori talmudici; non poteva dimenticare le umiliazioni e le privazioni della sua gioventù povera e giurò che non avrebbe più sofferto la fame. A quarant’anni aveva già una famiglia numerosa, una bella casa e una fiorente attività nell’oreficeria. La nascita di Henry mise in imbarazzo la vecchia madre Sophia, 42 anni, ma il padre Morris con orgoglio mascolino presentò fieramente il suo decimo figlio. Su un vecchio violino si suonano molte belle melodie diceva.

    Henry era un bambino robusto e vivace, ma ben presto la sua vita pacifica fu bruscamente turbata dallo scoppio della prima guerra mondiale. Il rullo compressore russo si spinse verso Lemberg e, memore delle atrocità cosacche, Morris portò la sua famiglia a Vienna. Nella fretta, la famiglia impacchettò solo lo stretto necessario, lasciando la sua bella casa e la gioielleria. Per giorni la famiglia dovette sopportare le affollate sale d’attesa dell’Ostbahnhof, prima che Morris riuscisse a trovare un minuscolo appartamento in un lugubre quartiere di Vienna. La vita lussuosa che si erano lasciati alle spalle in Galizia non era altro che un lontano ricordo.

    Tuttavia la vita andò avanti e poco prima del terzo compleanno di Henry il papà in qualche modo escogitò un modo per procurarsi un pollo vivo, un raro lusso in tempo di guerra a Vienna. Il piccolo Henry era felicissimo. Intrappolato nell’appartamento sovraffollato di Vienna, la sua conoscenza della zoologia era limitata a scarafaggi, cimici e mosche. Un pollo era qualcosa di fuori dal mondo. Insistette affinché il suo nuovo compagno di giochi dormisse in una scatola accanto al suo letto e fece promettere a sua madre Sophia che sarebbe rimasto con lui per sempre. Per due giorni interi giocò con il pollo per la gioia del suo cuore, ma la mattina del suo compleanno il pollo era scomparso. Aveva il cuore spezzato.

    Deve essere volato su per il camino, disse Sophia, e forse un giorno tornerà. Il piccolo Henry singhiozzò tutta la mattina, ma le sue lacrime si attenuarono al delizioso pranzo di famiglia fino a quando suo padre, distrattamente, osservò: Mmm, ottima zuppa di pollo.

    All’inizio lui non colse le implicazioni del commento del padre, ma Anna la più giovane delle sorelle, che non riusciva a controllare la sua dispettosità, o la sua risata, rese chiaro il destino del povero uccellino.

    "E’ nel tuo piatto, Dummkopf!"

    La consapevolezza di aver appena mangiato il suo animale domestico creò nel bambino di tre anni un profondo e duraturo senso di tradimento e di disgusto.

    Henry era il più giovane di dieci figli, ma solo quattro dei suoi fratelli e sorelle ebbero un ruolo importante nella sua vita. Izhio, il fratello maggiore, era il poeta della famiglia. Dotato di una ricca vena di immaginazione e di una lingua fluente, i suoi recital e le sue declamazioni affascinavano il piccolo Henry e lo portarono ad apprezzare per tutta la vita la poesia e il dramma. Il suo secondo fratello, Leon, era di un diverso temperamento. Introverso e solitario, Lonek era un pescatore appassionato che, usando solo la più semplice delle attrezzature da pesca, prendeva un pesce al volo. Diede al fratello un entusiasmo duraturo per la pesca con la lenza.

    Anna ebbe un ruolo prima negativo e poi ambivalente, perché serbava rancore verso il suo arrivo tardivo che aveva usurpato lo status di bambina che aveva assaporato per sette anni. Il legame più stretto di Henry era con suo fratello Mundek, 12 anni più grande di lui.

    Dopo la guerra, quando Henry aveva cinque anni, la famiglia fece un breve ritorno a Lemberg, ma ben presto la persistente instabilità politica e la nostalgia per le raffinatezze culturali e intellettuali dell’ex capitale asburgica li spinse a tornare a Vienna. Seguì poi uno strano schema, una sorta di nevrosi familiare, che portò a periodici spostamenti tra Lemberg e Vienna. Questo frequente sconvolgimento e i frequenti cambiamenti di lingua e di scuola colpirono il giovane Henry causandogli grande stress e confusione mentale.

