Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Confini incerti
Confini incerti
Confini incerti
E-book241 pagine3 ore

Confini incerti

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Confini incerti è un libro irrinunciabile per chi voglia avere anche una chiave d’accesso alla storia contemporanea di quell’area geografica, dove più che altrove la gente ha vissuto i peggiori scontri e drammi del “secolo breve”.

Ci si ritrova tra le mani un libro non solo scritto con uno stile impeccabile, ma pieno di umorismo e di aneddoti, ricordi e documenti che tradizionalmente sfuggono al retaggio degli anni, così come di dolorose memorie.

Qui la storia non viene raccontata per imprese vittoriose e scelte tattiche o politiche, ma attraverso la vita vera, i pensieri e i destini di persone vere.

La trama prende avvio a Cakovec, che ora si trova in Croazia, dove coabitano croati, ungheresi, sloveni, tedeschi e serbi. È qui che vivono gli Harmath, una famiglia della piccola nobiltà ungherese, di origine croata: Nandor, la moglie Cecilia e i figli Eugenio, Irene, Dusi e Nandor Junior.

Dopo la prima guerra mondiale, con le nuove frontiere decretate a Versailles, gli Harmath diventano profughi, perdono tutti i loro beni e si trasferiscono a Budapest. I figli, due donne e due uomini prendono quattro strade molto diverse, quasi fossero quattro stereotipi di come poteva essere interpretata la vita nel ventesimo secolo. Quattro figure e quattro destini tratteggiati con grande capacità narrativa, un felice esempio di storia romanzata che conserva però autenticità, e viene offerta con molta sincerità.

Confini incerti è un libro complesso, drammatico, dove l’incertezza dei confini non è soltanto geografica, ma alberga nel cuore stesso dei personaggi, alla ricerca di un loro posto nel mondo.
LinguaItaliano
Data di uscita27 nov 2019
ISBN9788899932695
Confini incerti

Correlato a Confini incerti

Titoli di questa serie (10)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Confini incerti

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Confini incerti - Agi Berta

    COLOPHON

    Tutti i diritti riservati

    Copyright ©2019 Oltre edizioni

    http://www.oltre.it

    ISBN 9788899932695

    Titolo originale dell’opera:

    Confini incerti

    di Agi Berta

    Collana Oltre confine

    Sommario

    Autore

    Prologo

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Epilogo

    Appendice

    AGI BERTA

    Agi Berta è nata in Ungheria nel 1952, A 18 anni ottiene una borsa di studio per proseguire gli studi in Polonia. Il matrimonio la porta a Napoli, dove vive da oltre quattro decenni e dove si è laureata in Storia dell’Europa Orientale. Insegna in una scuola media. Questo è il suo primo romanzo che è stato preceduto dalla pubblicazione di racconti, da collaborazioni con giornali, e dalla traduzione all’italiano di un classico moderno ungherese, Epepe di Ferenc Karinthy, per Voland.

    PROLOGO

    Mia nonna sta morendo. In questo preciso istante, a milletrecento chilometri di distanza. Magari vorrebbe bere e non ce la fa a suonare il campanello per chiamare l’infermiera. E io sto qui. Faccio la mia vita di sempre, lavoro, famiglia, un po’ di scrittura, economico surrogato di un analista. Non sono particolarmente triste o abbattuta, mi sento abbastanza serena di fronte all’inevitabile: ciò che mi pesa di più è l’impotente attesa. Vorrei starle vicino, accarezzarle le mani magrissime, toccare con delicatezza la pelle sottile, massaggiarle le gambe irrigidite e gonfie, ascoltare il suo respiro e basta. Farla bere quando lo desidera, combattere la sua tosse insistente con lievi colpi sulla schiena o pulire la sua bocca stanca, perché da sola non riesce più a espellere il muco. Vorrei starle vicino per aiutarla a superare la soglia tra la vita e la morte, accompagnarla fino a quel punto estremo dove possono arrivare i vivi. Invece sto qui, somatizzo la mia impotenza in bruciore di stomaco, fastidioso e inutile, perché mi fa solo soffrire ma non è capace di impedirmi di ingozzarmi nei momenti più difficili. Vorrei sentire la sua voce rauca ma inconfondibile, mentre mi affida i suoi ricordi.

