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Un ragazzo qualunque
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E-book119 pagine1 ora

Un ragazzo qualunque

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Info su questo ebook

Paride ha diciassette anni, vive con la madre e il fratello a Villaleda, pittoresca città della costa abruzzese. Quando incontra Aurora, crede di avere trovato un luogo sicuro in cui ripararsi nei momenti più burrascosi. Ma la vita non sempre è come uno se la immagina. Con l’aiuto di Donatella, assistente sociale neolaureata, affronterà i timori e le insicurezze che segnano il passaggio obbligato dall’adolescenza all’età adulta.
LinguaItaliano
EditoreStreet Lib
Data di uscita9 giu 2024
ISBN9791223048351
Un ragazzo qualunque

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    Anteprima del libro

    Un ragazzo qualunque - Davide Napolitano

    Prologo

    Un velo di luce si faceva spazio nel cielo grigio di dicembre, mentre i tetti della città erano avvolti dalla nebbia più umida e fredda del mattino.

    Un postino dal faccione lievemente butterato, le sopracciglia folte e gli occhiali da vista che si reggevano in un equilibrio precario sulla punta del naso era affaccendato a smistare la corrispondenza degli inquilini del palazzo in Via Oddone 12 a Mesciano Terme, quando un uomo con un pesante cappotto scuro sbucò nell’androne del palazzo.

    «Mi scusi, conosce il signor Pellegrini?» domandò il postino, soggiungendo: «Al citofono non risponde nessuno».

    «Sono io Pellegrini» rispose l’uomo, e allungò prontamente una mano per ricevere la raccomandata.

    La scritta stampata in lettere minuscole con inchiostro di colore azzurro sul fronte della raccomandata dissolse ogni dubbio sulla sua origine.

    Strappò la busta ed estrasse la lettera, dispiegandola davanti a sé.

    Una lontana conoscente si era affidata a due righe di quindici parole per comunicargli vicinanza in un momento di lutto e tristezza. Il contenuto recitava pressappoco così: « Ti sono vicina in questo doloroso momento e ti porgo le mie più sentite condoglianze».

    Lo assalì un improvviso capogiro, vacillò sui piedi malfermi e appoggiò una mano contro la parete di fronte per mantenersi in posizione eretta mentre il sudore gli imperlò la fronte corrugata.

    Sua madre aveva perso la battaglia più lunga e difficile della vita.

    A quasi trentaquattro anni era diventato improvvisamente orfano.

    Dopo una notte inquieta, trascorsa insonne, in cui gli risultò faticoso persino restare disteso sul letto a causa dei pensieri martellanti, chiuse la porta dell’appartamento con l’animo ancora appesantito dall’infausta notizia del giorno prima.

    Sul pianerottolo attese l’ascensore in un silenzio gravido di incertezze e ricordi.

    La morte della madre era riuscita ad atterrirlo, inchiodandolo al presente e svuotandolo da qualsiasi emozione. Adesso nulla sembrava essere come prima, ogni cosa appariva fragile e precaria.

    Allentò il colletto troppo stretto della camicia, una fitta lancinante allo stomaco lo costrinse ad abbassare lo sguardo sulle scarpe che odoravano di cuoio nuovo, a stento riuscì a reggersi sulle gambe improvvisamente molli.

    Si disse che fosse arrivato il momento di tornare a Villaleda per incontrare il fratello che non l’aveva avvisato né della morte e né del funerale della madre.

    Erano cambiati entrambi, ormai. Il loro rapporto dapprima saldo come le radici che affondano nel terreno più duro era finito per consumarsi come il fuoco non più alimentato dalla legna durante la notte.

    A volte accade che la vita separi ciò che in principio è legato saldamente, fratelli compresi.

    Era diventa una parola strana, fratello. Una parola dal significato inafferrabile come la nebbia raccolta a mani nude. All’udirla da ragazzo, quando credeva che fosse la paura a ispirare il rispetto nelle persone, scattava come se punto da uno spillo, adesso invece ne percepiva soltanto un vuoto, una mancanza difficilmente spiegabile a parole. Neanche credeva più possibile provare dei sentimenti, perché sepolti e ignorati a lungo, per la madre. Un’altra parola straniera, madre. Una parola ambigua da risultargli dolorosamente sfuggente.

    Le porte dell’ascensore si aprirono con uno scatto metallico. Era il momento di tornare a casa, qualunque fosse il suo significato.