    Da un asilo ebraico protetto frequentò scuole polacche e poi tedesche, dove fece la sua prima conoscenza con l’antisemitismo e la derisione. Fu allora che suo fratello Mundek dimostrò di valere il suo peso in oro. Gli studi di Mundek erano stati così sconvolti che, a differenza dei suoi fratelli Izhio e Leon, Mundek non fu in grado di immatricolarsi. Il continuo andirivieni della Brigata degli Sciocchi - come chiamava la sua famiglia - lo aveva reso un disadattato, una persona profondamente fuori luogo, e voleva proteggere il fratellino da un simile destino infelice. Mundek gli insegnò a nuotare, a calciare un pallone, lo iniziò al mondo degli scacchi e gli mostrò come prendersi cura dei piccioni che teneva in soffitta.

    Mundek trasmise il suo amore per la natura al giovane Henry che si divertiva a passeggiare lungo il Danubio con il fratello maggiore e a visitare i bellissimi parchi della città, Schonbrunn, Stadtpark e il Prater. Mentre camminavano Mundek gli spiegava le cose e Henry beveva avidamente ogni parola. Era facile imparare da un insegnante che adorava.

    Quando Henry aveva undici anni, la famiglia si stabilì finalmente in un appartamento all’ultimo piano della Grosse Schiffgasse di Vienna e, su suggerimento di Mundek, Henry fu mandato al Chajes Gymnasium, un liceo classico ebraico con tendenze sioniste e la reputazione di produrre artisti di alto livello. All’inizio fu una vera e propria lotta, non solo per i rigorosi standard accademici richiesti, ma anche per l’attenzione della scuola alla formazione del carattere e all’apprezzamento delle arti. Fu qui che Henry iniziò per la prima volta a studiare la storia del popolo ebraico.

    La scuola era mista e c’era una ragazza in particolare, di nome Golda, con la quale Henry entrò subito in simpatia. Aveva lunghe trecce bionde, occhi azzurri e un viso molto sensibile.

    Stabilitosi definitivamente ora per la prima volta nella sua vita, fece amicizia e familiarizzò con i diversi quartieri di Vienna, i suoi teatri, le sale da concerto e i teatri d’opera. La sua mente adolescenziale si espanse gradualmente, poiché all’epoca non c’era quasi più una città in Europa che potesse competere con Vienna come fonte di ispirazione artistica e intellettuale. Gli insegnamenti di Freud e Adler erano in voga con effetti di vasta portata sulla letteratura, l’educazione e la comprensione dell’uomo.

    Per quanto riguarda Mundek, sospeso in una terra di nessuno, alla fine fece l’apprendista nel commercio dei diamanti, anche se il suo cuore non era lì. Si sforzò eroicamente di allontanarsi dall’atmosfera distruttiva degli uomini d’affari duri di animo prendendo lezioni di canto e pianoforte, studiando la teoria degli scacchi ed esplorando la biologia. Avido lettore e profondamente interessato alle scienze, Mundek continuò a influenzare il giovane Henry, discutendo e spiegandogli i fenomeni naturali dell’universo. Mundek era diventato non solo il suo mentore, ma anche il suo Mecenate, e qualsiasi cosa egli suggerisse veniva volentieri realizzata anche quando andava controcorrente. Per esempio, lo convinse a radersi la testa durante le vacanze estive per rinvigorire le radici dei capelli, proprio quando Henry stava diventando desideroso di impressionare le ragazze. È meglio radersi i capelli quando si è giovani, invece di perderli del tutto come papà.

    Nel frattempo una delicatissima storia d’amore stava germogliando tra Henry e Golda, tessendo fili di seta intorno a loro. Fu in un bel pomeriggio di primavera del marzo 1930 che Henry, a 17 anni, con la testa ancora tra le nuvole dopo aver salutato Golda, tornò a casa da scuola. Il portiere di casa gli diede uno strano sguardo, ma come era sua abitudine, Henry corse su per le varie rampe di scale fino al loro appartamento all’ultimo piano. Anna aprì la porta. Era pallida come la morte, con gli occhi rossi per le lacrime che scendevano. Con un forte singhiozzo gettò le braccia su Henry. Mundek è morto! Si è sparato!.

    Il cuore di Henry batteva violentemente mentre una mano di ferro sembrava chiudersi intorno ad esso. Cercava di stare fermo, con le gambe deboli, con un forte male allo stomaco. Mundek morto? Com’è potuto succedere? Tutti intorno a lui singhiozzavano, aggrappati l’uno all’altro in preda al dolore. Era congelato, incapace di piangere. Cercava di dare un senso a ciò che stava accadendo e non ci riusciva. Vagava per l’appartamento in uno stato di stordimento, incapace di comprendere ciò che vedeva o sentiva.