    Sono tornata a casa soltanto per cinque giorni, quanto durano le vacanze di Pasqua. Non mi sono mossa dalla casa di cura. Ho dormito con lei nello stesso letto. Solo l’ultima notte un’infermiera mi ha permesso di dormire un po’ sul lettino del medico di guardia. Abbiamo parlato tanto. Dopo poche frasi la nonna si appisolava, ma appena riprendeva un poco di forza, continuava. Con i ricordi. Ricordi inaspettati, amori inconfessati, storie.

    Il giorno dopo che me ne sono andata, ha urlato con le infermiere perché voleva me, non accettava il bicchiere d’acqua da nessun altro, rifiutava il pannolone con disdegno:

    «So che sto per morire ma non ho mai fatto la pipì sotto, non mi mortificate in questo modo. Aspettate che perda conoscenza, non adesso. Dov’è Agi? Lei non vi permetterebbe di umiliarmi, lei mi ha strappato di dosso queste cose da vecchi rimbecilliti. Lei sa che io non lo farei mai.»

    Dio, che strazio stare qui.

    Vorrei almeno rievocare in qualche modo la sua vita, quello che conosco, che ricordo. Si dice che i moribondi rivivano nell’ultimo istante tutta la loro vita. Vorrei riviverla anch’io insieme a lei. Ne so parecchio. Da bambina, giocando sotto il tavolo da pranzo, ascoltavo con attenzione i discorsi degli adulti. Mi affascinava racimolare notizie, informazioni, pettegolezzi, anche perché non erano destinati a me. Da adolescente invece non prestavo più molta attenzione ai racconti, e anche se talvolta la sera ci sedevamo in terrazza a chiacchierare, appena il discorso scivolava in languide rievocazioni del passato, o il dialogo diventava monologo, lasciavo cadere anch’io il filo della discussione e pensavo alle mie cose, lasciando che i frammenti di vita vissuta dai miei cadessero nell’oblio.

    La nonna è morta il 4 aprile 1996. Aveva vicino la mia amica Szepi. Non smetterò di essergliene grata finché vivo.

    CAPITOLO 1

    Dusan

    Mia nonna si chiamava Ida Harmath. Era nata il 29 maggio 1906 a Csàktornya. Il padre, Nandor, era il sindaco stimato e amato della città, la madre Cecilia una casalinga. La piccola Ida, soprannominata Dusi (Anima in croato), aveva già un fratello di sette anni, Eugenio, e una sorella di sei, Irene. Tre anni dopo nacque un altro fratellino, il piccolo Nandor Junior.

    Csàktornya, o Cakovec in croato, si trovava nella parte settentrionale della Croazia, vicinissima all’incrocio di tre frontiere: quella austriaca, l’ungherese e, appunto, quella croata. Un punto d’incontro, dunque, in un paese già di per sé complesso dal punto di vista etnico. All’epoca la città non aveva una chiara connotazione nazionale. Era abitata in prevalenza da contadini croati, ma la piccola borghesia, gli intellettuali e gli impiegati erano per lo più ungheresi. Tra i commercianti molti erano sloveni o tedeschi di origine ebraica. Tra i militari prevaleva l’elemento serbo. Fare il sindaco in questo groviglio di nazionalismi, nel periodo precedente lo scoppio della prima guerra mondiale, richiedeva notevoli doti diplomatiche. Il signor Harmath aveva la fiducia della maggior parte delle minoranze, anche perché la sua stessa famiglia rappresentava un miscuglio etnico che rispecchiava abbastanza fedelmente la composizione multietnica dell’Impero.

    In origine, infatti, la famiglia Harmath si chiamava Hadrovics. Erano stati croati di nome e di fatto fino al 1849 quando uno degli avi, il signor Dusan Hadrovics, infiammato dalle promesse di libertà e giustizia dei rivoluzionari ungheresi, decise di combattere con le armi contro i comuni oppressori di croati e ungheresi: gli Asburgo. Era un fatto abbastanza insolito perché i diretti oppressori dei croati erano gli ungheresi, a loro volta dominati dall’Austria, e i rivoltosi magiari, benché sostenuti da ideali romantici di libertà, non avevano alcuna intenzione di estendere il principio d’indipendenza ai popoli a loro soggetti. L’avo però non si lasciò scoraggiare da queste contraddizioni e combatté valorosamente gli eserciti imperiali, tanto da ricevere una leggera ma vistosa ferita al viso, di cui fu fiero fino alla morte.