    Capitolo 1

    Il portone del palazzo cigolò nel silenzio della sera. Paride Pellegrini, diciassettenne dagli occhi castano chiaro che ricordavano il terreno inaridito dal sole d’agosto, sollevò lo sguardo sulle finestre illuminate che si affacciavano in basso su di lui. Nessuno sembrava spiarlo dietro i vetri del caseggiato popolare.

    La pioggia cadeva lenta e sottile, come l’acquerugiola più ostinata. Il temporale aveva da poco oltrepassato il cielo scuro sopra la città abruzzese, ma l’aria era rimasta fredda da gelare le ossa.

    Paride sollevò il colletto della giacca trapuntata verde oliva, sistemò il ciuffò ribelle sulla fronte e infilò una mano nei jeans per controllare che l’involucro di hashish fosse ben nascosto nelle mutande.

    Si era attardato fin troppo, doveva tornare a casa, non voleva lasciare a lungo il fratello da solo con la madre, la quale non sarebbe stata affatto indulgente sul suo ritardo.

    Sull’autobus salì senza vidimare il biglietto, l’autista si accorse della mancata timbratura perché aggrottò la fronte e borbottò del disappunto, eppure si limitò soltanto a seguirlo con uno sguardo di rimprovero dallo specchietto retrovisore.

    Mentre l’autobus avanzava cautamente sulla strada provata dal temporale e illuminata dai fari alogeni delle automobili che procedevano nel senso opposto di marcia, Paride fissò le sottili gocce di pioggia scivolare sulla superficie esterna del vetro.

    Si disse che le persone più forti e resistenti erano fatte di quel materiale, perché si lasciavano scivolare addosso i timori e le avversità della vita. Sembrava ignorare la facilità con cui si può infrangere il vetro. C’è un punto di rottura nelle cose e nelle persone che non conosceva a diciassette anni.

    Sul pianerottolo di casa armeggiò con le chiavi, la serratura sembrava bloccata. Al di là della porta si udì un rumore di passi soffici ma veloci, come di piedi scalzi. Qualcuno dall’interno dell’appartamento fece scattare la serratura. Un bambino di circa sette anni si affacciò timidamente alla porta. Aveva una zazzera ingarbugliata di capelli ricci, nerissimi, e gli occhi azzurri, tendenti al verde, così diversi dai suoi. Non somigliavano affatto. Chiunque avrebbe dubitato fossero fratelli.

    «Sei tornato!». Daniele gli saltò addosso, abbracciandolo.

    «Torno sempre, lo sai» gli sussurrò all’orecchio Paride, stringendolo forte a sé.

    Daniele sciolse l’abbraccio e lo prese per mano, accompagnandolo in casa.

    L’aria era asfissiante, si respirava un odore pungente di hashish da spezzare il fiato nei polmoni. Paride si guardò attorno preoccupato, come alla ricerca di qualcosa. Un portacenere ricolmo di cicche, una bottiglia di vino rosso e due calici in vetro, uno dei quali macchiato di rossetto, giacevano abbandonati a terra, vicino al divano, mentre la finestra del soggiorno era chiusa.

    Per settimane aveva chiesto alla madre di fumare fuori casa, diversamente l’asma del fratello si sarebbe inesorabilmente aggravata. Sia il pediatra che gli assistenti sociali del Comune si erano lamentati più volte, quest’ultimi minacciato una segnalazione al Tribunale per i Minorenni a L’Aquila.

    «Mamma è da sola?» chiese Paride.

    «Sì, è andata a dormire».

    Paride sospirò, sollevato.

    «Hai fatto i compiti di scuola per domani?».

    Daniele annuì con un cenno del capo. Aveva gli occhi lucenti, come pieni di stelle.

    «Hai preparato anche lo zaino?».

    Daniele rispose nuovamente di sì.

    Si udì un rumore di passi, come un corpo stanco e affaticato. La madre sopraggiunse in ciabatte, il corpo esile, fasciato da una vestaglia da notte troppo leggera per la stagione fredda, e i capelli raccolti malamente in uno chignon fissato da una forcina.

    Lo schiaffo arrivò senza preavviso.

    «Dovevi tornare a ora di cena!» esclamò furente.

    «Mi dispiace» mormorò Paride a testa bassa.

    Daniele indietreggiò, spaventato.

    «Ho provato a chiamarti più di una volta. Perché hai il cellulare spento?».

    «La

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