    Perché Mundek, a 29 anni, si sia tolto la vita, è rimasto un mistero. Erano state esplorate varie teorie: delusione d’amore, preoccupazioni finanziarie, ma nessuna corrispondeva. Il fattore singolo più importante era la sua sospensione a mezz’aria, la sensazione di aver perso la strada e di andare alla deriva senza meta. Più avanti nella vita, quando Henry si è avvicinato alla psicologia, ha imparato che chi si suicida di solito ha intrapreso un processo graduale di autodistruzione molti anni prima.

    La perdita del suo adorato fratello fu un trauma dal quale non si sarebbe mai ripreso del tutto. Ogni membro della famiglia soffrì, ma nessuno di loro aveva un debito più grande di quello di Henry nei confronti di Mundek. Tutto ciò che era, tutto ciò che sapeva, era grazie a suo fratello. Il giorno della morte di Mundek qualcosa morì anche in lui. Non era più un adolescente. È stato un miracolo che abbia continuato gli studi, ma lo ha fatto, come un automa. La concentrazione sui suoi libri lo aiutava persino a distogliere la sua attenzione da quel dolore costante, dall’inquisizione infinita che si trovava dentro di lui. Henry avrebbe potuto impedirlo? Mundek non si era reso conto di quanto fosse amato? L’unica via d’uscita dall’interminabile tristezza era quella di dedicarsi ai suoi esami; questo sarebbe stato il dono duraturo di Henry al suo fratellone.

    Alla fine riuscì ad immatricolarsi e così nel 1931 si trasferisce a Genova, per studiare medicina. In quel periodo Mussolini accoglieva gli studenti stranieri, ebrei e non. All’Università di Vienna, ancor prima dell’Anschluss, l’antisemitismo era diventato insopportabilmente offensivo e così Henry aveva scelto di studiare sulla costa ligure italiana. Il fratello Izhio, sposato, aveva uno studio medico ad Alassio; le sorelle Helena e Anna, sposate con medici polacchi, risiedevano anch’esse nella zona tra Bordighera e Viareggio, per cui era circondato dalla famiglia e per molti anni si sentiva a casa.

    Ma quando Mussolini salì sul carro di Hitler, le cose furono molto diverse. I suoi fratelli avevano lasciato l’Italia a causa delle leggi razziali, mentre Henry, reso apolide dalle autorità polacche, era rimasto bloccato a Genova senza passaporto, impigliato nella rete, incapace di partire, incerto sul luogo da chiamare casa. Molti dei suoi colleghi erano già stati arrestati. Ora Henry si aspettava di condividere il loro destino.

    Tutti a bordo: Luglio 1940

    E così fu. Attraversando il cancello della questura, valigia in mano, zaino in spalla, Henry fu portato in un cortile dove, in mezzo a grande confusione e rumore, fu avvolto dalla folla. Alcuni stavano in piedi in gruppi, mentre altri se ne stavano da parte. Henry notò un giovane appollaiato sulla sua valigia e fece lo stesso, visto che non c’era nessuno che conosceva. La gente stava ancora arrivando, alcuni portavano dei fardelli improvvisati frettolosamente, altri portavano dei bauli pesanti. Quelli in gruppo erano famiglie, rannicchiate intorno a un padre, un fratello o un figlio. Parlavano, gesticolavano e si abbracciavano in lacrime. Per quanto Henry per quanto riuscisse a capire, solo gli uomini dovevano essere portati via.

    Avrebbe voluto avere qualcuno al suo fianco, ma non aveva più parenti in Italia. L’ordine di presentarsi alla questura era arrivato così all’improvviso, di punto in bianco, che non c’era stato nemmeno il tempo di informare gli amici. Seduto sulla propria valigia, lasciò vagare lo sguardo. Quel giovane solitario, accovacciato sulla valigia, sembrava vagamente familiare, ma a quella distanza non poteva esserne sicuro.

    "Appello! L’urlo di un funzionario in uniforme risuonò improvvisamente intorno al cortile. Appello! urlò ancora una volta al di sopra della confusione. Iniziò l’appello. Dvorak! Presente! Wolf! Presente Altman! Presente! Gerber! Presente!"