    L’esercito imperiale, sostenuto dalle truppe della Santa Alleanza, in poco più di un anno soffocò nel sangue la rivoluzione ungherese. Alla resa dei conti alla Croazia, come ricompensa per la sua buona condotta – non solo perché non si era schierata con l’Ungheria, ma perché aveva partecipato militarmente anche al suo annientamento – furono concessi alcuni privilegi politici. Pochi per la verità, molti meno di quanto i nazionalisti croati avessero sperato. Dunque i croati avanzarono nella graduatoria delle preferenze dell’imperatore, mentre gli ungheresi subirono una dura repressione.

    Il signor Dusan – caso davvero singolare – condivise invece la sorte dei patrioti ungheresi; sequestrarono una parte dei suoi beni, venne interdetto da tutti gli uffici pubblici e subì anche una lieve condanna alla detenzione. Il tribunale, oberato dal lavoro perché gli arrestati erano migliaia, non fece indagini eccessivamente scrupolose e al signor Dusan contestarono solo un generico «atteggiamento irriguardoso verso la casa regnante». Sull’origine della famosa ferita, ricevuta, pare, da un soldato dello zar nella battaglia di Muraszombat, non ci fu alcuna inchiesta.

    Ufficialmente, dunque, non venne mai dimostrata la sua attiva partecipazione alla rivoluzione a livello militare, anche perché durante quei mesi tumultuosi molti avevano lasciato la propria dimora per periodi più o meno lunghi, e l’assenza del signor Dusan, per motivi a noi ignoti, non era mai stata associata agli eventi bellici in corso. La questione del suo atteggiamento irriguardoso invece, alla quale era legata la condanna, non poteva essere messa a tacere, anche perché mezza città ne era a conoscenza.

    All’origine di tutto c’era un episodio preciso.

    Pochi mesi dopo il fallimento della rivolta un povero contadino ungherese mezzo ubriaco, in una taverna si era messo a discutere di politica con un gentil signore. Non avrebbe potuto scegliere compagno peggiore per le sue esternazioni. L’amabile gentiluomo era in realtà una delle migliaia di spie di cui allora pullulava il paese. Non fu chiaro quale fosse il tema della discussione, pare che il poveretto avesse rimpianto Kossuth e i suoi rivoluzionari. Fatto sta che non tornò più a casa perché venne arrestato all’uscita dell’osteria. La giustizia di allora aveva tempi ben più celeri di quella di oggi. Il contadino venne condotto immediatamente in carcere, ma poiché le galere erano piene di personaggi assai più importanti, e il suo caso non richiedeva indagini approfondite, nel giro di pochi giorni lo condannarono a venticinque frustrate. Le condanne all’epoca venivano eseguite pubblicamente, in modo che anche i cittadini analfabeti avessero una visione chiara della legge. Il signor Dusan, che con tutta probabilità era presente alla punizione nella sua qualità di impiegato della pubblica amministrazione (per i rappresentanti della piccola nobiltà incarichi del genere rientravano nei privilegi di casta, indipendentemente da qualsiasi attitudine essi dimostrassero) al termine del vergognoso spettacolo commentò così la sentenza:

    «È giusto chiarire una volta per tutte che il nostro culo appartiene all’imperatore, mentre gli affari del cuore ciascuno deve tenerli per sé.»

    In quella parte dell’Europa, due argomenti erano considerati degni di appartenere agli affari del cuore: l’amore e la libertà, entrambi capaci di infiammare gli animi.

    (Quella frase del signor Dusan entrò a far parte del gergo familiare. Mio nonno la citava ogni volta che aveva qualche divergenza di vedute con il potere. Cioè sempre. «Il mio culo appartiene a Horthy, il mio culo appartiene a Stalin…»)

    La frase del signor Dusan fece scandalo ma gli procurò anche non poche simpatie tra la gente e, proprio per evitare che tali simpatie potessero essere mostrate con eccessivo calore, il suddito irriguardoso dovette essere arrestato. Il giudice, un povero diavolo austriaco mandato a Cakovec per sostituire i suoi colleghi ungheresi (giudicati troppo indulgenti nei casi di vilipendio) e che in pochi mesi aveva emesso più sentenze che non durante tutta la sua carriera ventennale tra le verdi colline del Tirolo, fu ben lieto di aggrapparsi all’unica attenuante che il signor Dusan avesse: il cognome croato. Un croato non poteva essere un ribelle sanguinario come quei barbari pronipoti d’Attila, perciò la sua condanna fu abbastanza lieve.

    L’aspetto economico non gli causò gravi danni. I vecchi colleghi, i compagni di caccia e delle partite a carte, fecero in modo che gli confiscassero i terreni più aspri e incolti. La perdita di questi appezzamenti risultò alla fine un gran bell’affare: da una parte, permise all’avo ribelle di atteggiarsi a perseguitato politico – cosa che fece con enorme piacere – dall’altra ridusse notevolmente la sua quota di tasse da pagare.

    Il periodo della detenzione fu uno dei più divertenti della sua vita. Non dovette affrontare una prigionia lunga e severa in una fortezza inaccessibile, come Silvio Pellico, ma rimase nella piccola galera di Cakovec servito dai secondini, pochi giorni prima suoi subalterni. Inoltre era in ottima compagnia, giacché la stragrande maggioranza degli intellettuali e buona parte della nobiltà illuminata erano esuli o prigionieri. I carcerieri, poveri diavoli, assumevano un aspetto truce solo durante l’ispezione del direttore, ovviamente austriaco. Per il resto erano più che disponibili a chiudere un occhio e dietro compenso anche tutti e due, per la mancata osservanza delle regole. E le regole, di fatto – se possiamo dar credito ai racconti tramandati dai figli del signor Dusan – si trasgredivano ogni giorno.

    I bei tempi andati! Non c’era bisogno di permessi complicati, né di certificati di buona condotta per facilitare i rapporti familiari, almeno non nel caso di questi piccoli rivoluzionari da operetta. L’amministrazione già allora risparmiava sul vitto degli arrestati e tollerava, anzi promuoveva, l’iniziativa delle consorti di integrare la mensa piuttosto parca del carcere.

    Le donne, a quei tempi, avevano poca dimestichezza con la politica. E le mogli, perlomeno all’inizio, avevano vissuto le condanne dei mariti, dei figli e dei padri con una certa vergogna. Forse alcune di loro sentivano un vago orgoglio per il ruolo attribuito loro dalla storia, ma la grande maggioranza provava disagio e la sera, quando si presentavano con un panierino sotto al braccio, si nascondevano sotto ampi mantelli e cappucci. Non alzavano lo sguardo, non parlavano tra loro. Consegnavano velocemente i viveri ai parenti nel parlatorio e dopo qualche parola di commiato, ciascuna tornava mesta a casa per provvedere ai bisogni della famiglia.

    Dopo poche settimane di detenzione però, i mariti notarono con piacevole stupore che le pietanze diventavano più ricercate, più fantasiose. Non fu l’amore coniugale e nemmeno l’amor patrio a spingere le pie donne a faticare oltre misura per preparare piatti sempre più complessi, ma l’unico motore capace di stimolare le femmine di tutti i tempi: la competizione. Era come se fosse crollata una diga. Niente le poteva più fermare. Dal paniere uscivano le posate d’argento, i piatti di porcellana del servizio della festa, i tovaglioli di batista finemente ricamati. Non bastava più loro consegnare il paniere al coniuge, le signore assistevano alle cene, osservando non tanto l’amato affamato, ma i piatti portati dalle altre. Poi, una cosa tira l’altra, cominciarono a scambiarsi le ricette e ad assaggiare le pietanze più stuzzicanti. In seguito le consorti degli eroi affidarono i bambini alla servitù per uscire e poter «assistere meglio» – e lo dicevano con un doloroso senso del dovere – il povero disgraziato marito, che dimagriva a vista d’occhio senza la loro amorosa compagnia. Le cene però richiedevano anche una certa presenza. Non si sa quale di loro avesse tolto per prima il grembiule e indossato il vestito della domenica ma ora, con i mariti sotto chiave, le signore erano diventate le amministratrici uniche e assolute dei beni di famiglia. Anche i discendenti delle sarte di Cakovec ricordano gli anni tra il 1849 e il 1850 come un periodo d’oro.

    Per tutte fu un’epoca davvero indimenticabile, mai la loro vita sociale era stata così effervescente. In carcere poi cambiavano anche le regole del bon ton. Gli uomini dopo cena non si ritiravano più – come era abituale nel mondo esterno – per giocare a carte, anche perché allora non facevano altro tutto il giorno, ma si intrattenevano amabilmente con le loro signore. Nascevano amicizie, forse anche amori. Sarebbe un grave errore credere che fosse così ovunque, ma a Csakovec, isola felice, la repressione imperiale si fece sentire in modo blando.