    Henry annuì in segno di riconoscimento. Quindi era Gerber, il dottor Ossi Gerber. Non c’era da stupirsi che il giovane sulla valigia gli fosse sembrato familiare. La voce rauca del funzionario chiamava nome dopo nome, ma ad Henry non importava, anche se era un po’ divertito dal modo comicamente straziante in cui questi nomi stranieri uscivano dalle labbra italiane.

    Fuhrman!, schioccò il funzionario.

    Presente! si sentì come da un profondo baritono. Henry sorrise tra sé e sé. Così anche Dino Fuhrman è qui. Il che fa tre medici. Non era riuscito a vedere Dino prima, perso dietro un muro di genitori, benefattori e amici.

    Il momento della partenza si avvicinava. Un’improvvisa inquietudine e agitazione pervadeva la folla e poi un forte singhiozzo si alzò al di sopra del frastuono. Le persone cadevano l’una nelle braccia dell’altro, i bambini si aggrappavano ai loro padri, le donne gemevano nei loro fazzoletti. Henry e Gerber rimasero seduti nel tumulto generale, e lì, consapevoli della reciproca presenza, si scambiarono sguardi e timidi sorrisi.

    "In fila per tre!" urlò il funzionario.

    Quelli da deportare erano isolati dagli altri e divisi in file. Ossi Gerber si unì a Henry e all’ultimo momento Dino Fuhrman si affrettò a completare il trio. "Avanti" tuonò il funzionario. Attraversarono i cancelli della questura e, affiancati dai miliziani, furono fatti marciare verso i camion in attesa, per essere trasportati verso la loro destinazione sconosciuta. La presenza della milizia e il modo in cui furono spinti nei camion indicò un brutale risveglio all’improvvisa perdita di libertà e dignità.

    Dopo un breve viaggio vennero raggruppati a Genova Principe, la stazione ferroviaria principale. La stessa stupida manovra di marcia si ripeté, e come dei criminali furono scortati su un treno. La loro era una carrozza sigillata, che sembrava molto proibita con le sue persiane di ferro e le speciali serrature di sicurezza. I tre medici entrarono nello stesso scompartimento. A parte la scorta umiliante in piena vista di una folla stupefatta, non c’era stato nulla di feroce o disumano nel loro trattamento - finora.

    Dino Fuhrman fu il primo a rompere il silenzio.

    Bene, bene! Una carrozza sigillata! Come quella che i tedeschi hanno usato per Lenin per ordire la rivoluzione. Sembrava eccitato, raggiante su tutto il viso – sentiva odore di avventura. Schiaffeggiando Henry sulla spalla esclamò: Non lo trovi eccitante John?

    Mi chiamo Henry!

    Quali sono le probabilità? Per me sono tutti John, disse Dino, sorridendo, mentre il treno si allontanava.

    Ossi Gerber rimase piuttosto silenzioso e distaccato; Henry studiò attentamente la lampadina elettrica fioca, che illuminava a malapena lo scompartimento. Gradualmente la tensione e lo stress del giorno sembrava svanire. Fuori era una bella giornata di mezza estate ed era un vero peccato stare seduti in penombra con le tende di ferro abbassate.

    Il temperamento di Dino non gli permetteva di stare fermo a lungo. Si alzò e cercò di aprire la porta dello scompartimento, ma era chiusa a chiave. Così, per noia, aprì una piccola scatola e cominciò a mangiare. Si vedeva a colpo d’occhio che il cibo era stato preparato da mani amorevoli; focaccia, frutta e dolci, tutti ben avvolti in carta velina morbida multicolore. I tovaglioli erano piegati con cura, forchette e coltelli delicati, una fiaschetta di thermos lucido, tutti impeccabilmente disposti e confezionati, rivelavano la premura e la cura che c’era dietro la loro preparazione. Mamma Fuhrman idolatrava il figlio; aveva preparato un pranzo al sacco con tenera lungimiranza.

    Un miliziano aprì la porta e guardò dentro.

    Venite a ritirare i nostri biglietti?, chiese scherzosamente Dino.

    Ha lo sguardo vuoto.

    Qualcuno vuole andare al bagno?

    Scossero la testa. Mentre il miliziano camicia nera stava per ritornare sui suoi passi, Dino ebbe un’improvvisa ispirazione. Afferrò la fiaschetta di Chianti dalla sua valigetta e la offrì all’italiano, che accettò di bere. Dino lo coinvolse in una conversazione, sottolineando dopo un po’: Fa molto caldo qui dentro. Molto caldo. Potresti aprire la finestra?".