    Dopo sei mesi di carcere il signor Dusan riconquistò la libertà. Era stato anche licenziato dall’amministrazione comunale, dove in precedenza aveva prestato un servizio non facilmente definibile. Forse questa condanna supplementare gli fu ancor più gradita delle altre clausole della pena, perché la vita d’ufficio era sempre stata per lui un dovere quasi insopportabile.

    Dunque il primo contatto della famiglia Hadrovics con gli ungheresi, anche se in apparenza poco fortunato, lasciò piacevoli tracce nell’animo del signor Dusan, e cambiamenti alquanto positivi nel suo quotidiano. Per consacrare la sua definitiva scelta di campo l’avo battagliero, appena liberato, e nel momento storico meno opportuno, chiese la magiarizzazione del suo cognome. Le pratiche burocratiche furono lunghe, perché dopo una rivoluzione persa non era facile produrre motivazioni valide alla richiesta di cittadinanza presso un popolo che, secondo i progetti neppure tanto segreti del governo austriaco, sarebbe dovuto scomparire del tutto dalla faccia della terra come stato autonomo. Durante il censimento della popolazione del 1851, la cittadinanza dei sudditi fu stabilita non sulla base di una dichiarazione personale, ma sulla «somiglianza del cognome con nomi tedeschi». Un criterio piuttosto labile, certo, che tuttavia aiutò non poco il governo a dimostrare che l’agonia dell’Ungheria era fisiologica e non dovuta a una repressione, come alcuni cercavano di dimostrare. In questo contesto, il gesto di una sola persona che in modo così poco opportuno decideva di cambiare nazionalità, equivaleva a un’aperta ribellione.

    Nel 1849 gli ungheresi, dopo la rivolta soffocata nel sangue, iniziarono un periodo di resistenza passiva boicottando i prodotti austriaci, ostacolando le riforme politiche della corte di Vienna, riuscendo di fatto quasi a paralizzare la macchina imperiale. In quell’ostruzionismo, il patriottismo riuscì a unire interessi assolutamente contraddittori: i nobili si opponevano alle riforme, talvolta anche lungimiranti, di Francesco Giuseppe –per certi versi il precursore dell’idea di un’Europa confederale, benché in scala ridotta – perché minacciavano i loro privilegi di casta. I borghesi e il popolo – questo benedetto popolo chiamato in causa ogni volta che c’era bisogno di martiri e di veri sacrifici – pure si contrapponevano a qualsiasi riforma imperiale, anche a quelle che li avrebbero protetti dallo strapotere della nobiltà. Solo i primi socialisti avevano cercato timidamente di illuminare i loro seguaci sulle palesi incongruenze che vedevano unite classi di norma antagoniste nella sacra lotta contro l’oppressore, ma pochi li ascoltarono. E non era bello guastare l’ebbrezza nazionalista con discorsi imbarazzanti.

    Il governo di Vienna, dopo una decina di anni di oppressione dura che però affondava nel morbido muro di gomma dell’ostruzionismo magiaro, alla fine si arrese e con una Intesa, sancita dalla costituzione del 1872, creò il cosidetto Impero Austro-Ungarico. All’Ungheria, oltre che l’uso del nome, venne concessa la possibilità di avere un parlamento autonomo e una politica interna indipendente, che comprendeva l’istruzione e la giustizia, mentre la difesa e l’unione doganale rimanevano sotto la direzione di un governo centrale al quale però partecipavano anche i delegati magiari.

    Fu una bella vittoria ma, come spesso accade, i paladini della libertà e dell’indipendenza di rado agiscono seguendo principi validi per tutti gli oppressi, ma più spesso e ovunque si muovono solo seguendo i propri. Infatti gli ex-rivoluzionari, i grandi patrioti, pronti a versare il loro sangue per l’indipendenza, dimenticarono presto come fosse amaro il pane della schiavitù e il nuovo governo magiaro autonomo fece ben poco per le minoranze etniche presenti sul suo territorio – oltre il cinquanta per cento della sua popolazione. Nel parlamento centrale i deputati ungheresi si opposero con fierezza alle rivendicazioni dei Cechi della Boemia, che pure avrebbero voluto avere un posto di rilievo, trasformando magari la duplice monarchia in triplice, rafforzando così l’elemento slavo dell’Impero.

    Questa era la cornice politica del periodo in cui il signor Dusan, ormai anziano, attendeva con impazienza la risposta alla sua richiesta di magiarizzazione del cognome. Era uno dei più accesi sostenitori dell’autarchia magiara. Non permise mai ai familiari di acquistare

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1