    "Proibito!" rispose seccamente la camicia nera.

    Ma Dino non accettò il No così facilmente. Conosceva i suoi italiani.

    Ma perché? Non potremmo fuggire neanche se lo volessimo.

    Non è per questo, disse l’italiano con qualche esitazione, voi non dovete guardare e ....

    Guardare cosa? Dino lo interruppe, "I pomodori?"

    Il miliziano sembrava perdere la pazienza.

    Non fare lo stupido!

    Non sapeva se essere infastidito o divertito, ma guardando negli occhi amichevoli di Dino e rassicurato da quell’impeccabile accento genovese, cedette e tirò un po’ su la tenda metallica. Poi lasciò lo scompartimento, chiudendo la porta a chiave dietro di sé.

    La fessura era larga solo pochi centimetri, ma quanta differenza fece quando il brillante sole italiano iniziò a inondare il compartimento. Dino si inginocchiò per sbirciare attraverso la lastra di vetro, che non poteva essere aperta.

    Rapallo! esclamò. Andavano verso sud. Si alternavano nello spazio per guardare il paesaggio che scorreva: alberi di pesco che si piegavano sotto la frutta in maturazione, vigneti, ville sparse, palme, cipressi - una scena tipicamente bucolica italiana.

    Dopo un po’ si stancarono di accovacciarsi e tornarono a sedersi. Lo scompartimento sigillato era troppo soffocante e caldo per pensare, il che era una benedizione, perché meno si pensava, meglio era.

    Ehi John! Giochiamo a carte! suggerì Dino all’improvviso.

    Mi chiamo Henry.

    Non importa. Giochiamo.

    Ossi, che aveva familiarità con i manierismi di Dino, sorrideva al fastidio di Henry. Un mazzo di carte rapidamente fu tirato fuori dalla tasca di Dino. Henry non era entusiasta; se non lo conoscesse, avrebbe potuto scambiarlo facilmente per un giocatore d’azzardo professionista, tanto era abile nel rimescolare il mazzo.

    Questa è una delle sue esibizioni giovanili, pensava Henry. Giocarono, ma senza metterci il cuore. Il tempo sembrava trascinarsi e non sapevano cosa fare di se stessi. Così Dino cominciò a ricordare i suoi scherzi da studente nella sala di dissezione e durante gli esami. A poco a poco, attraversando le sue imprese sportive, di bridge e di scacchi, si imbatté nel suo argomento preferito: la madre e le sue abilità culinarie. Descriveva minuziosamente il borscht e il cholent in cui lei eccelleva.

    Anche Henry aveva un forte legame con sua madre. Neanche lei era una cuoca cattiva, specialmente con l’anatra arrosto e l’Apfelstrudel e così si unì all’elogio in lode delle madri ebree.

    Mentre tutti e tre continuavano ad esaltare le virtù delle loro madri, Henry si rese conto che ciò non era nato per caso, ma proveniva da un desiderio più profondo nell’ora del bisogno; un bisogno di nutrimento sia fisico che materno.

    Sbirciando attraverso la stretta fessura, Henry notò che la giornata stava volgendo al termine. L’heure bleue, sussurrò a se stesso, quel sottile bluastro nebbioso tramonto, così tipico delle serate estive italiane. Cominciarono a brillare le luci qua e là. Peccato che la finestra non si potesse aprire! Quanto desiderava respirare l’aria fresca della sera!

    Mentre sfrecciavano attraverso una stazione, l’occhio di Henry catturò il nome che annunciò a voce alta: "Forte dei Marmi! Né Dino né Ossi prestarono molta attenzione a questo nome, ma questo fece battere forte il cuore di Henry per la stazione successiva, Viareggio. Oh, se solo Mona sapesse che le sto passando così vicino! Henry aveva trascorso molte ore splendide sulle sue spiagge sabbiose, prima con la sorella Anna e il marito Frederico, poi con Mona. Come avrebbe desiderato le sue vacanze lì, dopo l’estenuante assillo per i suoi esami medici!

    Dino si alzò all’improvviso. Era Forte dei Marmi quello di poco fa?

    Henry annuì.

    Allora ormai abbiamo superato La Spezia.

    E allora? chiese Ossi.

    "Non capisci? Quella camicia nera diceva che non dovevamo guardare. Molto probabilmente intendeva la

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